Il corpo di Cristo: l’unione definitiva di verità e amore

José Granados

Introduzione

“Io sono la verità” (Gv 14,6).

“In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi” (1Gv 3,16).

Queste due frasi della testimonianza dell’Apostolo Giovanni riassumono il mistero di Cristo come verità e amore. Da una parte, Gesù di Nazareth, che i discepoli hanno sentito predicare con autorità, è la verità in persona. D’altra parte, il dono di sé di Gesù fino alla morte è presentato non solo come un eccellente atto di benevolenza, ma come la definizione stessa dell’amore.

 

Questo è decisivo di fronte alla crisi del nostro tempo, che può essere descritta come una crisi di divisione tra amore e verità. Da un lato, la verità oggi è intesa come la verità dei fatti grezzi o dei dati scientifici, senza significato per l’uomo. È una verità estranea al regno dell’amore e del bene che dà senso alla vita umana; dall’altro, l’amore, separato dalla verità, si limita all’affetto privato, senza possibilità di sostenersi nel tempo o di influenzare la vita pubblica. Se la vita pubblica riconosce qualche verità al di là del dato scientifico, è solo questa: tollerare che ognuno possa avere la propria verità o che non ci sia nessuna verità al di là di quella propria di ognuno (cfr. K.H. MENKE, ¿La verdad nos hace libres o la libertad nos hace verdaderos? Una controversia, Madrid, Didáskalos, 2020).

La frattura tra amore e verità incrina l’uomo stesso, separando il suo interno dal suo esterno; il suo presente dal suo passato e futuro; la sua intimità dalla sua comunione con gli altri. Se la Chiesa accettasse una tale frattura, incrinerebbe anche i fondamenti su cui si basa: la sua fede, separandola dalla sua vita; la sua dottrina, dalla sua pastorale; la sua liturgia, dalla sua mistica. Il progetto Veritas Amoris si concentra nel proporre una visione unitaria tra verità e amore, trovando in questa unità la chiave per capire chi è l’uomo e cosa offre pienezza alla sua vita.

Questa seconda tesi del Progetto Veritas Amoris vuole esplorare come la persona di Cristo porti unità tra verità e amore. Se è vero che il mistero dell’uomo si chiarisce alla luce del mistero di Cristo (Concilio Vaticano II, Gaudium et Spes 22), ciò vale anche per la “verità dell’amore” come chiave di comprensione della vita umana. Quale sia la verità dell’amore diventa chiaro solo se guardiamo a Cristo. E, allo stesso tempo, il mistero di Cristo si chiarirà meglio se si parte dalla verità dell’amore come chiave per comprendere l’uomo, il mondo e Dio.

Una controprova di ciò è il fatto che la frattura tra verità e amore si traduce in una separazione schizofrenica di Cristo stesso: Cristo pastore e Cristo maestro; Cristo intimo devozionale e Cristo che si rivela nella liturgia e nella vita pubblica della Chiesa. Chiediamo allora con San Paolo: “È forse diviso il Cristo?” (1Cor 1,13). Al contrario, in lui troviamo non solo l’unità totale, ma una fonte di unità per i frammenti del nostro mondo disgregato.

Per mostrare questo, dopo aver messo in relazione Cristo con la coesione della verità e dell’amore (1), cercheremo il giusto punto di vista per percepire questa unità nella sua persona e nella sua opera (2), che esploreremo passando attraverso il quarto Vangelo, poiché San Giovanni ha posto l’accento proprio sull’unione della verità e dell’amore in Cristo (3).

1. Accesso a Gesù Cristo: dalla verità e dall’amore

Cominciamo ricordando che l’opera di Cristo è un’opera di unità. Egli si è mostrato uno con il Padre (Gv 10,30) affinché, attraverso di lui, Dio riconciliasse il mondo a sé (2 Cor 5,19), o riunisse “i figli di Dio dispersi” (Gv 11,52). Egli, come Alfa e Omega (Ap 1,8), collega anche l’inizio e la fine della storia. Per questo Gesù può guardare all’origine della creazione e riaffermare l’unità dell’uomo e della donna, simbolo dell’unità di Dio con il suo popolo lungo la storia: “Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto” (Mt 19,6). Tutto questo non significa forse che egli porta unità anche alla verità e all’amore, ossia che unisce il mondo condiviso con gli altri, da un lato, e l’intimità dei nostri affetti, dall’altro?

E come possiamo spiegare questa unità? Si può dire che oggi tutti accettano che Gesù sia amore, mentre è più difficile accettarlo come verità. La sua frase “Io sono la verità” (Gv 14,6) è causa di inciampo, a meno che non venga interpretata come tolleranza per le opinioni e i sentimenti di ciascuno. La chiave per comprendere Gesù sarebbe l’amore che “tutto scusa” (1 Cor 13,7), ma non l’amore che “si rallegra della verità” (1 Cor 13,6). Infatti, la visione d’insieme di questo amore tollerante permetterebbe, secondo alcuni, di relativizzare espressioni di Gesù che oggi suonano troppo dure. L’esegeta tedesco Ulrich Luz, per esempio, accetta che la proibizione assoluta del divorzio venga da Gesù stesso, ma aggiunge che questa è un’incongruenza che non si adatta bene al messaggio generale del Maestro sul primato dell’amore (Das Evangelium Nach Matthäus, Düsseldorf, Benziger, 2002, ad locum).

Per sanare questa essenziale divisione si possono percorrere due strade: partire da Gesù come amore interiore per mostrare che in Lui c’è una verità comune; oppure partire dalla verità comune per mostrare che contiene in sé l’amore che ci tocca e ci trasforma interiormente. Scelgo questa seconda via, anche se a prima vista può sembrare la più difficile, e senza dimenticare che le due si completano a vicenda. La ragione della scelta di intraprendere questa strada è che, nel nostro tempo, è facile che la prima non porti alla meta, cioè che l’amore, ridotto a emozione, giri a vuoto su se stesso, senza confessare Cristo come verità comune, ma solo come verità personale (la mia verità). Questo a causa della malattia dell’emotivismo contemporaneo, che valuta tutto secondo il sentimento che ci espone e ci sottomette alla forza centrifuga delle emozioni. Da dove può venire la cura di questo emotivismo?

La chiave consiste nell’integrare la persona in un ambiente che la costringa ad abbandonare il suo isolamento. Ed è questo che si intende con la presentazione di Gesù come verità, cioè come colui che aiuta l’uomo a svegliarsi dal suo sonno e a reintegrarsi nella realtà condivisa con gli altri. Poiché è la verità, Gesù si presenta come colui che ci sveglia, colui la cui parola ci convoca e la cui luce apre i nostri occhi. Il risveglio dal sonno è il primo passo per prendere contatto con la realtà e recuperare l’amore, non più come un’illusione autoaffettiva, ma come un incontro che dilata l’anima. Cristo-verità risveglia in noi nuovi desideri, in modo che la nostra capacità e il nostro orizzonte si arricchiscano. Secondo San Giovanni, Gesù viene ad abitare in mezzo ai discepoli perché essi gli hanno chiesto in anticipo dove abita (Gv 1,38). A questa domanda egli non rispose: “Quando avrete visto da voi stessi, allora venite”, ma “venite e vedrete” (Gv 1,39).

Questo cammino, inoltre, concorda con quello seguito dal Vangelo di Giovanni, dove, come ho detto prima, si osserva meglio l’unità di verità e amore in Gesù. È vero che il Quarto Vangelo è stato caratterizzato come quello che parte dall’alto, dal Logos divino, per accedere a Gesù, mentre i Vangeli sinottici partirebbero dal basso, dalla predicazione del Nazareno, più vicina all’esperienza quotidiana. Ora, il Vangelo di San Giovanni va visto, in realtà, come quello che parte dalla verità per arrivare all’amore, cioè parte dalla parola o dalla luce che ci risveglia dal letargo e ci introduce in un ambiente comune, per condurci all’incontro personale con Cristo che viene ad abitare all’interno dell’uomo. In questo va di pari passo con i Sinottici, perché il primo annuncio di Gesù è: “Convertitevi! (Mc 1,15).

In cosa consiste la verità che Gesù è? La frase “Io sono la verità”, che San Giovanni ci ha conservato (Gv 14,6), contiene l’idea della rivelazione. Si potrebbe quindi intendere la verità come il divino invisibile che si manifesta attraverso il velo della carne. Questa è la lettura proposta dall’esegeta protestante Rudolf Bultmann, per il quale la verità di Gesù sarebbe la scoperta del Logos immutabile, che chiama l’uomo a prendere le parti dell’eterno contro le apparenze del mondo inautentico. Nei suoi due volumi sulla verità in San Giovanni, Ignace de la Potterie ha respinto questa ipotesi, notando come San Giovanni non identifichi la verità direttamente con Dio (La vérité dans Saint Jean, Roma, Biblical Institute Press, 1977). In cosa consiste, dunque, questa verità che Gesù porta?

2. Punto di partenza eucaristico

Partiamo da questo dato: ogni volta che San Giovanni parla di Gesù come verità, lo fa in un contesto che possiamo chiamare liturgico. Così, dopo aver parlato del Verbo che si fa carne, alludendo alla teologia del tempio (“venne ad abitare in mezzo a noi” e ha mostrato la sua gloria), si dice che è “pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14). E davanti alla Samaritana, il Maestro, riferendosi al vero tempio, parla di adorare “in Spirito e in verità” (Gv 4,23-24), mentre durante la preghiera sacerdotale dell’ultima cena chiederà al Padre di consacrare i discepoli “nella verità” (Gv 17,17). La frase “la verità vi farà liberi” (Gv 8,32) è anche inserita nel contesto della festa dei Tabernacoli, che commemora la partenza di Israele dall’Egitto. Da parte sua, quando dice “Io sono la verità”, Gesù sta spiegando come ci condurrà alle molte dimore che prepara per i suoi discepoli nel nuovo tempio, che è il suo corpo (cfr. Gv 14,2; Gv 2,21).

Ebbene, questo contesto cultuale ci porta all’Eucaristia, il rito centrale di Gesù, come luogo adeguato per comprendere la sua identificazione con la verità.

a) La verità, dall’Eucaristia

Ricordiamo che Gesù dice “Io sono la verità” (Gv 14,6) durante l’ultima Cena. E anche nel discorso sul pane della vita, dove Giovanni ci dona il suo insegnamento eucaristico, ci sono allusioni alla verità. Lì si parla, infatti, del vero pane (Gv 6,32: alethinos, in opposizione a una figura antica che non è la verità completa), e del vero cibo e bevanda (Gv 6,55: alethés, cioè quello vero, nonostante le apparenze). Poi, parlando della vite, con sfumature eucaristiche, si dice di essa che è la vera vite (Gv 15,1: alethinos).

Se l’Eucaristia emerge come il luogo dove si manifesta la verità di Gesù, è perché è in essa che culminano tutti i suoi segni, nel rito che prefigura la sua morte e risurrezione. L’Eucaristia, come pane della vita eterna, contiene la luce della Pasqua, e dalla Pasqua si comprende tutto il cammino di Gesù, che include in sé il cammino di Israele dalla creazione. Comprendiamo che la verità si manifesta nel corpo eucaristico, illuminata dalla luce della Pasqua.

C’è dunque una relazione tra la verità e il corpo. Questo coincide con la tesi centrale della ricerca di Ignace de la Potterie, il quale dimostra che Gesù è la verità perché è il Logos incarnato. Quindi la verità non è ciò che è eterno e immutabile in contrasto con l’opinione dei sensi ingannevoli e degli affetti mobili, ma la verità è nel Verbo che si è fatto carne e si è manifestato alla nostra carne, compresi i sensi e gli affetti. Sorge una domanda: qual è la relazione tra il corpo e la verità, in modo che l’Eucaristia possa essere la pienezza di questa relazione?

b) Verità e corpo

Che la verità si manifesti in un corpo è strano per la visione cartesiana predominante nella modernità. Oggi, forse, la materia può comprendersi come un luogo di verità, in quanto i suoi movimenti sono descritti con formule, ma è una verità molto parziale, che non dice nulla all’uomo sul suo cammino nella vita.

Tuttavia, questo cambia se accettiamo che il corpo appartiene all’identità personale, la quale è quindi un’identità che si costituisce in relazione al mondo e agli altri, ai quali il corpo ci lega. I pensatori classici hanno visto la verità come una corrispondenza tra la comprensione che conosce e la realtà conosciuta. Ebbene, il corpo è la prima corrispondenza tra la persona e il suo mondo e, quindi, il corpo è lo spazio dove la verità può manifestarsi.

Di nuovo, ci aiuta la differenza tra la veglia e il sogno. Il corpo, essendo allo stesso tempo interno al soggetto ed esterno ad esso, fornisce il criterio per distinguere il reale dall’onirico. La verità che si coglie nel sogno, infatti, è quella di una corrispondenza della mente con se stessa. Solo il corpo ci permette di entrare nello spazio della verità, che è lo spazio dell’uomo aperto al mondo, capace di conoscerlo e di manifestarsi in esso (cfr. G. Marcel, L’être Incarné, Repère central de la réflexion métaphysique, in Du refus à l’invocation, Paris, Gallimard, 1940, 19-54; H. , Jonas, The Phenomenon of Life. Toward a Philosophical Biology, Evanston, IL, 2001p.176).

Aggiungiamo che, tra i corpi viventi, solo il corpo umano apre lo spazio della verità, perché solo l’uomo trascende il proprio punto di vista, adottando la visione di un altro. È quello che succede con l’incontro interpersonale, dove la presenza dell’altro, irriducibile a noi stessi, ci salva dalle autoproiezioni del sogno. Il corpo appare allora come uno spazio di corrispondenza con l’altra persona, che permette una visione condivisa sul mondo. Possiamo dire che in questo modo l’esperienza della verità si arricchisce, perché non conosciamo più da soli, ma insieme alla persona amata. Così il filosofo francese Alain Badiou può affermare che l’amore è una questione di verità, perché consiste in una visione comune di tutte le cose (Éloge de l’amour, Parigi, Flammarion, 2009).

Infatti, da questa adeguazione di una persona ad un’altra persona emerge una tale visione condivisa, che è lo sguardo proprio dell’amore. Il corpo, quindi, espande l’esperienza della verità, rendendola comprensione comune del mondo dove ognuno arricchisce l’altro. Adamo sperimentò questa ampiezza di verità quando, dopo aver nominato gli animali e aver ripetuto a ciascuno di loro: “Questo non”, incontrò finalmente Eva e disse: “Questa volta è ossa dalle mie ossa, carne dalla mia carne” (Gen 2,23). Aveva trovato la corrispondenza che permette uno sguardo completo su se stessi e sul proprio posto nel mondo.

Inoltre, se il corpo permette la corrispondenza da persona a persona, esso apre anche le persone al di là della loro unione, impedendo loro di sognare insieme un sogno condiviso. Cioè, il corpo è uno spazio di verità perché situa la relazione delle persone a partire da un’origine che supera entrambi e apre la loro visione oltre se stessi. È per questo che Adamo ed Eva, accettandosi a vicenda, hanno accettato un datore originario, il Creatore, colui che ha iscritto sui loro corpi i significati che permettono loro di unirsi e di conoscersi generativamente (cfr. Gen 4,1: “Adamo conobbe Eva sua moglie”). Il corpo risulta essere uno spazio di verità perché ci permette di distinguere tra le visioni che si chiudono in se stesse e quelle che riconoscono un’origine e, alla luce di questa origine, estendono il loro sguardo sul mondo. L’esperienza di verità propria del corpo è quella che afferma, nell’incontro con l’altro: “Ecco un corpo che manifesta la persona come qualcosa che mi è stato dato e che mi chiama a donarmi ad esso; ecco un luogo dove la mia visione si apre alla visione dell’altro e alla visione del Creatore che ci ha uniti”.

Questa comprensione del corpo, attestata nell’Antico Testamento, ci aiuta a cogliere come Gesù può mostrarci la verità proprio nel suo corpo. In lui, infatti, raggiunge la sua pienezza l’esperienza della verità che troviamo in ogni corpo. Vedremo in seguito che lo spazio della piena verità è il corpo risorto di Gesù, che ci viene offerto nell’Eucaristia. Notiamo che la tradizione teologica ha spesso aggiunto la parola “vero” proprio al corpo, al corpo che Gesù ha assunto, al corpo che ha sofferto ed è risorto e salito al cielo, al corpo eucaristico. Questo è ciò che la Chiesa canta davanti al sacramento: “Ave verum corpus natum […] vere passum, immolatum”. Ecco il “corpus verum”, vale a dire, non solo un corpo autentico, ma il corpo dove si manifesta la verità totale di Dio, dell’uomo e del mondo.

Per vedere come il corpo di Gesù sia uno spazio pieno di verità, percorreremo alcuni momenti del Vangelo secondo Giovanni, concentrandoci sull’associazione tra la verità e il corpo. Questa unione tra verità e corpo ci porterà a comprendere, a sua volta, che la verità è la verità di un amore, precisamente l’amore che si dà nel corpo.

3. La manifestazione della verità nella vita di Gesù

Giovanni ha scritto il suo Vangelo a partire dalla pienezza dell’incontro con il Risorto, raccolto nella confessione di fede di Tommaso davanti al costato aperto: “Mio Signore e mio Dio” (Gv 20,28). La parola di Gesù: “tendi la tua mano e mettila nel mio fianco” (Gv 20,27) è connessa con un’altra sua parola: “prendi e mangia”. Alla luce della Pasqua esploreremo, come abbiamo detto, come la verità di Gesù sia contenuta nella sua carne e quindi appaia come la verità dell’amore.

a) “Pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14)

“E il Verbo si fece carne… pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14). Colui che è pieno di questa grazia della verità non è semplicemente il Logos, ma il Logos fatto carne. Questo è ciò che è registrato all’inizio della prima epistola di Giovanni: “quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita, infatti, si manifestò” (1 Gv 1,1-2). La verità, che è la visibilità della vita, si rivela nell’incontro con il corpo di Gesù, dove la Parola può essere contemplata e toccata.

San Giovanni identifica qui la carne con la tenda dove abita il Logos, cioè con il Tempio, cosa che Gesù stesso confermerà più tardi ai farisei (cfr. Gv 2,21). Ebbene, è proprio dallo spazio del Tempio che si sperimenta la presenza del Creatore e Padre. Ecco che la carne di Gesù si identifica con il tempio proprio perché Cristo è il Logos, che era da principio nel seno del Padre, riferito totalmente a lui, e che lo ha manifestato a noi (cfr. Gv 1,1; Gv 1,18).

Il corpo è dunque il luogo della Parola che si rivolge a Dio e che, come vedremo, è una parola filiale. Infatti, il prologo del Vangelo, che comincia parlando della Parola, finisce parlando del Figlio Unigenito (Gv 1,14; Gv 1,18). In mezzo c’è la nascita nella carne della Parola, che spiega il passaggio: se la Parola ha potuto nascere, è perché è sempre stata il Figlio.

Questo riferimento del corpo al Padre spiega perché il corpo è “pieno di verità”. La verità consiste dunque nella capacità della carne di rivelare il Padre creatore, cioè consiste nella capacità della carne di acquisire un significato filiale. Il nostro corpo porta, infatti, la memoria di un dono primordiale ricevuto dal Creatore attraverso i nostri genitori. Il nostro corpo è il primo spazio di verità perché è lo spazio dove si ricorda l’azione originale di Dio, che ci ha creato.

Ebbene, ciò che accade in ogni corpo umano, e che è l’asse centrale della verità del corpo, è accaduto in Gesù in modo supremo e unico, perché è il Figlio nato da Maria. Il corpo di Gesù non solo parla del Creatore del mondo, ma ci mostra l’intimità del Padre che, consegnandoci il suo Figlio, ha dato se stesso. La carne di Gesù è piena di verità perché manifesta l’origine di tutto e ci permette di riconoscere questa origine e di nascere a nostra volta da essa: “quelli che credono nel suo nome […] da Dio sono stati generati” (Gv 1,12-13).

In breve, la verità si manifesta nel corpo, perché il corpo è lo spazio della filiazione. Già da qui è chiaro che la verità porta in sé l’amore, l’amore del Figlio che riceve tutto da suo Padre. Ecco perché possiamo parlare della “grazia (o dono) della verità” (cfr. Gv 1,14). Ma questa dimensione filiale non è l’unica che costituisce la verità del corpo.

b) Adorare “in Spirito e verità” (Gv 4,23)

Una seconda dimensione di quella verità che si manifesta corporalmente appare nell’incontro di Gesù con la Samaritana. San Giovanni presenta la scena su un doppio piano: il piano storico della donna che Gesù incontra, e il piano simbolico in cui la donna rappresenta la Samaria, separata da Israele. Gesù, su questo secondo piano, appare come lo sposo di Israele, come Giovanni Battista aveva indicato poco prima (Gv 3,29), e come si era mostrato nel suo primo segno pubblico, le nozze di Cana (Gv 2,1-11). Di conseguenza, c’è anche una corrispondenza tra la falsità dell’amore della samaritana e la falsità del culto sul monte Garizin, adulterio contro il vero Dio (cfr. L. Alonso Schökel, Símbolos matrimoniales en la Biblia, Estella [Navarra], Verbo Divino, 1997, 179-184).

Cosa significa, in questo contesto, adorare “in Spirito e verità”? Gesù dice che presto ci sarà un passaggio dal Tempio di Gerusalemme a un nuovo Tempio, che sappiamo essere il suo corpo risorto (Gv 2,21). Adorare in verità, quindi, è adorare a partire dal corpo di Cristo, dalle coordinate della sua vita nella carne, dalle relazioni come le ha vissute lui. È proprio in questo luogo, e solo in questo luogo, che si riversa lo Spirito, in modo che il culto sia reso “in Spirito e verità”.

Il corpo di Cristo appare ora non solo come aperto al Padre, ma anche come capace di incorporare in sé gli uomini (come già accennato in Gv 1,13). Questo vuol dire che il significato o l’orientamento filiale del corpo è unito ad un significato o orientamento sponsale, come conferma il contesto del dialogo con la samaritana. Il dono di Cristo permette alla donna di chiedere l’acqua della vita, incorporandosi per fede a Gesù. Inoltre, questo nuovo corpo di Cristo come sposo contiene in sé la verità creaturale, e per questo Gesù ricorda alla donna: “quello che hai ora non è tuo marito” (Gv 4,18). Egli porta questa verità creaturale ad una nuova dimensione, in quanto Gesù è capace di donarsi sponsalmente per tutti gli uomini.

La verità nasce, dunque, in un corpo che si consegna e che, quando viene accolto, genera un’unità di visione. La Genesi dice che “Adamo conobbe Eva, sua moglie” (Gen 4,1). E il profeta Osea è passato da questa conoscenza coniugale alla conoscenza del Dio dell’alleanza. Gesù segue lo stesso percorso, dicendo alla donna: “Se tu conoscessi il dono di Dio…” (Gv 4,10) e invitandola a smettere di adorare “colui che non conosce” (cfr. Gv 4,22), cioè l’idolo (cfr. Deut 11,28: “dèi stranieri, che voi non avete conosciuto”).

Cristo è la verità perché ha portato questo dono del corpo a un nuovo livello, come lo esprime nell’Eucaristia, dove il suo corpo è radicalmente associato al dono di sé stesso: questa è “la mia carne per la vita del mondo” (Gv 6,51). Ed è solo in questo dono di sé che si raggiunge la piena conoscenza della vita, come dono del Creatore per l’unità tra gli uomini. Inoltre, è proprio questo dono che rende la verità aperta alla libertà.

c) “La verità vi farà liberi” (Gv 8,32)

La frase di Gesù che unisce verità e libertà ha il suo sfondo nell’Antico Testamento. Il Maestro la pronuncia nel Tempio, durante la festa dei Tabernacoli, quando la spianata del santuario si riempiva di recipienti d’acqua e, al calar della notte, di grandi torce. Si ricordava così la liberazione di Israele dall’Egitto, attraversando il deserto e sotto la guida della colonna di fuoco. In questo contesto Gesù si presenta come la fonte dell’acqua viva (Gv 7,37-38) e anche come la luce del mondo (Gv 9,5), e così conferma che in lui si trova il vero e definitivo tempio.

Perciò, quando Gesù dice: “la verità vi farà liberi”, la verità viene di nuovo associata allo spazio del suo corpo-tempio, ora visto come luogo di liberazione. La verità che ci rende liberi è l’incontro con il Figlio incarnato e l’incorporazione in Lui. Per questo la Legge è paragonata alla verità, come già nel Prologo del Vangelo (Gv 1,17). È Gesù, infatti, che porta la Legge (che alla fine rimane esterna all’uomo e, quindi, incapace di salvarlo) alla sua pienezza, scrivendo la sua figliolanza nei nostri cuori di carne.

È comprensibile allora che la frase “la verità vi farà liberi” (Gv 8,32) vada in parallelo con “il Figlio vi farà liberi” (Gv 8,36). Si indica così la necessità di una casa paterna per poter esercitare la libertà. La libertà nasce dall’armonia con il luogo in cui si vive, in modo che ogni lavoro per migliorare quel luogo edifichi colui che lo porta a termine. Il contrario accade con lo schiavo, il cui lavoro rimane fuori di sé, e così resta diviso, alienato nel suo padrone. Gesù porta la piena libertà in quanto introduce un nuovo scenario nel mondo, un nuovo spazio-casa dove il Padre è riconosciuto. Questo spazio è quello del suo corpo, al quale possiamo unirci, per entrare in alleanza con Dio e con i nostri fratelli e sorelle. La verità ci rende, quindi, liberi, con una libertà che edifica.

Possiamo concludere che la verità è qui come il piano o l’architettura di quello spazio dove si può agire liberamente, spazio radicato nel nostro corpo. Per questo si tratta di una libertà che non consiste nell’assenza di vincoli, ma al contrario, nella presenza proprio di quei vincoli che permettono di rigenerare il desiderio e di dare più forza al nostro operare.

Questo contesto della liberazione evidenzia il carattere dinamico della verità, che mette in movimento l’uomo. La verità è anche dunque (e qui si riprende l’eredità dell’Antico Testamento) la corrispondenza tra ciò che si dice e ciò che si fa, tra la persona e la sua azione fedele, sostenuta giorno per giorno. Da ciò deriva anche che la verità abbia bisogno di tutto il tempo di una vita per essere manifestata e compresa. Per questo ci sono anche tempi veri, o tempi pieni di verità, cioè quelli il cui ritmo ci permette di percepire il piano del Padre nella nostra vita, dalla memoria dei suoi doni alla fecondità dei suoi progetti.

La verità non è quindi solo ciò che c’è, ma è anche ciò che può esserci; non solo ciò che siamo, ma ciò che siamo chiamati ad essere. Infatti, chi è aperto alla luce che viene dal Creatore può inaugurare nuovi mondi, come l’artista che, da ciò che vede, genera a sua volta una nuova visione. Anche i genitori sperimentano questa proiezione della verità verso il futuro quando danno un nome al loro bambino. Pur individuando il nome giusto, vale a dire, quello che meglio si adatta al bambino, capiscono a loro volta che questo nome è pieno di nuove possibilità. La verità del nome che impongono sta nella grandezza degli orizzonti che il loro figlio inaugurerà nel futuro. Qui abbiamo l’aspetto generativo della verità, che si unisce agli aspetti filiale e sponsale menzionati sopra, confermando ancora una volta la relazione tra verità e amore.

d) “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6).

Durante l’Ultima Cena, Gesù si presenta come “la” verità in persona, il che ci permette di tessere insieme i fili che abbiamo descritto finora. Il contesto è di nuovo importante, perché il Maestro ha parlato delle molte dimore che prepara per i suoi (Gv 14,1-3). Sorge così di nuovo il tema del tempio, che è il corpo di Gesù: le dimore sono la nostra incorporazione a questo corpo, che egli preparerà nella risurrezione perché possa accogliere i discepoli: “Molte dimore nella casa, come molte membra nel corpo”, afferma sant’Ireneo di Lione (Adv. Haer. III 19,3: SCh 211, lín.79).

Questo contesto delle dimore del Tempio ci aiuta ad interpretare la frase di Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6). La via qui equivale alla costruzione della dimora, e abbiamo già osservato che la verità indica precisamente l’architettura di questa dimora.

Secondo questo, non basta dire che Gesù è la via alla verità e alla vita, le quali sarebbero la mèta. Sembra piuttosto che la verità e la vita facciano parte del cammino verso il Padre, l’unica mèta. Abbiamo già visto, infatti, che la verità ci viene aperta nella carne di Gesù nella misura in cui, incorporandoci ad essa, possiamo avere la conoscenza del Padre e quindi ci viene data la libertà del figlio per costruire la casa. E la vita è quella di Gesù nel suo corpo, che raggiungerà la pienezza nella resurrezione, e poi sarà data a noi, suoi discepoli, per condividerla come vita eterna.

Tutto questo ci invita a interpretare “Io sono la via, la verità e la vita” in parallelo con una frase della Lettera agli Ebrei, che parla della “via nuova e vivente che egli [Gesù] ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne”, per entrare nel Santuario, che è la presenza di Dio (Eb 10,20).

In primo luogo, Gesù è una via vivente (via e allo stesso tempo vita) perché è una via personale, ovvero una persona che apre la via e ci conduce lungo di essa. Poiché egli è una via viva, si comprende che la mèta sia anticipata lungo il cammino, in quanto appartiene alla vita il fatto che essa sia sempre ormai vita man mano che cresce verso la vita piena. Notiamo la differenza con i prodotti del lavoro umano: un’automobile è un’automobile solo quando è stata messa l’ultima ruota. Perciò, quando Gesù si presenta come la via al Padre, afferma, allo stesso tempo, che chi ha visto lui ha visto il Padre. Questo coincide con la logica sacramentale, dove il sacramento è un segno che, allo stesso tempo, realizza già ciò che significa.

Vediamo anche che la via è nuova perché Gesù l’ha aperta attraverso il velo, che è il suo corpo risorto. Ancora una volta c’è una relazione con le dimore della casa del Padre (Gv 14,2) che sono nuove perché Gesù le inaugura nel suo corpo dato e risorto per noi. Questo a sua volta ci aiuta a capire perché Gesù è “la verità”: lo è nella misura in cui è il Verbo fatto carne, che ci sveglia dal nostro sonno chiuso in se stesso e ci fa entrare nello spazio comune del reale. “Io sono la verità” significa, allora: “ecco un corpo che manifesta il Padre e la pienezza dei suoi disegni, ecco uno spazio dove ogni uomo può essere incorporato per contemplare questa manifestazione e parteciparvi”. Per questo Gesù non solo è pieno di verità, ma è capace di comunicare la verità, come un padre che non lascia orfani i suoi discepoli (Gv 14,18), perché prepara loro una dimora.

Già questo ci mostra che la verità che Gesù è non può essere separata dall’amore. Ciò diventa ancora più chiaro se continuiamo a leggere il suo discorso. Lo spazio di verità che Gesù ci apre è lo spazio dell’incontro tra Padre e Figlio: “Io sono nel Padre e il Padre è in me” (Gv 14,11). Perciò il cristiano che è incorporato al corpo di Gesù è incorporato in una comunione tra Padre e Figlio che diventa interiore al cristiano stesso: “Noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Questa trasformazione dalla dimora del corpo di Gesù alla dimora interiore dell’amore avviene grazie allo Spirito, che Gesù chiama qui “lo Spirito della verità” (Gv 14,17). L’amore è quindi legato alla verità del corpo di Cristo, la quale, come abbiamo visto, poggia sui significati filiale, sponsale e generativo del corpo.

Dopo essersi presentato come “la via, la verità e la vita”, Gesù fa un altro riferimento alla verità nella sua preghiera sacerdotale, dove chiede al Padre: “Consacrali nella verità” (Gv 17,17). L’espressione “nella verità” possiede qui un senso spaziale (cfr. I. de la Potterie, La vérité dans Saint Jean, op. cit., vol. II, 756), il che conferma la nostra lettura della verità come lo spazio del Tempio del corpo di Gesù, dove può avvenire la piena comunione con il Padre e tra di noi. È in questo spazio che lo stesso Gesù santifica se stesso, in quanto, tramite la sua morte e risurrezione, porta il suo corpo verso la piena unità con Dio. Ed è anche in questo spazio che ci santifica, donandoci la sua stessa comunione con Dio.

Da questa pienezza di verità in Gesù viene illuminata anche la sua conversazione con Ponzio Pilato. Gesù associa la sua regalità alla testimonianza della verità, per la quale è nato e venuto nel mondo. Se la verità rende Gesù re, è perché essa non è qualcosa di privato, ma trasforma le relazioni tra le persone. Gesù è re perché apre lo spazio concreto delle relazioni umane dove è possibile la piena comunicazione con il Padre e tra gli uomini, uno spazio dove vivono coloro che “appartengono alla verità” e ascoltano la sua voce.

Questa verità non è di questo mondo, che ha oscurato la verità delle relazioni, la verità dell’amore, per imporre una verità che è dominio assoluto dell’uomo sul mondo e gli altri. Ma perfino Pilato, che ha potere in questo mondo, riceve tale potere dalla fonte della verità, che è il Padre, e senza questo riferimento il suo potere svanirebbe, incapace di mantenere alcun ordine. Avendo la stessa origine, la verità che Gesù porta è capace di illuminare, anche in questo mondo, la vita in società degli uomini. Infatti, la verità cristiana, in quanto verità dell’amore e verità su cui poggia la dignità di ogni persona, si presenta a questo mondo come il giudizio definitivo su di esso. Giovanni ne vede un segno quando Pilato, a mezzogiorno, l’ora di massima luce, senza sospettare il mistero nascosto nella sua beffa, fa sedere Gesù al posto del giudice (Gv 19,13).

4. Conclusione: verità eucaristica

Da tutto ciò che è stato detto possiamo concludere che la verità si mostra nello spazio aperto dal corpo di Cristo. Questo è un corpo pieno di verità per la sua relazione con il Padre; è un corpo che si apre al corpo della Chiesa Sposa perché i fedeli possano adorare “in Spirito e verità”; e, finalmente, essendo un corpo filiale e sponsale, è un corpo dove ci si può abitare, per essere libero nella propria casa, con una libertà capace di edificare. Gesù realizza questa verità nella sua Passione, Croce e Resurrezione, e la ricapitola nel rito dell’Ultima Cena.

Il rito eucaristico ci permette di concludere quale sia la verità di Gesù. La confessione: “Gesù è la verità” deve essere letta a partire dall’Eucaristia. Nell’Eucaristia, infatti, ci viene dato lo spazio da cui contemplare la verità, vale a dire, lo spazio del corpo di Gesù. Si tratta di uno spazio ricevuto dal Padre (“prese il pane e rese grazie”) e aperto ai nostri fratelli per generare vita in loro (“per voi”, “per la vita del mondo”). Infatti, nella sua preghiera sacerdotale Gesù chiede al Padre che, a partire dal “potere che il Padre gli ha dato su ogni essere umano”, possa dare “la vita eterna a tutti coloro che il Padre gli ha dato” (cfr. Gv 17,2). Egli chiede quindi di incorporarli al suo corpo risorto, che è il corpo eucaristico, e definisce poi questa vita risorta nella carne come accesso alla verità: “Questa è la vita eterna, che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,3).

Da qui si chiarisce la relazione della verità con l’amore, che ci permette di chiamarla la verità dell’amore, e di parlare di “amare nella verità” (2 Gv 1,1; 3 Gv 1,1). Non siamo, infatti, davanti a una verità che si contempla da lontano, ma davanti a una verità che ci chiama, invitandoci a parteciparvi, come Gesù ci invita a prendere e mangiare del suo corpo. Inoltre, la verità che si mostra nel corpo di Gesù corrisponde alla sua gratitudine al Padre e al suo dono di sé per noi. Quindi questa verità che si mostra nello spazio del corpo coincide con la conoscenza dell’amore, l’amore del Padre e del Figlio, insieme all’amore fraterno. Notiamo che proprio nell’Ultima Cena abbonda il vocabolario giovanneo dell’amore: Gesù allora ci ama fino alla fine (Gv 13,1) e ci comanda di amarci gli uni gli altri come Lui ci ha amati (Gv 13,34-35), cioè come il Padre ha amato Lui (Gv 15,9).

La frase di Sant’Ignazio di Antiochia: “la fede è la carne, la carità è il sangue” (Tral. 8), associando fede e carne, conferma ciò che stiamo dicendo. La fede, infatti, è la risposta propria di chi riconosce la verità, e quindi è legata alla carne del Verbo, dove si apre lo spazio per contemplare questa verità. Ignazio stesso userà l’avverbio “veramente” per riferirsi proprio ai misteri nella carne di Gesù, che avvennero nella realtà, contrariamente a quanto sostenevano i doceti, che li giudicavano mera apparenza. E il sangue di cui parla Ignazio? È associato all’amore, perché è il sangue dell’alleanza che Gesù versa per noi, e quindi evoca lo Spirito di vita e di comunione. L’unione eucaristica della carne e del sangue è dunque l’unione della verità e dell’amore.

Penso che qui si trovi la ragione per cui Gesù predica “come uno che ha autorità, e non come gli scribi” (cfr. Mc 1,22). L’autorità viene dall’armonia tra la sua parola e il suo corpo, tra ciò che dice e il suo modo di vivere le relazioni. Cioè, ciò che Gesù insegna coincide con il linguaggio originale che il Padre Creatore ha iscritto nei nostri corpi, e che ci permette di confessarlo come fonte di tutto ciò che siamo e facciamo. Per questo Gesù afferma che la sua dottrina non è sua (Gv 7,16). Inoltre, la parola di Gesù è anche piena di autorità perché, a partire da questo riferimento al Padre, è capace di dare una forma nuova alle nostre relazioni. La parola piena di autorità, da cui scaturisce l’autorità delle altre parole di Gesù, è quella che pronuncia sul suo corpo e sul suo sangue: “Rendendo grazie, disse: Prendete, mangiate; prendete, bevete…”.

“Come Gesù Cristo è rimasto sconosciuto tra gli uomini, così la sua verità resta, tra le opinioni comuni, senza differenza esteriore. Così resta l’Eucaristia tra il pane comune”, dice Pascal (Pensées, 789, ed. L. Brunschvicg; citato da san Giovanni Paolo II in Fides et Ratio 13). Riconoscere la verità equivale a riconoscere un corpo tra altri corpi. Si tratta, infatti, di riconoscere il corpo personale che ci chiama ad un incontro dove si genera una visione comune. Si tratta, inoltre, di riconoscere tra gli altri corpi il corpo di Gesù, dove il linguaggio di ogni corpo personale raggiunge la sua pienezza, perché ci apre alla conoscenza del Padre e dei fratelli.

Questa visione di Gesù come verità dell’amore ci dà una chiave per la cristologia attuale. Se la prima Chiesa ha sviluppato una cristologia ontologica, che guardava all’essere di Gesù come figlio di Dio e figlio dell’uomo, il secolo scorso si è concentrato sull’articolazione di una cristologia della coscienza di Gesù e della sua libertà. Era una domanda propria del contesto moderno, che ha portato ricchi sviluppi, ma che ha anche mostrato i suoi limiti, concentrandosi troppo su una visione autonoma del soggetto. Ciò che abbiamo mostrato indica la necessità di sottolineare oggi, davanti alla crisi della verità dell’amore, le nuove relazioni che Gesù apre nel suo corpo, con il Padre e con gli uomini, il che ci porta a una cristologia eucaristica, che presenta Gesù come la piena unità di verità e amore.

In primo luogo, tale unità tra verità e amore che si attua in Gesù è possibile solo se Cristo è il Figlio di Dio. Solo una radicale accettazione filiale del Padre Creatore può far sì che tutto ciò che è vero sia proclamato come amabile e tutto ciò che è amabile come vero. Inoltre, l’unità di verità e amore in Cristo dimostra che egli ha assunto tutto ciò che è umano, integrando gli affetti, l’intelligenza e la volontà, perché solo in questo modo può riscattare la nostra capacità di vero amore. Infine, con il suo modo di unire la verità e l’amore, Cristo ha mostrato il modo in cui egli unisce Dio e l’uomo, con un’unione totale che, allo stesso tempo, mantiene il giusto ordine tra colui che è la fonte originale e colui che prima riceve l’amore per poi, a sua volta, donarlo. In breve, la verità dell’amore offre una chiave per penetrare a fondo il mistero di Gesù. Cristo non solo ha riparato la rottura della verità e dell’amore creata dal peccato dell’uomo, ma ha innalzato l’unità creaturale della verità e dell’amore a una misura senza precedenti.

Questa visione di Cristo ha conseguenze nel dibattito moderno, anche all’interno della Chiesa. Da quanto si è detto si deduce che la separazione tra verità e amore, dottrina e misericordia, teoria e pratica, crea a sua volta una frattura in Cristo stesso. Chi, per esempio, considera la dottrina cristiana un bell’ideale che non viene intaccato dai cambiamenti nella pratica pastorale, sta separando la verità di Gesù dall’amore di Gesù, il che può essere fatto solo separando il Logos dalla sua carne.

Voglio concludere citando Sant’Agostino. Il vescovo di Ippona si riferisce spesso all’unità biblica tra misericordia (amore) e verità (fedeltà), dove scopre una sintesi dei piani di Dio. Il Salmo 24 dice, ad esempio, che “tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà” (Sal 24,10; cfr. Tob 3,12) e la stessa coppia si trova in molti altri salmi (cfr. Sal 35,6; Sal 39,12; Sal 56,11; Sal 84,11; Sal 88,15; Sal 99,5; Sal 107,5; Sal 116,2).

Ebbene, Agostino vede questa armonia personificata in Gesù: “Vediamo che Cristo stesso è misericordia e verità” (Enarr in Psalm. 56,10 [CCSL 39, 16]). Questo accade già nell’Incarnazione, dove la frase del salmo la “verità germoglierà dalla terra” è interpretata come: “il Verbo è nato da Maria” (Enarr nel Salmo 84,13 [CCSL 39, 2]). La verità, essendo nata dalla carne, può morire per noi, mostrando così la sua misericordia. La resurrezione, invece, è la piena giustificazione dell’uomo, dove si mette in rilievo di nuovo la verità di Gesù, che adempie le sue promesse di portarci vera vita (Enarr in Psalm. 56, 10 [CCSL 39, 16-22]). La distinzione di misericordia e verità è poi applicata alla sua prima e seconda venuta, poiché nella prima è venuto a mostrare misericordia, nella seconda porterà la piena giustizia o il nostro pieno adeguamento con Dio (Enarr in Psalm. 24, 10 [CCSL 38, 1]).

Sant’Agostino, quindi, vedeva nella confessione dell’unità della verità e dell’amore anche la confessione dell’unità della persona e dell’opera di Gesù, che assume la carne per morire nella carne e permetterci così di essere incorporati a lui. Tutto avviene, inoltre, attraverso il corpo che il Figlio di Dio ha assunto per darci come nuova dimora. Questa corrispondenza tra verità e amore, che fanno di Cristo una via di pienezza per l’uomo, spiega come un altro santo, Bernardo di Chiaravalle, abbia potuto dire: “non solo la verità, ma anche l’amore ci farà liberi” (Epist 233, par. 3, Opera omnia, vol. 8, p. 106).

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José Granados

José Granados è Teologo Dogmatico e cofondatore del Veritas Amoris Project. Tra il 2010 e il 2020 ha insegnato come ordinario di Teologia dogmatica del matrimonio e della famiglia al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia a Roma, di cui fu Vicepreside. Tra il 2004 e il 2009 è stato professore di teologia alla sezione di Washington, DC dello stesso Istituto Giovanni Paolo II. È autore di numerose pubblicazioni, tra cui "Una sola carne in un solo spirito. Teologia del matrimonio", Cantagalli 2014 e "Teologia dei sacramenti: Segni di Cristo nella carne", Cantagalli 2023.

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