L’eredità spirituale e teologica di papa Ratzinger per il futuro della Chiesa e dell’umanità
Livio Melina
Lectio magistralis tenuta il 31 gennaio al teatro Ferrini di Adria. L’incontro è stato promosso dall’Azione cattolica della Cattedrale.
Nel suo Testamento spirituale, pubblicato sull’Osservatore Romano subito dopo la morte, il 31 dicembre 2022, Benedetto XVI dopo aver ringraziato di cuore Dio, i genitori e tanti amici e collaboratori, esortava i suoi compatrioti bavaresi in primo luogo, ma poi anche tutti quelli che nella Chiesa furono affidati al suo servizio a non lasciarsi distogliere dalla fede, a rimanere saldi, a non lasciarsi confondere. Egli riconosceva che erano ormai sessant’anni che accompagnava il cammino della Teologia ed esprimeva l’intento fondamentale del suo ministero teologico e pastorale in questa missione: far emergere sempre di nuovo la ragionevolezza della fede. Per Joseph Ratzinger la teologia non era un’occupazione meramente accademica: si radicava invece intimamente nella sua testimonianza di fede e d’amore a Cristo e all’uomo. Per questo era sempre intessuta di vita e immersa nella lotta per la verità, che per lui era anche impegno per la dignità della persona umana.
Si può capire meglio questo tratto qualificante del suo pensiero illuminando tale osservazione iniziale con una tesi del grande teologo svizzero, Hans Urs von Balthasar, suo amico e collega per anni alla Commissione Teologica Internazionale. Nel secondo volume della sua Teo-Drammatica[1], egli spiega che esistono tre forme di teologia: c’è la teologia “epica” o oggettiva, che parla su Dio, considerandolo come un oggetto di conoscenza tra gli altri; c’è la teologia “lirica”, o soggettiva, che parla a Dio come effusione di sentimenti. E infine c’è la teologia “drammatica”, che essendone la forma propriamente cristiana, non si svolge e non può svolgersi mai fuori del dramma, che anzi è parte del dramma della storia della salvezza. Essa è sempre nello stesso tempo liturgia adorante e combattimento. E’ risposta alla prassi di Dio ed ha la forma insuperabile di una testimonianza nella fede e di un gesto cristiano della carità, con cui si edifica la Chiesa. Per Ratzinger la teologia è sempre stata caratterizzata da un legame intimo col ministero sacerdotale e da un tratto agonico, di lotta per la verità. Il motto del suo episcopato, “cooperatores veritatis”, tratto dalla terza lettera di Giovanni, esprime, secondo le sue stesse parole, pronunciate quando venne eletto arcivescovo di Monaco di Baviera nel 1978: «per un verso il rapporto esistente tra il mio precedente compito di professore e la nuova missione di vescovo. Anche se in modi diversi, quel che era e continuava a restare in gioco era seguire la verità, stare al suo servizio. E, d’altra parte, ho scelto questo motto perché nel mondo di oggi il tema della verità viene quasi totalmente sottaciuto; appare infatti come qualcosa di troppo grande per l’uomo, nonostante che tutto si sgretoli se manca la verità». Ecco la lotta della sua vita, sia come teologo, sia come pastore: proprio questo giustificata la lettura in unità della sua eredità di papa Ratzinger, teologo e pastore. Articolerò la mia presentazione sintetica della sua eredità in tre punti: il primato di Dio, il prima del Logos e il primato dell’amore.
1. Il primato di Dio
Fin dal 1959, quando era giovane professore a Bonn, Joseph Ratzinger avvertì la profonda crisi della Chiesa nell’epoca moderna, e la definì come la nascita di un nuovo paganesimo all’interno della Chiesa stessa[2]. Quarantun anni dopo, divenuto Cardinale Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, in una conferenza del 27 febbraio 2000, data in occasione del Grande Giubileo, egli definì tale crisi come una “crisi di Dio” e osservò che tale radice profonda veniva però nascosta ecclesiologicamente: ci si illudeva cioè che si trattasse di una crisi delle strutture della Chiesa, mentre in realtà essa toccava il cuore stesso della fede. Il problema riguardava l’interpretazione del Concilio Vaticano II e l’equivoco con cui era stato recepito: lo si intendeva come un Concilio che si era occupato soprattutto della Chiesa e della sua riforma liturgica, strutturale, pastorale. Si pensava che il problema fosse quello di un “aggiornamento”, in modo da rendere la Chiesa più attraente, più credibile, più conforme alla modernità. Ciò ha portato la Chiesa ad occuparsi di sé stessa, a ripensarsi in forma più collegiale o sinodale, con discorsi per addetti ai lavori, ma diventando però sempre meno interessante agli occhi della gente e degli stessi fedeli, con liturgie sempre più disertate, nonostante le riforme liturgiche e le presunte creatività pastorali. Ciò ha provocato un profondo “disorientamento”, radice della crisi. E invece, secondo Ratzinger lo stesso Concilio voleva subordinare il discorso della Chiesa al discorso di Dio, come dimostra l’architettura stessa dei suoi lavori e del suo messaggio. In primo piano infatti fu posta dai Padri conciliari la Costituzione sulla Sacra Liturgia, per dire che all’inizio sta l’adorazione. E quindi Dio. Questo inizio corrisponde alla norma della Regola benedettina: “Operi Dei nihil praeponatur”, “non si metta nulla prima della missione di rendere gloria a Dio”. E così anche la successiva riforma liturgica post-conciliare non fu più compresa e attuata secondo questo primato dell’adorazione, ma piuttosto come un libro di ricette che metteva al centro la comunità. Così la comunità finisce per celebrare sé stessa e perdere il senso dell’adorazione di Dio, al punto che le chiese diventano teatri, discoteche o ristoranti. In realtà la liturgia è fatta per Dio e non per noi stessi. Ha la forma di un banchetto, ma la sostanza di un sacrificio. L’idea che sacerdote e popolo dovrebbero guardarsi reciprocamente è solo moderna e completamente estranea alla cristianità antica dove ciò che è essenziale è che nella preghiera sacerdote e fedeli guardino insieme verso Oriente, verso Cristo che viene (Maranathà)[3]. Per questo da papa egli prescrisse che al centro dell’altare della celebrazione fosse posto, tra le candele, non il microfono, ma il Crocifisso, cui il sacerdote e il popolo guardassero insieme. Anche il discorso sulla Chiesa della Costituzione Lumen gentium, dovrebbe, secondo Ratzinger, evitare di interpretare in senso sociologico il titolo di “popolo di Dio”, strumentalizzandolo politicamente e democraticisticamente. Egli ha mostrato come tale appellativo nella Bibbia sia piuttosto raro ed indichi Israele nella sua relazione verticale privilegiata con Dio. Nella ecclesiologia conciliare è per lui centrale il riferimento trinitario, che viene ben espresso dal termine “communio”: infatti è Cristo la “luce delle genti”, il sole che viene dall’Oriente, mentre la Chiesa è luna che non risplende di luce propria, ma riflette quella del suo Signore. Il discorso sulla Chiesa è dunque anch’esso, prima di tutto, un discorso su Dio, e solo così esso è corretto. Solo se la Chiesa parla di Dio è interessante per il mondo. Nella sua grande trilogia su Gesù di Nazaret, osserva Benedetto XVI: “Qui sorge la grande domanda… ma che cosa ha portato Gesù veramente, se non ha portato la pace nel mondo, il benessere per tutti, un mondo migliore? Che cosa ha portato? La risposta è molto semplice: Dio. Ha portato Dio… Ora noi conosciamo il suo volto, ora noi possiamo invocarlo. Ora noi conosciamo la strada che, come uomini, dobbiamo prendere in questo mondo. Gesù ha portato Dio e con Lui la verità sul nostro destino e la nostra provenienza: la fede, la speranza e l’amore. Solo la nostra durezza di cuore ci fa ritenere che ciò sia poco… I regni del mondo… sono tutti crollati. La loro gloria… si è dimostrata apparenza. Ma la gloria di Cristo, la gloria umile e disposta a soffrire, la gloria del suo amore non è tramontata e non tramonta”[4]. Per questo a Subiaco, nel grande discorso tenuto alla vigilia della sua elezione al soglio di Pietro[5], egli denunciò il pericolo di “un nuovo moralismo”, le cui parole chiave sono giustizia, pace, conservazione del creato, parole che richiamano sì valori morali importanti, ma che riducono il nocciolo del messaggio di Gesù, cioè il “Regno di Dio”, ai “valori del Regno”, finendo poi per identificare questi valori con le parole d’ordine del politicamente corretto.
2. Il primato del Logos
Il secondo punto dell’eredità teologica di Ratzinger mi sembra essere la strenua difesa del primato del Logos, e quindi anche della ragione umana nella sua apertura alla verità. Dopo la stagione tragica e fallimentare delle grandi ideologie totalitarie, è subentrata quella della ragione “debole”, una ragione che rinuncia alla verità come ad una pretesa eccessiva e generatrice di violenza e sceglie la strada, apparentemente umile, del relativismo. È la posizione che fu di Gianni Vattimo, il quale auspicava il passaggio del cristianesimo dalla veritas alla caritas e affermava che “Dio non può essere che relativista, perché la salvezza delle anime non può dipendere dall’accettazione delle affermazioni” del Credo[6]. Contro questa deriva, Ratzinger mette in guardia sui pericoli di una religione sentimentale, avulsa dalla verità perché scardinata dal suo rapporto con la ragione, che lascia il campo libero al trionfo della ragione tecnica, la quale nella sua hybris del dominio manipolatore perde il senso del limite e vuole costruire l’uomo nuovo non più con la rivoluzione politica, ma con quella tecnologica. La fede cristiana deve aiutare invece la ragione ad avere maggior fiducia in sé stessa, a non autolimitarsi al visibile e al manipolabile, ma a sviluppare la sua tensione a conoscere, pur nei limiti della natura umana, le verità fondamentali dell’esistenza, a conoscere Dio. Sulla scorta dell’enciclica Fides et ratio di San Giovanni Paolo II, egli pone una domanda seria agli uomini del nostro tempo: “perché la ragione vuole impedire a sé stessa di tendere verso la verità, mentre per sua stessa natura è orientata al suo raggiungimento?”. E infatti senza risposte sui fondamenti dell’essere, anche la libertà viene messa in pericolo: “libertà e verità o si coniugano insieme o insieme miseramente periscono”. È questa la minaccia della “dittatura del relativismo”, sulla quale papa Benedetto tante volte ha attirato l’attenzione. Il cristianesimo deve quindi ricordarsi sempre di essere la “religione del Logos”, di essere fede nello Spirito Creatore, dal quale proviene tutto il reale. Quando questa convinzione di fede si è incontrata con il pensiero greco e romano è nata la cultura cristiana e l’idea stessa di Europa, nell’incontro fecondo di Gerusalemme con Atene e con Roma, secondo le parole utilizzate da papa Benedetto XVI, nel discorso al Bundestag di Berlino il 22 settembre 2011. Tocchiamo qui uno dei grandi temi dell’impegno teologico di Ratzinger che forma quasi un‘inclusione tra la prolusione all’Università di Bonn del 1959, che inaugurò il suo insegnamento accademico, e il suo discorso a Regensburg del 12 settembre 2006 che in qualche modo idealmente lo concluse. È un grande arco che ha al suo cuore la controversa questione della de-ellenizzazione del cristianesimo, cioè della sua emancipazione dalle categorie metafisiche del pensiero greco, un tema ritornato di grande attualità oggi con il sorgere nelle università americane ed europee della “Cancel culture” e del movimento woke[7]. Già nel 2004, nella prefazione alla riedizione della sua prolusione di Bonn del 1959, il card. Ratzinger aveva parlato di un tema, divenuto poi caro anche a papa Francesco: quello di un cristianesimo “in uscita” dal mondo occidentale per potersi inserire in altri ambienti culturali. Ma egli aveva escluso drasticamente il progetto della “de-ellenizzazione”, della svolta anti-metafisica e della rinuncia alla verità. Piuttosto aveva indicato il filo conduttore della sua riflessione teologica e della sua proposta pastorale nell’ impegno a “ritrovare il Centro” (wiederauffinden der Mitte), quel Centro che è il Cristo, Logos creatore e redentore mandato dal Padre. Secondo Ratzinger il progetto di “de-ellenizzazione” del cristianesimo ha radici lontane nel tempo e conosce tre ondate: la prima è quella della riforma luterana del XVI secolo, che auspicava la rinuncia alla metafisica di Aristotele e di Tommaso d’Aquino in nome del principio di “sola Scriptura”; la seconda è quella di Adolf von Harnack e della teologia liberale tra il XIX e gli inizi del XX secolo, che proponeva una fede priva di dogmi (“sola fides”) per ritrovare il messaggio cristiano originario, raggiunto col metodo storico-critico dell’esegesi biblica; la terza è quella dell’odierna teologia religionista di John Hick, Paul Knitter e Raimon Pannikar, per i quali tutte le religioni si equivalgono non avendo nessun valore conoscitivo, ma solo un significato pragmatico (“sola praxis”). Respingendo risolutamente la proposta di “de-ellenizzazione”, Ratzinger osserva che l’incontro tra ciò che è fede biblica in Dio e ciò che è greco, nel senso migliore della parola, cioè: la ricerca dell’Assoluto, è presente e attivo già all’interno della Sacra Scrittura. Non solo nella versione dei LXX di Esodo 3, in cui il nome di Dio rivelato a Mosè viene tradotto con l’espressione metafisica “Io sono Colui che è”, ma anche nel Prologo del vangelo di Giovanni: “in principio era il Logos”, e nella stessa predicazione dell’apostolo Paolo (il discorso all’Areopago di Atti 17, ma anche tutto il suo epistolario). Riferendosi alla grande tradizione cattolica, Ratzinger concorda con la critica di Sant’Agostino alle tesi relativistiche sulla religione, esposte dal letterato romano Marco Terenzio Varrone del secondo secolo prima di Cristo, nella sua opera Antiquitates: la fede cristiana non si basa sul mito, cioè sulle “favole dei poeti” (theologia mythica), né sull’utilità politica (come fa una “religione civile”: theologia civilis), ma piuttosto sulla verità rivelata ed entra quindi in dialogo privilegiato coi filosofi, alla ricerca dell’Assoluto (theologia naturalis)[8]. Essa pretende di essere la “religione vera”, non un sentimentalismo onirico o un moralismo politico. San Tommaso d’Aquino poi ammette che il Dio dei cristiani supera quanto pensato su di Lui dalla ragione filosofica, perché la Rivelazione trascende la natura, ma tuttavia afferma che si tratta dello stesso Dio dei filosofi, non di un altro Dio[9]. Per questo la proposta di Ratzinger all’uomo contemporaneo, nel grande discorso di Verona del 19 ottobre 2006, è quella di “allargare gli spazi della nostra razionalità, riaprendola alle grandi questioni del vero e del bene, coniugando tra loro la teologia, la filosofia e le scienze, nel pieno rispetto dei metodi loro propri e della loro reciproca autonomia, ma anche nella consapevolezza dell’intrinseca unità che le tiene insieme”. Il concetto moderno di ragione infatti, secondo il grande teologo bavarese, è stato indebitamente ristretto nell’ambito della razionalità scientifica e tecnologica, in un empirismo materialistico, che fa sparire la metafisica e ritiene superflua l’ipotesi di Dio, proponendosi come spiegazione unica e totalizzante del reale. La religione viene di conseguenza relegata nello spazio soggettivo e privato del sentimento ed esclusa dall’ambito pubblico. A questo razionalismo chiuso, Ratzinger obietta che una ragione che affermi la priorità dell’irrazionale sul razionale è intrinsecamente contraddittoria: essa finisce per negare il suo stesso valore conoscitivo. La conoscenza sarebbe solo un prodotto casuale e secondario dell’evoluzione irrazionale della materia, senza pretesa veritativa. Solo il cristianesimo, in seno al quale la scienza moderna è nata e si è sviluppata, garantisce il suo fondamento conoscitivo, quanto afferma il primato del Logos. D’altra parte, sul versante teologico e intra-ecclesiale, papa Ratzinger ammonisce che la rinuncia alla verità è letale per la fede. Oggi, invece, si preferisce impostare la questione diversamente. La rinuncia alla pretesa di verità nell’ambito della religione sembra un’esigenza necessaria dal dialogo tra le religioni e dalla tolleranza civile, all’interno di società pluralistiche. La situazione sembra quella descritta dalla parabola buddhista dell’elefante e dei ciechi, che il cardinale Ratzinger citò all’inizio della sua conferenza alla Sorbona di Parigi il 27 novembre 1999. Ecco le sue parole: «Una volta, un re dell’India del Nord riunì in un posto tutti gli abitanti ciechi della città. Poi davanti ai presenti fece passare un elefante. Lasciò che gli uni toccassero la testa e disse: “Un elefante è così”. Altri poterono toccare l’orecchio o la zanna, la proboscide, il dorso, la zampa, la parte posteriore, i peli della coda. Dopo di che il re chiese a ciascuno: “Com’è un elefante?”. E secondo la parte che avevano toccato, essi rispondevano: “E’ come un cesto intrecciato…”, “è come un vaso…”, “è come la bure di un aratro…”, “è come un magazzino…”, “è come un pilastro…”, “è come un mortaio…”, “è come una scopa…”. Allora – continua la parabola – si misero a discutere, urlando: “L’elefante è così”, “no, è così”, si scagliarono gli uni sugli altri e si presero a pugni, con gran divertimento del re». La disputa tra le varie religioni sembra, agli uomini di oggi, altrettanto ridicola e tragica, come questa disputa tra ciechi nati, tutti incapaci di vedere la realtà e con qualche impressione parziale di essa a disposizione. Così si è potuto ascoltare da un cardinale molto venerato l’affermazione sorprendente che “Dio non è cattolico”, e poi lo si è sentito ripetere anche a livelli più elevati. Ad essi rispose già con qualche anticipo il filosofo francese Jean Guitton: «Mi dispiace per gli altri, ma Dio è cattolico». E infatti Gesù disse: “Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo” (Mt 11, 27). Il cristianesimo non può rinunciare a rivendicare per sé stesso la qualifica di “religione vera”, come sempre affermato non solo dai Padri della Chiesa, da San Giustino martire a Sant’Agostino, ma anche da San Paolo nella lettera ai Romani e nel discorso all’Areopago di Atene. Senza questo fondamento nella verità e nella ragione, crolla anche la legittimità della missione a tutti i popoli, che viene fraintesa con un proselitismo irrispettoso della coscienza altrui. E invece essa è annuncio pubblico di una verità alla quale tutti aspirano e che Dio ha voluto rivelare in Gesù Cristo, unico salvatore, il quale alla fine del vangelo di Matteo, prima di ascendere al cielo dice ai suoi discepoli: “Ogni potere mi è stato dato in cielo e in terra. Andate dunque, ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho ordinato” (Mt 28, 19-20). Nessuna nuova traduzione in lingua corrente ha finora potuto togliere queste parole di Gesù dal vangelo.
3. Il primato dell’Amore
Non è un caso che la prima enciclica di Benedetto XVI sia stata dedicata all’amore: “Deus caritas est”. Infatti credere in Gesù Cristo è credere all’amore di Dio, che in Lui si è manifestato. Ascoltiamo le grandi parole del suo incipit: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (n. 1). La Rivelazione cristiana ci parla di un Logos che è libertà, amore personale e creativo, che interviene nella storia e chiama gli uomini, li incontra e li salva[10]. Egli non è puro pensiero che pensa sé stesso, ma realtà personale che ama. Il primato del Logos è così primato dell’amore creatore e redentore di Dio, principio stesso dell’essere, che garantisce che il senso dell’evoluzione non è la crudele vittoria del gene egoista e del più forte, ma l’amore concreto del prossimo. Così nel cristianesimo “il Dio dei filosofi” è anche “il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”, senza la contrapposizione dialettica di Blaise Pascal. Il cristianesimo è dunque la religione del Logos personale e creatore, che è all’origine di tutto e che è il destino di tutto: questo Logos ha il volto di Gesù di Nazaret, il “Dio con noi”, che ci viene incontro e che guarisce, con la sua carità (agape), il nostro amore di desiderio (eros), fragile e malato. Le due forme di amore, desiderio e oblazione gratuita, non si contrappongono ed escludono come ha proposto il teologo luterano svedese Anders Nygren nella sua opera famosa Eros e agape[11]. Piuttosto esse si incontrano e così il desiderio non è respinto, ma viene guarito e ritrova la sua vera grandezza. Gesù Cristo, dal cui cuore trafitto sulla croce scaturisce l’amore di Dio, è la sorgente originaria dell’amore, a partire dalla quale dev’essere definito anche l’amore umano. In ogni caso, anche per chi non crede, Ratzinger ritiene umanamente conveniente confrontarsi con la proposta cristiana, che mantiene un valore non solo privato, ma pubblico e attualissimo in favore del bene comune delle nostre società post-moderne. La proposta del filosofo olandese del XVII secolo Huig van Groote (Grozio) di basarsi su leggi razionali valide anche “se Dio non esistesse o non si curasse degli affari umani” si è rivelata inadeguata ed è miseramente fallita: è impossibile vivere i valori cristiani sradicandoli dalla fede che li ha ispirati, come affermò Romano Guardini, maestro riconosciuto di Ratzinger[12]. Occorre dunque trovare nuove basi per la convivenza giusta e pacifica e Ratzinger propone di rovesciare il detto groziano in quello di ispirazione pascaliana di “vivere come se Dio esistesse”, correndo il rischio di accettare sul piano pratico la scommessa della fede. Nel suo importante discorso del 22 settembre 2011 al Bundestag di Berlino, papa Benedetto ha sostenuto con argomentazioni convincenti che per la vita pubblica non basta un rimando al puro principio della maggioranza, ma è necessario riferirsi ad un concetto di “diritto naturale”, fondato ultimamente sulla ragione creatrice di Dio. Egli richiamò in quella circostanza che la verità della sentenza di Sant’Agostino: “Se togli il diritto, allora non troverai nulla che possa distinguere lo Stato da una grossa banda di briganti”[13] si era tragicamente verificata in Germania nell’esperienza tremenda del nazismo. Se il principio democratico della maggioranza non è sufficiente, come si può riconoscere ciò che è giusto? Non certamente per un puro argomento di autorità, di tradizione o basandosi su un positivismo della legge, ma solo riferendosi alla natura delle cose e ad una ragione capace di oggettività, che non possono ultimamente basarsi se non sul Logos della creazione. Proprio in questa idea di diritto naturale si trova il patrimonio culturale più significativo dell’Europa, che sorge dall’incontro fecondo di Atene, Roma e Gerusalemme, nell’incontro cioè tra filosofia stoica, diritto romano e rivelazione ebraico-cristiana[14]. Per rimediare alle mancanze della concezione positivistica di “natura” e di “ragione”, la proposta di papa Benedetto è quella, ancora una volta, di spalancare le finestre alla luce e di accogliere il linguaggio e la grammatica del Creatore. La grande sensibilità dell’uomo contemporaneo per la storicità e per la varietà delle culture conduce spesso a dubitare dell’immutabilità della legge naturale e quindi dell’esistenza di norme oggettive di moralità, valide per tutti, nel passato, nel presente e nel futuro[15]. Non si può certo negare che la vita umana e il pensiero si realizzino sempre in una cultura particolare, ma il progresso stesso delle culture dimostra che nell’essere umano esiste qualcosa che trascende le culture. Questo “qualcosa” è precisamente la natura dell’uomo, che è la misura della cultura e la condizione perché egli non resti prigioniero di nessuna delle sue culture particolari, ma affermi la sua dignità personale nel vivere conformemente alla verità profonda del suo essere.
Conclusione: quale eredità?
Ci siamo chiesti quale eredità del pensiero teologico e dell’impegno pastorale di papa Ratzinger resti valida oggi, per il futuro della Chiesa ed anche dell’umanità. Ho cercato di delineare tre punti fondamentali della sua testimonianza: il primato di Dio, innanzitutto, di un Dio che si manifestato in Cristo come Logos creatore e redentore, come Logos dell’amore. Permettetemi ora di concludere con un ricordo molto personale. Negli ultimi anni della sua vita, ho avuto il privilegio di sperimentare in maniera speciale la sua paternità nei miei confronti, sia a livello teologico, che personale. All’interno dei dialoghi avuti con lui, in vista della fondazione di una associazione teologica che abbiamo poi chiamato Veritas amoris, per poter continuare la missione originaria dell’Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, eretto nel 1981 da San Giovanni Paolo II e soppresso da papa Francesco nel 2019, egli mi inviò uno scritto di dodici pagine, nelle quali descriveva quali potessero esseri i sentieri di riflessione dell’antropologia teologica nel futuro. In queste pagine, ora pubblicate in un volume programmatico del nostro lavoro, egli faceva riferimento ad una figura simbolica particolarmente cara per lui: il cavaliere di Bamberga. Nel suo vecchio breviario, egli mi disse di custodire quell’immagine di una statua della Cattedrale di quella città bavarese, a ricordo di un suo compagno di studi, morto prematuramente e improvvisamente alla vigilia dell’ordinazione sacerdotale. “È una figura altomedioevale di classica bellezza, da cui traspaiono dignità e purezza umane, che non può non impressionare. È l’immagine di un uomo che ha vinto in sé stesso le forze del male e che senza affettazione è pronto a battersi per il bene”. In questa immagine di uno sconosciuto cavaliere si esprimeva l’entusiasmo del suo giovanile ideale sacerdotale, negli anni immediatamente successivi alla tragedia della seconda guerra mondiale, di una spiritualità ben diversa dagli stereotipi pietistici e kitsch dei “santi di gesso”. Quel cavaliere riflette un’immagine nello stesso tempo mite e nobile, ma non inerme, bensì forte. Come in realtà fu il papa Ratzinger sia come teologo che come pastore e papa: mite nell’animo, gentile nel tratto, ma forte nello spirito, come un vero e nobile cavaliere. Che sorpresa fu per me, quando qualche mese dopo la sua morte, ricevetti una telefonata da Mons. Georg Gänswein, che volle incontrarmi per consegnarmi una riproduzione in porcellana del Cavaliere di Bamberga, che stava nello studio del papa emerito: nel suo testamento, papa Benedetto si era ricordato di lasciarmela in eredità, segno del passaggio di testimone del suo ideale giovanile, che ora condivideva con me e con noi, riconoscendosi nell’entusiasmo per un nuovo inizio!
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[1] Hans Urs von Balthasar, Le persone del dramma: l’uomo in Dio, vol. II di Teo-Drammatica, trad. it. di G. Sommavilla, Jaca Book, Milano 1982, 58-65.
[2] J. Ratzinger, “Die neuen Heiden und die Kirche”, in Hochland LV, n. 51, Kempten 1958-1959, 1-11.
[3] J. Ratzinger, Prefazione al volume iniziale dei miei scritti, in Opera omnia, vol. XI. Teologia della Liturgia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010.
[4] J. Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007.
[5] J. Ratzinger, “L’Europa nella crisi delle culture”, 1° aprile 2005, Subiaco, Monastero di Santa Scolastica.
[6] Cf. R. Girard – G. Vattimo, Verità o fede debole? Dialogo su cristianesimo e relativismo, Transeuropa, Pisa 2006.
[7] Si veda: Rémi Brague, “¿Por qué el hombre occidental se odia a sí mismo?”, Fundación NEOS, conferenza tenuta a Madrid il 18 novembre 2024. Si veda anche il suo intervento: “Cancel culture” o cancellazione della cultura”, svolto il 21 settembre 2021 presso il Centro Culturale Francescano Rosetum di Milano, e poi pubblicato sulla rivista “Tempi” del 24 settembre 2021.
[8] Sant’Agostino, De civitate Dei, VI, 2. La citazione è ripresa da: J. Ratzinger, “Il cristianesimo, religione vera?”, in Fede, Verità, Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, 170-221.
[9] San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 1, a. 1. [
10] Cf. J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico. Con un nuovo saggio introduttivo, Queriniana, Brescia 2005, 141-180.
[11] Cf. A. Nygren, Eros e agape. La nozione cristiana dell’amore e le sue trasformazioni, EDB, Bologna 2011 (originale: 1930).
[12] Si veda: R. Guardini, La fine dell’epoca moderna. Il potere, Morcelliana, Brescia 1984. [
13] Sant’Agostino, De civitate Dei, IV, 4, 1.
[14] Si veda il volume di W. Waldstein, Ins Herz geschrieben, Das Naturrecht als Fundament einer menschlichen Gesellschaft, Sankt Ulrich Verlag, Augsburg 2010, più volte citato nel discorso di Benedetto XVI.
[15] Cf. Giovanni Paolo II, Enc. Veritatis splendor, n. 53.
Immagine: Foto della figura ceramica del Bamberger Reiter dal lascito di Sua Santità Benedetto XVI per il Rev.mo Mons. Livio Melina
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