Il Credo e la denominazione di Dio. In dialogo con la teologia femminista

Alberto Frigerio

Immagine: Symbolum Nicaeno-Constantinopolitanum. Icona raffigurante il Primo Concilio di Nicea con dieci uomini e un testo del Credo di Nizza in greco.. Via Wikimedia Commons, PD-100.

Il Concilio di Nicea del 325, di cui ricorre il mille settecentesimo anniversario, ha elaborato la formula di fede trinitaria, integrata dal Concilio di Costantinopoli del 381. Il Credo Niceo-Costantinopolitano è lo sviluppo di una formula di fede battesimale orientale, forse di Cesarea o Gerusalemme (il Simbolo Apostolico era invece la professione battesimale a Roma e Milano). La professione di fede cristiana nomina l’Unitrino come Padre/Figlio/Spirito Santo, ingenerando il sospetto, avanzato dalla teologia femminista, che sia funzionale al regime patriarcale che relega le donne in posizione subalterna rispetto agli uomini: «La teologia femminista avanza la critica che il simbolo viene usato per sostenere la subordinazione patriarcale delle donne. Lo fa sia attraverso il suo immaginario maschile, sia attraverso il modello gerarchico di relazioni divine inerenti alla struttura dei modelli dominanti del simbolo stesso»[1].

Per comprendere adeguatamente il senso del Credo e il riferimento alle tre figure che costituiscono la Trinità è necessario volgere lo sguardo al testo biblico, a partire da cui elaborare un’idonea visione teologica. Come insegna il Concilio Vaticano II nella Costituzione dogmatica Dei Verbum, la riflessione teologica trae alimento dalla narrazione biblica, che costituisce il prototipo di ogni discorso teologico ed è «anima Sacrae theologiae» (n. 24). In via preliminare è però opportuno illustrare e lasciarsi provocare dalla predetta critica femminista mossa alla nominazione maschile di Dio.

1. Istanza femminista

La teologia femminista s’inscrive nel quadro del movimento femminista[2], che avanza la «contestazione dell’organizzazione sociale patriarcale e dell’ordine culturale e simbolico fondato sulla distinzione gerarchica e sul dominio del maschile sul femminile»[3]. Il femminismo, di cui si danno diverse posizioni teoriche e strategie pratiche volte all’emancipazione della donna, confuta il sessismo, che ritiene le persone superiori o inferiori in base al sesso e si manifesta tramite l’androcentrismo, che assume il modello maschile come normativo per l’umanità, e il patriarcato, che struttura la società conferendo la gestione del potere unicamente o prevalentemente agli uomini. Nel femminismo si registrano tre ondate, della uguaglianza, differenza, indifferenza: nato per rivendicare l’uguaglianza tra uomini e donne, è maturato nella ricerca dello specifico femminile, auspicando in talune correnti radicali il superamento della differenza sessuale[4].

I prodromi della teologia femminista si rinvengono nel crescente interesse del femminismo per la Scrittura, attestato dal volume The Woman’s Bible, edito nel 1885 e 1898 dal comitato di revisione della Bibbia coordinato da Elizabeth Cady Stanton. Data di singolare rilievo è il 1973, anno in cui Mary Daly pubblica Beyond God the Father, cifra della critica femminista alla teologia cristiana. La teologia femminista nasce in prossimità alla teologia della liberazione: ambedue sono contestuali e del genitivo, correlate a una precisa tematica sociale, l’oppressione delle donne e dei poveri[5].

La teologia femminista avanza una critica al testo biblico, in cui gli impulsi egualitari, compendiati dal «discepolato di uguali»[6] battesimale (Gal 3,27-28), sarebbero sopraffatti da una narrazione patriarcale. L’esegesi femminista si distingue in tre forme[7]: radicale, che rifiuta la Bibbia per il suo supposto intento di assicurare il dominio dell’uomo sulla donna; neo-ortodossa, che considera la Bibbia un testo profetico, a cui ricorrere per la tutela dei deboli, donne incluse; critica, che indaga la posizione della donna nel movimento di Gesù e nelle comunità paoline, in cui sarebbe stato in vigore l’egualitarismo, celato negli altri scritti neotestamentari e nel transito dalla prima alla seconda generazione di credenti, che avrebbe condotto all’aporia di «equivalenza e subordinazione»[8].

La teologia femminista avanza altresì una critica alla tradizione teologica[9], critica che costituisce una variante dell’accusa di ellenizzazione del cristianesimo, secondo cui la concezione ellenistica del teismo, che predica l’immutabilità-eternità e l’onnipotenza divina, avrebbe inquinato la concezione cristiana originaria, non riuscendo a dire il mistero di un Dio incarnato, che entra nella storia, né il senso della croce, in cui Dio assume l’impotenza dell’amore. La visione tradizionale sarebbe poi dominata da un immaginario androcentrico, funzionale al regime patriarcale, che marginalizzerebbe l’esperienza delle donne, censurando le immagini femminili e materne correlate a dinamiche di uguaglianza, vicinanza, condivisione e tenerezza, di cui pure dà conto la Bibbia.

In sintesi, le pagine bibliche e la teologia tradizionale andrebbero bonificate da una visione distorta o comunque parziale della divinità, in specie rispetto al tema della paternità di Dio e altresì della mascolinità e filiazione di Gesù. Per quanto riguarda la paternità di Dio, sottolineerebbe in modo unilaterale l’energia fisica e la potenza maschile, talvolta con tratti dispotici e arbitrari, che legittimerebbero la supremazia dell’uomo sulla donna. Per quanto riguarda la mascolinità filiazione di Gesù, rafforzerebbero l’immagine patriarcale di Dio, ingenerando l’idea che la maschilità sarebbe parte essenziale dell’essere divino, e l’antropologia androcentrica, ingenerando l’idea che il sesso maschile godrebbe di particolare onore in quanto scelto dal Figlio di Dio.

Motivo per cui sarebbe lecito e anzi auspicabile rinnovare il discorso su Dio, autorizzato altresì dalla distanza che intercorre tra linguaggio teologico e realtà divina intenzionata, che invita a creare nuove costruzioni linguistiche. A tal fine, tra le teologhe femministe si registrano atteggiamenti tipici[10], volti a rimpiazzare le immagini maschili con quelle femminili, affiancare metafore femminili a quelle maschili, sostituire la visione personale di Dio con quella panteista, secondo cui tutto sarebbe Dio, o panenteista, secondo cui l’essere divino comprenderebbe e penetrerebbe l’intero universo sebbene non si esaurisca in esso. In sintesi, talune teologhe femministe ricorrono a un immaginario attento ai valori di reciprocità e sofferenza per amore e adoperano metafore femminili, parlando di Dio/Dea (R.R. Ruether), Dio Madre (S. McFague, U. King, M.-T. Wacker), Madre Nostra (E. Sorge), Colei che è (E.A. Johnson), adottando il termine Parola (R. Chopp), utilizzando il titolo di Spirita Santa (C. Halkes, E. Moltmann-Wendel), altre assumono una visione panteistica o panenteistica della divinità, che porrebbe l’accento sulla relazione, ovviando all’isolamento del Dio patriarcale del teismo classico (M. Daly).

Per concludere, la visione teologica femminista è foriera di elementi promettenti, che risultano però commisti a criticità. Sul piano biblico, l’approccio femminista alle Scritture dischiude guadagni ragguardevoli, in quanto una sua applicazione ponderata promuove la piena comprensione del volto di Dio e consente di apprezzare il valore e la polivalenza della figura femminile. In tal modo, corregge eventuali interpretazioni propense a legittimare il regime patriarcale e invita a ripensare il tema del potere nella Chiesa. D’altra parte, l’esegesi femminista risulta talora tendenziosa, ad esempio laddove promuove un’ermeneutica del sospetto androcentrico e ricorre ad argomenti ex silentio per convalidare le proprie tesi, sostituendo i testi con ricostruzioni ipotetiche e congetturali. Sul piano teologico, l’approccio femminista consente di puntualizzare il funzionamento analogico del discorso inerente al divino e permette di precisare il carattere salvifico dell’azione cristologica per riferimento alla dualità sessuale. D’altra parte, asserire che «l’esperienza delle donne», contestuale e parziale, è «fonte e criterio della teologia femminista»[11], assurgendo a criterio valutativo dell’indagine esegetica e dell’elaborazione teologica, contravviene il principio secondo cui la norma della teologia è la rivelazione. Certo, la teologia si qualifica come atto secondo, che è successivo alla pratica e finalizzato alla pratica. In tal senso, la preferenza conferita dalla teologia femminista all’esperienza lascia trasparire la valenza pratica della verità cristiana. D’altra parte, la teologia è atto secondo rispetto alla prassi dischiusa dall’evento cristologico, a partire da cui riconfigura l’esistenza. Motivo per cui la critica all’oppressione della donna deve promanare dal dato oggettivo offerto da Scrittura e Tradizione sotto la guida del magistero della Chiesa, certo ponendosi in ascolto delle domande e provocazioni correnti.

2. Testo biblico

Le mitologie e forme cultuali antiche comprendono riferimenti alla divinità in senso maschile e altresì femminile. Talune teologhe femministe asseriscono poi che la nominazione della divinità al femminile sarebbe preminente e correlata alla civiltà matriarcale primitiva, a cui sarebbe subentrata quella patriarcale, che avrebbe introdotto la nominazione della divinità al maschile al fine di giustificare la dominazione maschile[12]. Al di là dell’esattezza della diagnosi, va rilevato che le prime esperienze religiose e intuizioni mitiche evocano la Grande Madre, divinità femminile primordiale, signora della vita e madre dell’umanità, protettrice delle popolazioni, matrona del cosmo e delle stagioni. Fonte della vita e grembo della creazione, luogo protettivo, fonte di forza e fecondità, matrice primordiale della vita, la Grande Madre era immagine del femminile avente per rappresentante umana la donna. Nel tempo il culto della Grande Madre ha continuato a esistere in diverse tradizioni religiose e culturali, assumendo varie personificazioni e aspetti relativi alla fertilità, umana e cosmica: Terra Madre, Madre dei Cereali, Grande Dea, Gea, Gaia[13].

Accanto al culto della divinità come Madre si accosta poi l’appellativo di Padre, che varie tradizioni religiose hanno attribuito a Dio. È questo il caso di alcuni popoli mediorientali e mediterranei: Assiri, Babilonesi, Egizi, Greci[14]. In alcuni casi si fa riferimento alla paternità fisica di Dio verso i popoli e i loro re, appellandosi a un mitico atto di generazione, con lo scopo di garantire potere e stabilità al di là dei limiti umani[15]. Tra i popoli che nominano Dio al maschile si annovera l’antico Israele, sebbene la Bibbia esprima l’amore di Dio sia tramite la figura maschile che femminile. Il testo biblico presenta infatti il volto di un Dio che trascende la polarità sessuale, come attesta la presenza di immagini femminili correlate all’opera divina, sebbene quelle maschili risultino preponderanti.

La Bibbia attribuisce a Dio anzitutto il volto maschile, come documenta il registro nuziale, creato dai profeti per esprimere la teologia dell’alleanza (Os 2, Is 1, Ger 2, Is 54, Ez 16 e 23, Is 62). Il simbolismo nuziale, che attesta l’intreccio tra amore umano e divino, mantiene i ruoli femminile per Israele e maschile per YHWH. Questo non declassa la figura femminile, come lamenta certa esegesi femminista, irritata dall’associazione tra idolatria del popolo e infedeltà o prostituzione femminile. Nel Cantico dei Cantici l’amata è figura positiva, che incarna l’amore tenace come la morte (Ct 8,6), riscattando la figura femminile: la giovane, rapita e introdotta nell’harem regale, resiste a lusinghe in fedeltà all’amato. Tuttavia, anche nel Cantico la donna è simbolo di Israele, a dire che il tratto femminile è incarnazione della dimensione credente dell’accoglienza, che esprime ricettività. L’archetipo nuziale si realizza in Cristo, che svela il fondamento trinitario della comunione feconda tra uomo e donna e la radica nella relazione che intesse con la Chiesa. Nei vangeli, in specie in Giovanni, così come nell’epistolario paolino, il Signore si presenta e viene presentato come sposo della Chiesa, che genera figli al Padre e fratelli nella fede, in attesa delle nozze escatologiche dell’Agnello con la Sposa di cui parla il Libro dell’Apocalisse[16]. In tal senso, è decisivo rilevare l’importanza di Maria, typos della Chiesa, che incarna la dimensione ricettiva della Chiesa Sposa, chiamata a ospitare lo Sposo che si dona[17]. La simbologia nuziale attesta dunque la prevalenza del registro maschile in riferimento al divino. L’Antico Testamento attribuisce inoltre a Dio la dimensione di un padre, che guida e assicura il popolo e i credenti come figli (Dt 8,5-6; Is 63,16; Ger 3,4; 31,9; Sal 68,6; 103,13; Sap 2,16; 11,10; 14,3; Sir 23,1; 51,10). La filiazione del popolo e della casa regale è fondata sull’evento creatore di Dio (Dt 32,6; Is 64,7) e realizzata nell’elezione storica (Dt 14,1-2; 2Sam 7,14; 1Cr 17,13; 22,10; 28,6; Sal 2,7; 89,27-28). Si tratta di una filiazione adottiva, che preserva la trascendenza di Dio e al contempo ne attesta l’azione storica.

D’altra parte, l’Antico Testamento evoca altresì il volto femminile di Dio, a cui attribuisce la sensibilità di una madre, che nutre e protegge il figlio (Os 11,1.4.8; Is 49,15; 66,13; Ger 31,20; Sal 131,2). Inoltre, Parola (Dabar), Sapienza (Hokma) e Spirito (Ruah), che costituiscono tre vie di mediazione tra Dio e il creato, sono figure femminili, intimamente accostate alla realtà e all’operato di Dio. Inoltre, accanto ai passi che designano Dio come padre o madre, l’Antico Testamento presenta alcuni brani in cui descrive l’atteggiamento di Dio per il popolo a un tempo come paterno e materno (Sal 27,10; Is 45,10). In particolare, la sezione di Es 32-34, che costituisce il centro teologico della Torah e offre il paradigma del realizzarsi storico dell’alleanza, descrive Dio come ricco di fedeltà (emet) e grazia (hesed), giustizia (tsedeq) e misericordia (rahamim) (Es 34,6-7), evocando il tratto paterno e materno del suo amore, come segnala il Rabbino Benedetto Carucci Viterbi: «In Dio si esprimerebbe la tensione tra Rahamim, che esprime l’atteggiamento materno (misericordia “quasi” femminile), e Din, che esprime l’atteggiamento paterno (legge/diritto/giustizia “quasi” maschile)»[18].

In sintesi, gli elementi evocati insegnano che l’immagine biblica di Dio risulta purificata da riduzioni e incrostazioni sessiste, che attribuirebbero al maschile prerogative di forza e potere, giustificando il dominio sull’universo femminile. Tuttavia, resta aperta la domanda sul perché il popolo d’Israele, che pure attribuisce a Dio tratti paterni e altresì materni, lo chiama Padre mentre rifugge dal nominarlo Madre. Per rispondere adeguatamente all’interrogativo, di cui pure si hanno indizi nell’Antico Testamento, è utile volgere lo sguardo alla vicenda gesuana, in cui la rivelazione biblica trova compimento.

Gli scritti neotestamentari presentano Cristo nella duplice veste di sposo e figlio. Gesù è sposo della Chiesa che genera figli al Padre e fratelli nella fede (Mt 9,15; 22,1-14; 25,1-13; Mc 2,19-20; Lc 5,34; Gv 2,1-12; 3,29; 19,25-27.33-34), in attesa delle nozze escatologiche (Ap 19,7-8), sebbene si qualifichi altresì come Chioccia che raccoglie la prole (Mt 23,37) (in modo analogo Paolo in 1Ts 2,1-12 illustra la propria azione missionaria evocando la figura paterna che esorta e incoraggia ma altresì l’amorevolezza della madre che nutre e cura). Gesù è poi colui che abilita a vivere da figli e figlie di Dio ergo fratelli e sorelle tra loro. Lo insegna Giovanni (Gv 1,12) e lo illustra la dottrina della predestinazione filiale di Paolo, secondo cui la persona, creata in Cristo e in vista di Cristo (Col 1,15-20), è vocata alla filiazione divina per il dono dello Spirito (Gal 4,4-7; Rm 8,14-16), che conforma all’imago del Figlio, primogenito di molti fratelli (Rm 8,29; 1Cor 15,49; Ef 1,3-10).

La figura di Cristo è dominata dal rapporto col Padre, che prega prima di venire battezzato, prima di compiere i miracoli, dopo l’ultima cena, nel Getsemani: «Tutte le pagine evangeliche cospirano a dirci che il cuore e il senso della vita interiore di Gesù è il suo fortissimo “senso del Padre”»[19]. La sua prima frase, appena dodicenne, è riferita al Padre (Lc 2,49). La sua ultima frase, agonizzante sulla croce, è riferita al Padre (Lc 23,46). Cristo è determinato dalla relazione col Padre nello Spirito, che agisce nell’incarnazione, con cui il Signore s’introduce nella storia, nel battesimo, che inaugura la vita pubblica, prima della passione, quando Gesù promette che lo invierà ai discepoli per aiutarli a ricordare e comprendere il proprio operato.

Cristo riprende quanto presagito da alcune religioni e illustrato da Israele: Dio è Padre. Vive però la relazione filiale con Dio in modo unico, evocando piena e reciproca conoscenza (Mt 11,27). Gesù è in relazione immediata col Padre, si propone come la via per decifrarne il volto e vivere da figli e fratelli per il dono dello Spirito (Gv 14). Presenta un Padre previdente (Mt 6,8.32), misericordioso (Mc 11,25), attento ai bisogni dei figli (Lc 12,30). La paternità di Dio predicata da Cristo è ricca di vicinanza e sollecitudine, che si rinvengono nella maternità con singolare pregnanza. Lo attesta anche l’uso del termine Abbà (Mt 14,36)[20]. Il vocabolo, che indica familiarità e affetto, confidenza e fiducia, era impiegato dai fanciulli per chiamare il padre e Gesù lo riprende per descrivere la relazione con Dio, così da coniugare la figura paterna alla dolcezza che evoca intimità. È poi singolare che il lemma ricorra nella preghiera nel Getsemani, nel momento di massima angoscia, a indicare il bisogno di accudimento.

Per concludere, la Bibbia attribuisce a Dio tutti gli accenti d’amore, paterni e materni, oltre la differenza dei sessi. Il tratto kenotico della maschilità di Cristo (Fil 2,6-8), che genera la Chiesa nell’auto-donazione all’umanità, attesta poi il vicendevole rimando del maschile al femminile nei termini del mutuo servizio. Tuttavia, Dio è appellato come Padre e mai come Madre. Si tratta di capire se questo sia dovuto a un retaggio maschilista o piuttosto non sia correlato a solide motivazioni teologiche. È quanto ci apprestiamo a indagare.

3. Visione teologica

Le controversie relative alla fisionomia divina, che connotarono i primi secoli dell’evo cristiano, trovarono risoluzione nelle formulazioni dogmatiche stabilite dai primi concili ecumenici. Si tratta di espressioni tecniche che, al pari di ogni dichiarazione dogmatica, introducono un cioè interpretativo, che produce una equivalenza tra enunciati scritturistici e filosofici, per esplicitare il contenuto della rivelazione: «Il dogma … applica un “cioè”, una duplicazione esplicativa, che accosta i termini dell’esperienza originaria con termini dogmatici, in modo da dirne il senso e la portata realistica contro deviazioni eretiche e possibili riduzioni (“Generato, non creato” cioè “consustanziale al Padre; “Questo è il mio corpo” cioè “pane transustanziato”)»[21].

Per illustrare i lineamenti divini, i Padri della Chiesa si servirono del concetto di persona, la cui origine si colloca nella filosofia stoica, che, in sintonia con l’etimo teatrale, indicava la capacità dell’individuo di svolgere un ruolo sulla scena del mondo[22]. Nel dominio speculativo cristiano il vocabolo fu riferito ai Tre della Trinità e per analogia alle creature angeliche e umane, avente quale principio istitutivo di somiglianza (analogatum princeps) la libertà: rispetto alle persone divine e angeliche, la persona umana ha in comune l’elemento spirituale e ha in proprio l’elemento materiale, che condivide con le altre creature corporee[23]. Il Credo niceno-costantinopolitano coniò la formula di fede trinitaria asserendo che Dio è una natura in tre persone, parimenti i concili di Efeso del 431 e Calcedonia del 451 stabilirono l’unione ipostatica di Cristo, che è una persona in due nature.

Il ricorso nella trattazione dogmatica al linguaggio personale spiega perché la tradizione teologica, che pure conosce analogie trinitarie tratte dal mondo psicologico, sociale e naturale, istruisce il discorso su Dio accordando preferenza al registro personale. L’utilizzo di immagini personali consente di ovviare alla deriva panteista, che segnala la vicinanza divina al mondo dissolvendo però la distinzione tra Dio e ciò che non è Dio, col limite che, se tutto è Dio, lo spirito umano non ha consistenza. Anche il panenteismo risulta problematico, in quanto concepisce Dio come forza animatrice dell’universo, che pervade il cosmo, ancorché lo trascenda. È quanto traspare dalla definizione dell’Oxford Dictionary of the Christian Church, secondo cui il panenteismo è credere «che l’Essere di Dio comprenda e penetri l’universo intero, così che ogni sua parte esista in Lui, ma (a differenza del panteismo) che questo Essere sia di più e non si esaurisca nell’universo»[24].

Il Dio biblico è immanente al cosmo ma altresì trascendente la creazione, come segnala Jean Guitton: «Ciò che è proprio della religione di Cristo è la sintesi di trascendenza e immanenza»[25]. Diversamente dal panteismo, in cui tutto è Dio, che coglie la presenza di Dio nel mondo ma ne mina la fisionomia personale e destituisce l’alterità dell’essere umano, e dal deismo, in cui Dio è il totalmente Altro, che coglie l’alterità di Dio rispetto al mondo ma abolisce la possibilità di rapporto libero con l’essere umano, la visione giudeo-cristiana, in cui Dio è l’Altro che si comunica personalmente, coniuga trascendenza e immanenza di Dio, ne salvaguarda il profilo personale, la libertà e la vicinanza al cosmo, che promuove la libertà umana in una relazione di prossimità col Creatore. In sintesi, Dio non è una sostanza che sta di fronte al mondo in regime di esteriorità, è relazione creatrice (1Cor 15,28; Col 3,11). Ciò non mina però il carattere trascendente e personale di Dio, che crea liberamente il mondo. Il cosmo non è emanazione necessaria dall’essenza divina, energia che fluisce e si spande, è piuttosto libero atto di volontà di un Dio provvidente, che coinvolge in un rapporto personale.

Le predette formulazioni dogmatiche relative alla Trinità e alla figura di Cristo non si limitano a indicare Dio come Essere personale ma lo qualificano come Padre, Figlio, Spirito Santo e rappresentano Gesù Cristo come vero uomo e vero Dio. A questo riguardo, la teologia femminista lamenta l’irrigidimento su figure maschili e la trascuratezza di immagini femminili pure presenti nel testo biblico, che sarebbe funzionale alla subordinazione femminile. Motivo per cui le definizioni dogmatiche andrebbero liberate dal loro carattere letterale e rivisitate avvalendosi dell’immaginario femminile. Tanto più per la valenza analogica del discorso su Dio, che chiede di non imbrigliarlo in concetti rigidi ed esclusivi e anzi comporta la «necessità di dare molti nomi a Dio»[26].

Secondo le regole classiche della teologia si possono ascrivere a Dio in senso proprio le perfezioni pure, ossia i trascendentali dell’Essere (Uno, Vero, Buono, Bello), mentre le perfezioni miste, in quanto racchiudono qualcosa di limitato, si possono applicare a Dio in senso analogico. Il principio metafisico della analogia entis insegna che l’Essere è dentro-sopra l’ente, in quanto è causa efficiente dell’ente, che gli è simile (causa agit simile sibi), e causa esemplare dell’ente, che riflette la sua perfezione, motivo per cui l’ente contingente abilita a conoscere incoativamente l’Essere assoluto[27]. Nell’analogia, fondata sul principio di partecipazione degli enti all’Essere, va però preservata la maior dissimilitudo, che sempre sopravanza la similitudo, come insegna il Concilio Lateranense IV (DH 806), in quanto il mistero divino trascende ogni immagine e realtà umana. Le parole su Dio non sono univoche, non hanno cioè lo stesso significato di quando sono dette delle creature, né equivoche, ossia prive di associazione coi significati creaturali, bensì analoghe, comportando il triplice movimento di affermazione-negazione-eccellenza.

La logica analogica del discorso su Dio autorizza e anzi promuove l’adozione di immagini femminili, in conformità al dettato biblico, secondo cui Dio si colloca oltre la ripartizione sessuale e altresì redime al di là della polarizzazione sessuale. Dio si pone oltre la ripartizione sessuale e costituisce la matrice del maschile e altresì del femminile, motivo per cui ambedue sono in pieno possesso dell’imago Dei. Tutte e tre le ipostasi della Trinità trascendono e fondano i caratteri maschili e femminili, come segnala Hans Urs von Balthasar, che li qualifica come «evidenza simbolica della dimensione attiva e ricettiva dell’amore»[28], dello spossessarsi e accogliere, e li applica al Padre, che è (sovra-)maschile in quanto genera il Figlio ed espira lo Spirito e (sovra-)femminile in quanto si lascia con-determinare nel generare e nell’espirare, al Figlio, che è (sovra-)femminile in quanto generato dal Padre e (sovra-)maschile in quanto espira attivamente col Padre, e allo Spirito, che è (sovra-)femminile in quanto espirato dal Padre e (sovra-)maschile in quanto procede dal Padre e dal Figlio[29].

Dio redime al di là della polarizzazione sessuale, come certifica l’evento di Cristo, che salva lui lei tramite l’assunzione della comune e fondamentale umanità, che è sottesa alla distinzione sessuale (si veda l’ingiunzione di Calcedonia a non mescolare o confondere le due nature di Cristo, che avrebbe l’effetto pernicioso di rendere idoneo lui e inidonea lei a prendere totalmente parte alla vita del Redentore). Motivo per cui uomini e donne sono ambedue pienamente abilitati a vivere l’imago Christi, che indica non la replica delle qualità sessuali ma l’adesione alla vita di Cristo, sta non nella similarità sessuale con l’umano maschio Gesù ma nell’essere membra viva del suo Corpo che è la Chiesa, composta indistintamente di uomini e donne (Ef 1,22; Col 1,18; 1Cor 12,12-27; At 9,4), e nel partecipare alla vita compassionevole resa possibile dall’azione dello Spirito Santo, che si comunica in forma piena nelle realtà sacramentali da cui scaturisce la realtà ecclesiale.

Nei misteri liturgici, che costituiscono la «forma storica compiuta di Gesù Cristo con gli uomini»[30] realizzata della grazia che è lo Spirito, i fedeli, al di là del sesso di appartenenza, sono configurati al Signore e abilitati a rappresentarlo nel mondo: «In tutti coloro che lo ricevono, lo Spirito Santo viene per “fare” Gesù. È lo Spirito di Gesù Cristo; quindi non è indeterminato, ma predeterminato. Riferito a Gesù Cristo, non può che “fare” Gesù Cristo»[31]. È quanto certifica la figura di Blandina, membra del gruppo di cristiani che subirono il martirio a Lione nel 177 sotto il regno di Marco Aurelio. La tradizione della storia è narrata da Eusebio di Cesarea, il quale riferisce che fu appesa a una specie di croce e con il suo ardore e le sue preghiere infuse coraggio ai proprio compagni. La forma della martire lionese è quella eucaristica di Cristo, che si dona in obbedienza al Padre per il bene del prossimo: «Sembrava ad essi di ravvisare, con i loro occhi fisici, in quella sorella Colui che era stato crocifisso per loro»[32].

Il ricorso a immagini femminili per descrivere il divino è peraltro attestato dalla teologia, dalla mistica e dal magistero. Anselmo d’Aosta invoca la protezione materna di Gesù: «Ma anche tu, buon Gesù, non sei pure una madre? Non sei una madre che come una chioccia raccoglie i pulcini sotto le sue ali? E tu, anima mia, di per te stessa morta, corri sotto le ali di Gesù, tua madre, e lamenta i tuoi dolori sotto le sue penne. Chiedi che le tue ferite siano guarite e che, consolata, tu possa vivere di nuovo. Cristo, madre mia, tu raccogli i tuoi pulcini sotto le tue ali; questo tuo pulcino morto si rifugia sotto le tue ali … Riscalda il tuo pulcino, dà vita a questo morto, giustifica il tuo peccatore»[33]. Giuliana di Norwich si riferisce a Dio come padre e altresì madre, titolo che attribuisce anche a Gesù: «Dio è contento di essere nostro padre, e Dio è contento di essere nostra madre … La nostra vita è fondata sulla nostra vera madre Gesù»[34]. Giovanni Paolo I asserisce che «Dio è papà; più ancora è madre»[35].

In quanto analogico il linguaggio umano su Dio legittima e anzi consiglia di adottare registri maschili e femminili. La plausibilità e convenienza di ricorrere a caratteri maschili e femminili è peraltro ascrivibile al fatto che le posture maschili e femminili non si danno con modalità escludenti ma prevalenti, motivo per cui non vanno intese in senso esclusivo bensì polare. Questo non avalla l’ideale androgino, in cui inducono diverse teologhe femministe, che intendono unire in parti uguali maschile e femminile in ciascuna persona, integrando le polarità uomo/donna e corpo/spirito (C. Halkes), congiungendo tutte le qualità umane (E. Moltmann-Wendel), coniugando le caratteristiche psichiche ripartite nella mascolinità e femminilità (R.R. Ruether). La fenomenologia insegna che il corpo maschile esterno e femminile interno modula l’intenzionalità con flessioni differenti e fa sì che i due sessi si dispongano al mondo secondo le corrispettive inclinazioni e declinazioni simboliche del penetrare e accogliere[36].

Tuttavia, non è indifferente a quali immagini si decide di conferire la precedenza. Il linguaggio paterno ha infatti una singolare pregnanze teologica, che rende ragione del perché la Bibbia nomini Dio come padre mentre eviti di adottare la qualifica di madre e del perché il dogma abbia fissato il riferimento al Padre. Per quanto concerne il testo biblico, applica a Dio la figura paterna per preservare l’alterità di Dio, che è invece minata dal riferimento a Dio come madre, che rimarca la prossimità e immanenza di Dio arrischiandone però la trascendenza, secondo una visione panteista che tutto ingloba. Il ricorso alla metafora paterna tutela il carattere trascendente di Dio e la sua abilità a istituire l’identità: «Da un punto di vista teologico si può comprendere perché Dio venga chiamato “Padre”: non per obbedienza ad un arcaico contesto maschilista, ma per indicare la potenza di costituire l’identità di ogni uomo»[37].

Per quanto concerne il dogma, ha fisionomia bipolare, in quanto risale dal Dio per noi (Trinità economica) al Dio in sé (Trinità immanente), nella convinzione che il volto di Dio dischiuso dall’incontro col Signore vale sempre. Lo conferma la teologia odierna, secondo cui «la Trinità che si manifesta nell’economia della salvezza è la Trinità immanente»[38]. Motivo per cui le missioni cristologica e pneumatologica, secondo cui il compito del Figlio è introdurre al Padre per opera dello Spirito Santo, che abilita a vivere da figli e figlie nel Figlio, sono radicate nelle processioni che connotano la vita divina, generazione del figlio e processione dello Spirito, che fondano logicamente le relazioni, paternità e filiazione per la generazione, spirazione attiva e passiva per la processione. La nozione che realizza quest’essere distinto esistendo nell’unica natura divina è quella di persona, che è al contempo in sé e rivolta ad altro da sé.

La formula di fede trinitaria, secondo cui il Padre genera il Figlio e lo Spirito procede immediatamente dal Padre e mediatamente dal Figlio, presenta la Trinità come unità d’amore, in cui il Padre è fonte originaria dell’Amore che si dona al Figlio, che si riceve e si ridona al Padre, lo Spirito coniuga il dare e ricevere portandoli nella creazione e partecipandoli alla creatura umana. La logica agapica che connota la Trinità rischiara il senso degli appellativi Padre, Figlio, Spirito, che esprimono la scaturigine dell’Amore, il rappresentante della fonte d’Amore, l’iniziatore all’Amore. Come segnala Balthasar, «siccome egli fruttifica da sé e non ha bisogno di alcuna fecondazione, è chiamato Padre non nell’accezione sessuale, giacché egli sarà creatore dell’uomo e della donna e perciò contiene in sé sovraeminentemente i caratteri della donna come quelli dell’uomo», parimenti «noi lo chiamiamo Figlio, non figlia, perché egli apparirà in questo mondo come uomo e non come donna, e ciò al fine di rappresentare ai nostri occhi l’autorità della feconda Origine paterna», infine siamo «da Lui [Spirito] iniziati al mistero che Dio è amore»[39]. Notabene: come avverte ancora Balthasar, «lo Spirito, che in Dio è il mistero più alto può essere sì affermato come esistente, ma mai essere fissato in rigidi concetti»[40]. Il pronome personale maschile accanto alla parola usata in greco al neutro (Gv 16,8.13s.) spiega la scelta di adottare nella versione latina del Simbolo di fede e nelle successive traduzioni nei diversi idiomi il maschile Spirito Santo anziché il femminile Spirita Santa.

4. Note conclusive

L’indagine condotta documenta la possibilità e opportunità di adottare immagini femminili per riferimento a Dio, in quanto fondamento di tutte le perfezioni creaturali. D’altra parte, va riconosciuta preminenza al simbolo maschile, più consono a descrivere l’agire di Dio verso l’umanità, per il suo carattere desituante e intrusivo, parimenti il simbolo femminile risulta più adatto a descrivere l’agire dell’umanità di fronte a Dio, per il suo carattere situante e recettivo.

La simbologia dei sessi, di cui dà conto in ambito biblico il su evocato simbolo nuziale, che articola il ruolo maschile attivo e femminile recettivo nelle coppie YHWH/Israele e Cristo/Chiesa, muove Joseph Ratzinger ad asserire che «non siamo autorizzati a trasformare il Padre nostro in una Madre nostra: il simbolismo usato da Gesù è irreversibile, è fondato sulla stessa relazione uomo-Dio che è venuto a rivelarci»[41]. Certo, al contempo è doveroso accordare preferenza al linguaggio femminile in riferimento alla Chiesa e segnalare l’importanza di Maria come typus Ecclesiae, formula che la Costituzione dogmatica Lumen gentium n. 63 mutua da Ambrogio di Milano. Maria costituisce la figura della Chiesa, chiamata ad accogliere e cooperare all’iniziativa divina.

Il volto di Dio come Padre è peraltro promettente per riferimento alla fecondità dell’origine, in quanto espressione di un dono totale che convoca la libertà e crea reciprocità[42]. Angelo Scola parla della «paternità come relazione costitutiva – l’essere origine e il porre altro»[43]. La verità di Dio come Padre consente di rinvenire «l’intonazione etico-affettiva dell’originario metafisico. La relazione del Figlio al Padre (Logos en Archégenitum non factum[44]. Il principio e fondamento dell’essere non è un Ente supremo e ineffabile, in ottica deista, non è neppure Uno e Totalità, in ottica panteista, è piuttosto relazione sussistente. Dio sussiste in quanto relazione, come insegna Tommaso d’Aquino, secondo cui ciascuna persona divina è «relatio subsistens»[45], essere inseparabile (esse in) e distinto (esse ad). Questo fonda l’ontologia relazionale, in cui l’essere rimanda originariamente alla sostanza e altresì alla relazione.

L’origine dell’essere è pura fecondità, che non si colloca fuori dal mondo né si disperde nel molteplice ma si comunica con sovrabbondanza e coinvolgimento, al modo dell’unità effusiva e inclusiva. Come rileva Balthasar, «Dio è co-essere»[46] in cui l’unione sostanziale nella differenza personale dischiude la fecondità e la creazione vive del mistero del con divino. Mentre la metafisica classica legge il molteplice in prospettiva dialettica dei Contrari (Anassagora) o degradante riconducendolo all’Uno (Platone), la rivelazione trinitaria svela il mistero dell’Essere l’uno per (il Padre è per il Figlio), da (il figlio è dal Padre) e con (lo Spirito è con il Padre e il Figlio) l’altro. Nella Trinità si rinviene la perfetta comunione, che, diversamente da quanto sospetta la teologia femminista, non è inficiata bensì garantita dall’ordo Padre generante/Figlio generato/Spirito co-spirato, a motivo del fatto che la communio presuppone la distinctio tra persone e avviene nella reciprocità di omousia e taxis, tramite cui le persone non si limitano ma si determinano. Ordine non indica subordinazione ma unità nella differenza di ruoli storico-salvifici, che esprime l’uguaglianza nella distinzione eterna.

[1] E.A. Johnson, She Who Is. The Mystery of God in Feminist Theological Discourse, Crossroad, New York 1992, 193.

[2] Cfr. A. Cavarero – F. Restaino, Le filosofie femministe, Mondadori, Milano 2002.

[3] E. Missana, Introduzione, in E. Missana (ed.), Donne si diventa. Antologia del pensiero femminista, Feltrinelli, Milano 2014, 9-66: 9.

[4] Cfr. G. Angelini, Passaggio al postmoderno: il gender in questione, in G. Angelini (ed.), Maschio e femmina li creò (Disputatio 20), Glossa, Milano 2008, 263-296: 275-294.

[5] Cfr. G. Canobbio, Teologia e storia: emergenza della responsabilità pubblica della fede, in G. Angelini – S. Macchi (ed.), La teologia del Novecento (Lectio 7), Glossa, Milano 2008, 413-468: 452-466.

[6] E. Schüssler Fiorenza, Discipleship of Equals: A Critical Feminist Ekklesia-logy of Liberation, Herder & Herder, New York 1993.

[7] Cfr. Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, LEV 1993, E 2.

[8] K.E. Børresen, Subordination et équivalance. La nature et le role de la femme chez Augustin et Thomas d’Aquin, Universitetsforlaget-Mâme, Oslo-Paris 1968.

[9] Cfr. A. Cozzi, Manuale di dottrina trinitaria, Queriniana, Brescia 2009, 92-95.

[10] Cfr. M. Hauke, La teologia femminista: origine, correnti e temi specifici, Cantagalli, Siena 2024, 136-147.

[11] C. Schaumberg, Erfahrung, in E. Gössmann – H. Kuhlmann – E. Moltmann-Wendel – I. Praetorius – L. Schottroff (ed.), Wörterbuch der Feministischen Theologie, Gütersloher, Gütersloh 1991, 73-78: 75.

[12] Cfr. R.R. Ruether, Goddesses and the Divine Feminine: A Western Religious History, University of California, Los Angeles 2005, 274.

[13] Cfr. M. Eliade, Traité d’histoire des religions, Payot, Paris 1948, chapitre 7.

[14] Cfr. W. Marchel, Abba Vater! Die Vaterbotschaft des Neuen Testament, Patmos, Düsseldorf 1963, Kapitel I.

[15] Cfr. G. Mensching, Vatername Gottes, in H.D. Betz – D.S. Browning – B. Janowski – E. Jüngel (ed.), Religion in Geschichte und Gegenwart, Bände VI, J. C. B. Mohr, Tübingen 1962, 1232-1233.

[16] Cfr. L. Alonso Schöckel, Símbolos matrimoniales en la Biblia, Verbo Divino, Pamplona 1999. Y. Simoens, Homme et Femme. De la Genèse à l’Apocalypse, Facultés Jésuites de Paris, Paris 2014. L. Pedroli (ed.), L’analogia nuziale nella Scrittura. Saggi in onore di Luis Alonso Schöckel, G&BP, Roma 2019.

[17] Cfr. M. Hauke, Introduzione alla mariologia, Eupress, Lugano-Varese 2008, 111-120.

[18] B. Carucci Viterbi, La misericordia e la giustizia, nell’ottica dell’alleanza, in J.-J. Pérez-Soba – A. Frigerio (ed.), Misericordia. Pensieri, parole, opere e omissioni, Cantagalli, Siena 20177, 113-118: 116.

[19] G. Biffi, Identikit del festeggiato, Elledici, Torino 1999, 40.

[20] Cfr. J. Jeremias, Abba. Studien zur neutestamentlichen Theologie und Zeitgeschichte, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1966.

[21] A. Cozzi, L’attualità inattuale del dogma, in M. Epis (ed.), Consenso democratico e verità cristiana. Dire la fede in un contesto pluralista (Disputatio 34), Glossa, Milano 2025. In via di pubblicazione.

[22] Cfr. E. Berti, Il concetto di persona nella storia del pensiero filosofico, in E. Berti et al. (ed.), Persona e personalismo, Gregoriana Libreria, Padova 1992, 43-74.

[23] Cfr. L. Scheffczyk, Lehramtliche Formulierungen und Dogmengeschichte der Trinität, in J. Feiner – M. Löhrer (ed.), Mysterium salutis. Grundriß heilsgeschichtlicher Dogmatik II, Benzinger, Einsiedeln 1967, 146-220. A. Milano, Persona in teologia. Alle origini del significato di persona nel cristianesimo antico, EDB, Bologna 1984. A. Milano, La persona nella novità cristiana dell’Incarnazione e della Trinità, «Studium» 4/5 (1995) 549-568.

[24] F.L. Cross – E.A. Livingstone (ed.), The Oxford Dictionary of the Christian Church, Oxford University, London 1974, 1027.

[25] J. Guitton, Le Christ écartelé: crises et conciles dans l’église, Librairie Academique Perrin, Paris 1963, 169.

[26] Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, 1,31,4.

[27] Cfr. E. Przywara, Analogia entis. Metaphisik. Ur-struktur und All-rhitmus, Johannes, Einsiedeln 1962.

[28] R. Carelli, L’uomo e la donna nella teologia di H. U. Von Balthasar, FTL, Lugano 2007, 568.

[29] Cfr. H.U. von Balthasar, Das Endspiel, Theodramatik, V, Johannes, Einsiedeln 1983, 71-74.

[30] P. Caspani, L’agire sacramentale. Linee di teologia sacramentale sistematica, Cittadella, Assisi 2023, 216.

[31] G. Colombo, Gesù Cristo e il Suo Spirito, Centro Ambrosiano, Milano 2011, 124.

[32] Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiastica, 5,1,41.

[33] Anselmo d’Aosta, Orazione a san Paolo, in Id., Orazioni e Meditazioni, Jaca Book, Milano 1997, 250-283.

[34] Giuliana di Norwich, Libro delle rivelazioni, Ancora, Milano 1984, 231 e 266.

[35] Giovanni Paolo I, Angelus, 10 settembre 1978.

[36] Cfr. V. Melchiorre, Percorsi filosofici, in S. Spinsanti (ed.), Maschio e femmina: dall’uguaglianza alla reciprocità, Paoline, Cinisello Balsamo 1990, 45-62.

[37] V. Melchiorre, Uomo e Donna fra differenza e reciprocità, in A. Pavan (ed.). Dire Persona, Il Mulino, Bologna 2003, 85-210: 107.

[38] Commissione Teologica Internazionale, Teologia, cristologia, antropologia, 1981, I,C,2.

[39] H.U. von Balthasar, Il Credo. Meditazioni sul Credo apostolico, Jaca Book, Milano 2023, 32, 35 e 58.

[40] Ivi, 57.

[41] J. Ratzinger (con V. Messori), Rapporto sulla fede, Paoline, Cinisello Balsamo 1985, 97.

[42] Cfr. A. Cozzi, Dio Padre, Cittadella, Assisi 2021, 151.

[43] A. Scola, Il Mistero Nuziale. Uomo-Donna. Matrimonio-Famiglia, Marcianum, Venezia 2014, 233.

[44] P. Sequeri, Una svolta affettiva per la metafisica?, in P. Sequeri – S. Ubbiali (ed.), Nominare Dio invano? Orizzonti per una teologia filosofica (Quodlibet 21), Glossa, Milano 2009, 85-116: 102.

[45] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 29, a.4, c.

[46] H.U. von Balthasar, Dreifaltigkeit. Gott ist Mit-Sein, in Id., Du krönst das Jahr mit Deiner Huld, Johannes, Einsiedeln 2000, 120-124.

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Alberto Frigerio

Alberto Frigerio

Alberto Frigerio è sacerdote della Diocesi di Milano. Professore incaricato di Etica della vita presso l’ISSR di Milano e docente di Religione presso il Centro di Formazione Professionale In-Presa di Carate Brianza. Laureato in Medicina e Chirurgia, ha conseguito un Master in Integrative Neuroscience presso l’University of Edinburgh, Scozia. Ha conseguito la Licenza e il Dottorato in Sacra Teologia al Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II, Roma e Washington.

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Il Veritas Amoris Project mette al centro la verità dell’amore come chiave di comprensione del mistero di Dio, dell’uomo e del mondo e come approccio pastorale integrale e fecondo.

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