Cambiamento di paradigma da Veritatis splendor ad Amoris Laetitia?

Livio Melina

Cosa vedete? A seconda del “paradigma” applicato, si vede una vecchia o una giovane donna. Credit: Wikimedia Commons

Conferenza tenuta il 14 e 15 aprile 2021 ad Ars, Francia

 

Che cos’è accaduto con la pubblicazione di Amoris Laetitia (19 marzo 2016) nella teologia morale cattolica? Alcuni sostengono che è cambiato tutto, in particolare che ormai non ci si può riferire a Veritatis splendor (6 agosto 1993), che sarebbe superata: Si sarebbe passati dal rigorismo degli “assoluti morali” e delle norme negative valide senza eccezione, alla flessibilità pastorale, che privilegia il discernimento caso per caso e la coscienza del soggetto. Altri invece pensano che non è cambiato proprio niente nella dottrina morale, ma che si è solo evidenziato una dimensione pastorale, forse prima troppo trascurata.

Il nostro gruppo di teologi e moralisti, che ora fa capo al “Veritas Amoris Project” si è attenuto ad una ermeneutica della continuità nell’interpretare il documento di papa Francesco: dal momento che in esso non sono presenti affermazioni dottrinali esplicitamente in discontinuità col magistero di Veritatis splendor e col magistero precedente, benché vi siano accenti diversi e ambiguità in certe formulazioni, si può e si deve continuare ad insegnare la dottrina tradizionale sul matrimonio e sulla famiglia, nonché la morale coniugale e sessuale della Tradizione. È ancora possibile sostenere questo? È una ingenuità, con cui non si vuole guardare in faccia alla realtà? Oppure è un sotterfugio, che però è smentito dai fatti e dalla pratica?

Occorre comprendere bene la situazione teorica, e per farlo, articolerò il discorso in tre momenti: 1) In primo luogo ci chiederemo che cosa sia un “cambio di paradigma” in teologia. 2) Poi, passeremo in rassegna i differenti asseriti “cambi” che vengono proposti, che sono molteplici e diversi tra di loro, dal momento che non è evidente quale sia effettivamente il cambio di paradigma proposto da Amoris laetitia; questa sarà la pars destruens, che sottoporrò a critica. 3) Poi passo ad una pars construens, la terza: cercherò di proporre una risposta adeguata alla situazione, tenendo conto della preoccupazione di papa Francesco e integrandola in un “paradigma” che mi sembra coerente e valido in riferimento alle esigenze della coerenza dottrinale con la Tradizione e della situazione pastorale. Abbiamo infatti il dovere di prendere sul serio il suo invito. La mia proposta non vuol essere né difensiva, né restauratrice.

 

I. Pars destruens: approccio critico

1. Un cambio di paradigma? A confronto con la tesi di Walter Kasper e Eberhard Schockenhoff

Un’interpretazione influente del rapporto tra l’enciclica Veritatis splendor di papa San Giovanni Paolo II e l’esortazione apostolica Amoris laetitia di papa Francesco è quella proposta dal Cardinale e teologo tedesco Walter Kasper, che per primo ha introdotto la chiave ermeneutica del “cambiamento di paradigma”. Egli infatti afferma: «Ein Paradigmenwechsel ändert nicht die bisherige Lehre»[1]. L’insegnamento dell’esortazione non cambia la dottrina, ma il paradigma con cui interpretarla. Nello stesso senso va anche il suo amico ed ex assistente, Eberhard Schockenhoff, che scrive un contributo al riguardo sempre su Stimmen der Zeit di qualche mese dopo[2]. È questa la proposta più fondamentale e radicale da considerare.

Che cos’è un paradigma? L’autorevole Dizionario Treccani ci dice che il termine deriva dal latino tardo paradigma (dal greco παράδειγμα, derivato di παραδείκνυμι «mostrare, presentare, confrontare», composto di παρα- «para-» e δείκνυμι «mostrare», col significato basilare di “modello”. In grammatica, indica un modello di declinazione o di coniugazione dato dai manuali di studio (per es., in latino, la flessione di rosa, di rivus, ecc., per le declinazioni dei nomi nei casi; di amare, monere, legĕre, audire per le quattro coniugazioni verbali; anche, l’enunciazione delle forme fondamentali di un verbo, cioè dei temi del presente, perfetto, supino, infinito, da cui derivano tutti gli altri tempi del verbo stesso (così, per es., il paradigma del verbo pingĕre si enuncia: pingois, pinxi, pictum, pingĕre). Nella linguistica moderna, il termine paradigma indica l’insieme degli elementi della frase che contraggono tra loro una relazione virtuale di sostituibilità, potendo sostituirsi gli uni agli altri nello stesso contesto. Nel linguaggio filosofico, il termine fu usato da Platone per designare le realtà ideali concepite come eterni modelli delle transeunti realtà sensibili, e da Aristotele per indicare l’argomento, basato su un caso noto, a cui si ricorre per illustrare uno meno noto o del tutto ignoto.

Con altro significato, il termine è stato recentemente introdotto nella sociologia e filosofia della scienza per indicare quel complesso di regole metodologiche, modelli esplicativi, criterî di soluzione di problemi che caratterizza una comunità di scienziati in una fase determinata dell’evoluzione storica della loro disciplina: a mutamenti di paradigma sarebbero in tal senso riconducibili le cosiddette «rivoluzioni scientifiche». Il tema del mutamento di “paradigma” (Paradigmenwechsel) nella conoscenza è stato ampiamente trattato dall’epistemologo Thomas S. Kuhn[3], che definisce quest’ultimo come un codice di credenze condivise da una comunità, che regola il linguaggio e determina normativamente il contesto semantico delle affermazioni.

Per Kasper, l’introduzione di un nuovo paradigma nella teologia pastorale della famiglia vuol dire sostanzialmente due cose[4]:

  • Introdurre nell’etica un nuovo linguaggio che sostituisce i termini tradizionali. Cambia il linguaggio che si dovrà usare. Il “peccato” diventa “imperfezione” o “fragilità”. Non si usa più il termine “adulterio” e non dovrà più venire impiegato, perché ritenuto offensivo per le persone. Si parla di “coppie irregolari”, espressione che poi viene anch’essa messa fra parentesi. La norma morale, anche di carattere negativo, diventa un “ideale” verso cui tendere. Le tradizionali circostanze “attenuanti” della responsabilità, che la morale casuistica per confessori valutava dopo l’azione, diventano ora “eccezioni” alla norma, ed hanno valore anche prima dell’agire.
  • Usare un’epistemologia storicista e esistenzialista. Nel 1965 Kasper scrisse un libro dal titolo Il dogma sotto la Parola di Dio. Nel 1967 seguì il saggio Per un rinnovamento del metodo teologico. L’interpretazione innovativa che egli propone si articola intorno a tre elementi: la Parola di Dio, la dottrina, e la pastorale. Kasper organizza questi tre fattori nel modo seguente: assolutamente vincolante per la Chiesa è la Parola di Dio, che tuttavia non può essere identificata con la dottrina. La dottrina è dunque relativizzata rispetto alla Parola di Dio, che ha un primato rispetto alle formulazioni dogmatiche: niente può essere ritenuto assolutamente vero o falso una volta per tutte.

Per Kasper la dottrina è quindi il tentativo sempre fallibile di concettualizzare la Parola, che in se stessa non è concettualizzabile anche se ha valore assoluto. La dottrina perciò dev’essere continuamente criticata dalla Parola. Ma la dottrina viene criticata anche dalla realtà pastorale. Esistono le circostanze storiche dalle quali la dottrina viene criticata. La dottrina viene criticata dalla Parola e dalla prassi. La prassi diventa quindi elemento critico della dottrina.

Per Kasper c’è allora la necessità di avere una corrispondenza adeguata tra la dottrina e la cultura dell’ambiente: la dottrina dev’essere relativizzata rispetto alla prassi, per poter esprimere le esigenze della Parola, soprattutto quando si tratta di dottrina morale. Esiste una varietà di situazioni che necessitano un discernimento caso per caso. Il criterio del discernimento viene esasperato e diventa chiave ermeneutica universale. Allora è vero che non si va direttamente contro la dottrina, ma viene predisposto tutto perché ci sia un cambiamento di dottrina. La dottrina è posta dunque in una situazione di continuo “aggiornamento” con l’aiuto di un’esegesi storicista e esistenzialista della verità della Parola, che non sarebbe mai concettualizzabile.

Sarà la prassi a cambiare la dottrina. Ciò significa primato della prassi pastorale, “conversione pastorale” della teologia. La prassi diventa quindi fonte di dottrina. Nella Chiesa si tratta di “aprire processi” perché la prassi cambi la mentalità dei fedeli e poi si possa cambiare anche la dottrina.

Si tratta di una prassi che ha dimenticato alcune parole e che non fa più riferimento ad alcune tematiche che sono fondamentali per la teologia morale, come la legge naturale, i precetti morali assoluti negativi e le virtù, in particolare la virtù della castità. Invece viene esaltata la sessualità come fonte di vita e di energia, quasi fosse priva di implicazioni morali, in conformità con la mentalità vitalistica prevalente. Kasper sostiene che in un cambiamento di paradigma non cambia la dottrina e in effetti Amoris laetitia non contraddice esplicitamente la dottrina come tale. Ma è vero che inizia un processo linguistico che tocca il contesto semantico all’interno del quale la dottrina ha senso. Tutto è posto in movimento.

Un cambiamento che determina il contesto semantico delle affermazioni dottrinali implica un cambiamento ancor più radicale della contestazione di una singola affermazione dottrinale.

È chiaro per tutti noi che la dottrina nella Chiesa non è un sistema rigido e immutabile di formule, ma è un organismo vivente, che si sviluppa come un corpo. Essa tuttavia intende onorare fino in fondo l’insegnamento di Gesù, per cui «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» (Mt 24, 35). La riflessione dottrinale e teologica della Chiesa, nel corso dei secoli ha maturato una criteriologia per verificare la coerenza vitale della tradizione con le sue origini, senza aggiunte spurie e senza perdite di elementi essenziali: “eodem sensu, eademque sententia – nel medesimo significato, nella medesima affermazione”.

In particolare San John Henry Newman proprio a partire dalla sua stessa esperienza personale, ha offerto un saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana[5], mostrando come essa definisca uno spazio e scandisca il ritmo di un tempo. In altre parole: non si tratta dell’adattarsi ai ritmi del tempo lasciandosi cambiare dalle mode per farsi accettare, ma piuttosto di determinare essa stessa il ritmo della storia. Lo sviluppo della dottrina, senza rinnegare nulla di ciò che fu rivelato, ne mostra la perenne fecondità, evidenziandone aspetti nuovi e inediti nell’incontro con il mondo. Essa diventa così matrice di storia nuova, come è dimostrato proprio dalla vicenda singolare dell’introduzione nel costume pubblico e nella legislazione dell’indissolubilità del matrimonio nella società tardo antica, in cui il divorzio era praticato[6].

Per stringere il confronto tra la proposta di Kasper e il pensiero di Newman, va osservato che il Santo indica come “note” di continuità della dottrina sia la “preservation of the type – la permanenza del tipo” (prima nota), sia la “continuity of principles – la continuità dei principi” (seconda nota). Il type sarebbe ciò che Kasper chiama “paradigma”, distinto dai principi. Ma dobbiamo osservare bene che per Newman, sia il type che i principles devono essere preservati, anzi il type è più decisivo dei principi stessi, perché contiene la forma basica dell’idea cristiana lungo il tempo. Il mutamento di paradigma sarebbe, nel caso suggerito da Kasper, non un’eresia su un punto specifico di dottrina, ma addirittura una meta-eresia, che sconvolge la sostanza stessa della fede e della vita cristiana.

Allora possiamo comprendere che l’idea di un legittimo cambiamento di paradigma può essere accettata solo in un significato molto circoscritto e a patto che non si metta in discussione la forma basica della dottrina morale della Chiesa. Facciamo un esempio. Se ci troviamo in un contesto linguistico anglofono, il termine “gift” ha un significato molto positivo e gradevole: significa “dono”. Ma se cambiamo paradigma linguistico e andiamo in Germania, allora le stesse lettere significano “veleno”. Possiamo dire di aver cambiato solo il paradigma e non la realtà stessa se applichiamo ad un farmaco, prodotto in Germania come pericoloso, l’etichetta “dono”?

Se nel discorso della montagna Gesù parla di “adulterio” e lo indica come un peccato, possiamo dire che siamo fedeli alla stessa dottrina se lo definiamo come una imperfezione in un cammino graduale verso l’ideale, la cui moralità va lasciata al giudizio di ogni singola coscienza? E se poi, per giustificarci arriviamo ad affermare che “all’epoca di Gesù non c’erano registratori” che possano garantirci ciò che Egli abbia davvero detto, oppure che oggi probabilmente anch’Egli avrebbe consentito al divorzio in forza del principio di misericordia[7], allora noi stiamo distruggendo le basi stesse della fede cattolica, al punto che l’obbedienza al successore di Pietro, pur fortemente invocata dagli innovatori, resterebbe essa stessa senza più alcun fondamento teologico e veritativo.

 

2. Differenti cambi di paradigma proposti

Passiamo ora in rassegna alcuni dei cambi di paradigma che sono stati proposti a seguito di Amoris laetitia, che variano molto per argomentazione e per radicalità, ma che convergono tutti nella conclusione pratica della legittimazione di comportamenti morali, prima ritenuti difformi dalla dottrina della Chiesa.

 

a) Paradigma del duplice livello oggettivo / soggettivo della morale e dell’applicazione “caso per caso” della norma (Jean-Miguel Garrigues e Alain Thomasset; card. Marc Ouellet)

Jean-Miguel Garrigues e Alain Thomasset nel loro volume dedicato a rispondere ai dubia dei quattro Cardinali[8], sostengono che Veritatis splendor e Amoris laetitia non sono in contrasto tra di loro perché parlano su di un livello diverso di discorso. Garrigues dice che Veritatis Splendor parla a livello della norma universale, mentre Amoris laetitia parla a livello della sua applicazione alla vita, cioè, parla a livello concreto e non a livello universale e teorico della norma. Il livello universale della norma viene opposto al livello particolare dell’applicazione concreta e individuale. Nell’applicazione bisogna evitare sia il rigorismo (che ritiene che la norma universale sia già da sola sufficiente a guidare il giudizio) sia il lassismo (che volgendosi alla molteplicità delle circostanze dimentica la norma e rimane “senza bussola”). Occorre dunque essere flessibili. La originalità di Amoris laetitia sarebbe quella di proporre, senza negare la dottrina, una morale della flessibilità.

Come si vede, vengono qui riproposte, nell’orizzonte epistemologico proprio della casistica e dei “sistemi morali”, le categorie classiche del rigorismo, del lassismo e della flessibilità. Amoris laetitia propone la flessibilità. In un’ermeneutica di contrapposizione sistemica, viene opposta la morale oggettiva della norma alla morale soggettiva della coscienza. Dell’oggetto morale si dà poi un’interpretazione razionalista, che esclude da esso ogni riferimento all’intenzione. L’oggetto sembra così opporsi dialetticamente alla soggettività. La responsabilità del soggetto nel compiere atti oggettivamente cattivi, può essere diminuita e addirittura eliminata per questioni circostanziali: questo è sempre stato riconosciuto dalla morale cattolica. L’attenuazione della responsabilità che può scusare un atto in se stesso cattivo, viene però adesso dai due moralisti francesi equiparata all’eccezione dalla legge, che non solo scusa questo atto, ma che lo legittima: è la scelta soggettivamente giusta, benché oggettivamente contro la norma. Allora non si tratta più di un atto in se stesso cattivo, che rimane cattivo e tuttavia per il quale non si porta tutta la responsabilità, ma esso diventa un atto buono. Le attenuanti diventano eccezioni.

La flessibilità dà la possibilità di eccepire agli assoluti morali negativi e annulla l’intrinsece malum. Ciò è contro lo spirito e la lettera di Veritatis splendor, n. 123, dove si afferma che «le circostanze o le intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto ‘soggettivamente’ onesto o difendibile come scelta». Come diceva il Cardinal Caffarra: se si parte da una contrapposizione sistemica tra oggettivo, che corrisponde alla norma, e soggettività, che si riferisce alla coscienza, sì finisce inevitabilmente nel vicolo cieco del fariseismo casistico[9], che dimentica che la legge è espressione di una verità sul bene e non di una volontà arbitraria da cui la coscienza deve proteggersi. In realtà si tratta della riproposizione di un paradigma vecchio, già utilizzato in occasione del dibattito sulla contraccezione dopo Humanae vitae, esploso nel cosiddetto “caso Washington” nel 1971, nell’ambito della morale di scuola redentorista (D. Capone, O’ Riordan).

Analoga alla posizione di Garrigues e Thomasset è la opinione espressa dal card. Marc Ouellet, in contraddizione con le sue prese di posizione precedenti quando era professore. Nell’Osservatore Romano nel 2017 Marc Ouellet dice che Amoris laetitia non si contrappone a Veritatis splendor, ma la completa. Amoris laetitia assumerebbe “la prospettiva della vita reale” mentre Veritas splendor parlerebbe della “vita ideale”. Le norme morali oggettivi restano dunque valide a livello ideale, anche se non sono moralmente vincolanti per la vita reale. L’indissolubilità del matrimonio sacramentale sarebbe un ideale cui tendere. Le norme morali oggettive restano valide a livello ideale, anche se possono non essere obbligatorie per il soggetto morale concreto, qui ed ora.

Qui il Cardinale canadese non fa che riprendere una distinzione di Bernhard Häring, che parla di comandamenti ideali (Zielgebote) e di comandamenti-limite (Grenzgeboten). È anche quello che sosteneva già Karl Rahner nel 1961 in Über Existentialethik e nel 1966 in Theoretische und reale Moral in ihrer Differenz. Per Karl Rahner ci può essere uno sviluppo nella conoscenza teorica del valore morale, che però non comporta un “riconoscimento vitale” del valore, che viene percepito solo astrattamente e quindi in maniera non vincolante. Può esserci la consapevolezza a livello della “conoscenza teorica” senza che il soggetto la riconosca a livello vitale, perché non lo tocca a livello di “coscienza”. Ci può essere informazione, ma non riconoscimento vitale della norma. Ma la coscienza è obbligata solo dalle norme che toccano e comunicano vitalmente. Le norme che rimangono solo teoriche e non mi toccano, non mi obbligano. Ci sono singolari situazioni storiche singolari, esistenziali che impediscono il “riconoscimento vitale” di una norma. Allora tale norma allora non obbliga.

Ouellet, in accordo con Häring e con Rahner sostiene che un’azione oggettivamente cattiva (in se stessa cattiva) può non essere percepita come tale dal soggetto morale a causa delle singolari condizioni esistenziali che vive. Il soggetto dunque può non essere capace di riconoscere e di portare il peso della norma oggettiva.

Veritatis splendor, al n. 56, aveva però considerato questa teoria. Giovanni Paolo II si riferiva a questo quando parlava della teoria del duplice statuto della verità morale, criticandola. Ci sarebbe una dottrina teorica del precetto a livello ideale e una norma della singola coscienza per la vita reale. Ci sarebbe una dicotomia tra il piano oggettivo ideale e il piano della vita reale. Secondo Ouellet, Veritatis splendor non è stata pensata per la vita reale. Il soggetto può essere incapace di riconoscere la norma e il valore.

Secondo David Schindler in Communio[10] la critica che Ouellet e Thomasset e altri fanno alla modernità – all’oggettivismo della modernità e alla morale casistica – non supera i presupposti dell’oggettivismo stesso, ma solo li rovescia, mentre essi mantengono il paradigma della casistica. Rovesciano i termini del paradigma casuistico, ma non ne escono. Il paradigma è quello della contrapposizione sistemica tra oggettivo e soggettivo.

 

b) Paradigma del primato della coscienza a cui si riduce la ragione pratica (Giuseppe Angelini e Maurizio Chiodi)

Esistono ancora due altre interpretazioni del cambiamento di paradigma. Angelini e Chiodi propongono il primato radicale della coscienza. Essi si distinguono dai precedenti autori, perché rifiutano un nesso meramente applicativo fra norma e coscienza. Propongono infatti di ripensare la norma stessa a partire dalla coscienza invece che dalla ragione pratica.

Si tratta di una nuova teoria della coscienza morale. Infatti la coscienza viene identificata con il soggetto stesso nella sua unicità e singolarità, nella sua dimensione patica e pratica, nella sua relazione dialogica e sociale. La coscienza quindi viene ad assorbire in sé la ragione pratica.

Così i due autori sostengono che è impossibile valutare la bontà di un atto al di fuori della storia esistenziale e culturale del soggetto, sotto il profilo personale e culturale. L’oggettività dell’atto viene assunta dalla soggettività. L’oggettività dell’atto non va pensata in rapporto ad una razionalità astratta, ma nel suo legame alla storia personale e alle forme culturali che la interpretano.

Che cosa significa questo? Che, ad esempio non si può dire che un atto sia un atto di adulterio a prescindere dalla storia esistenziale del soggetto che lo compie. Così può darsi che quell’atto che uno sta compiendo e che sul piano oggettivo è un atto sessuale di un uomo sposato con una donna che non è sua moglie e che è sposata, non sia neanche definibile come un’eccezione alla norma contro l’adulterio; più radicalmente non sarebbe neppure adulterio, perché non si può dire che cosa sia adulterio senza conoscere le intenzioni e la storia esistenziale in cui l’atto viene compiuto.

La prassi diventa criterio decisivo. L’enfasi è perciò sul discernimento, a cui viene ricondotta anche la virtù della prudenza. La norma è solo un simbolo, che mi rimanda genericamente al bene, il quale però può essere determinato solo a livello di coscienza. Il discernimento è inteso come una circolarità tra norma e coscienza, come un “adattamento reciproco”, che implica l’interpretazione e la narrazione soggettiva degli eventi e dell’esperienza singolare ed anche l’interpretazione della norma, nel suo riferimento simbolico all’ideale.

Come elemento di critica: si verifica così la riduzione della razionalità pratica alla coscienza soggettiva con la perdita della sua oggettività e universalità. La prudenza non si radica più nella ragione universale e nella legge naturale, ma si riduce alla coscienza.

 

c) Il paradigma del criterio del “bene possibile”. Un nuovo pelagianesimo? (Philippe Bordeyne)[11]

Philippe Bordeyne, il Rettore dell’Istituto Cattolico a Parigi, propone delle prospettive per le famiglie fragili. È evidente il cambiamento di linguaggio. Non c’è più il termine “peccato”, che viene sostituito con quello di “fragilità”, per non giudicare e non discriminare. L’obiettivo della pastorale è “integrare tutte le famiglie”.

Qui è da osservare che, nel suo discorso su Ezechiele 34, Sant’Agostino distingue tra pecore “deboli” e pecore “malate”[12]. Ci vuole un trattamento molto diverso tra le due categorie. Le deboli, che hanno poche forze, hanno bisogno di essere rafforzate. Le malate, che sono infette da passioni disordinate e non sono in grado di compiere nessuna azione buona, hanno bisogno di essere guarite. Il pastore, che è anche medico, deve accuratamente discernere in che condizione sia la pecora ed agire diversamente: le deboli vanno rafforzate, le malate vanno portate a Cristo, rivelando il peccato e ponendolo davanti a Cristo (“scoperchiando il tetto che lo nasconde”). Per Sant’Agostino bisogna dunque parlare di peccato per distinguere pastoralmente la condizione della pecora. Occorre esprimere un giudizio. Cambiare il linguaggio non è la soluzione adatta. Non parlando più del peccato uno non toglie il peccato, ma toglie la possibilità di giudicarlo e di guarirlo. È il contrario dell’azione medicale che dovrebbe fare il pastore: significa nascondere il male, permettergli di svilupparsi senza essere visto e curato.

In secondo luogo anche per Bordeyne le attenuanti della responsabilità soggettiva diventano eccezioni alla norma “ideale”.

Bordeyne propone una visione “disintegrata” della vita morale. Suggerisce che una persona possa vivere una situazione di imperfezione rispetto ad una virtù particolare e nello stesso tempo essere a posto con le altre virtù, e trovarsi in stato di grazia. Uno può cedere su un punto specifico senza togliere nulla dal resto. Può trovarsi in una situazione oggettiva di peccato grave senza perdere lo stato di grazia. Manca la connessione tra la persona e il suo agire (l’azione compiuta determina la identità morale della persona: punto di vista della “prassi”), che, alla fine comporta la connessione tra le virtù. In realtà le virtù non sono settori di un giardino. Tutti gli atti colpiscono la persona al cuore. Anche l’infrazione di un solo comandamento, anche il peccato contro un solo precetto, colpisce al cuore la situazione dell’uomo davanti a Dio. Qui invece viene proposta una disintegrazione della vita morale.

Bordeyne adotta quindi il criterio del “bene possibile”. Amoris laetitia n. 303 attribuisce alla coscienza il ruolo di formulare un “giudizio di possibilità”, a partire dalle capacità concrete del soggetto realisticamente valutate. Ciò che la coscienza ritiene possibile forse non è ancora l’ideale, ma è ciò che al momento rappresenta la cosa migliore che si può fare. «Si può riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti» (n. 303).

Secondo Bordeyne pretendere di “voler andare oltre il bene possibile” sarebbe addirittura una presunzione, una mancanza di umiltà, e dal punto di vista del consigliere spirituale sarebbe una violenza sulla persona fragile e imperfetta, una mancanza di carità. La verità proposta sarebbe una minaccia alla persona. Occorre un’umiltà verso il bene, una disposizione alla crescita nel bene, che viene applicata qui non solo alle norme positive, ma anche alle norme morali negative. Non viene fatta da Bordeyne la distinzione tra norme morali positive e negative.

Entra qui il tema della gradualità nella crescita verso il bene. Il problema è che questo che vale per la progressiva maturazione nel bene da fare (e dunque che vale per le norme “positive”) viene applicato anche alle norme negative, che proibiscono il peccato, che però ora è detto “imperfezione”. Un adulterio sarebbe dunque ciò che Dio stesso mi chiede dal momento che la mia coscienza ritiene per me ora impossibile evitarlo del tutto. Anzi, secondo Bordeyne, sarebbe presunzione orgogliosa pretendere di evitarlo del tutto.

Si tratta in fondo del neo-pelagianesimo del minimo. Se il pelagianesimo originale pensava che con le proprie forze umane e senza l’aiuto della grazia sanante si potevano adempire i comandamenti di Dio, il neo-pelagianesimo adatta il comandamento alle proprie forze, per poterlo adempiere nella misura del possibile. In ambedue i casi la misura del bene sono le mie presunte capacità. Si misura il bene sulla base delle proprie possibilità.

Si perde così la visione relazionale della persona che nella relazione con Dio e con gli altri (comunità) trova le sue vere possibilità. Il Concilio di Trento dichiarava che Dio non ti comanda più di quello che tu puoi, perché ti darà anche la grazia se tu lo chiedi. Mentre qui la misura dell’uomo non è più la misura di Dio ma quello che ritengo possibile per me, da solo. Ce la faccio da solo. Sono io la misura del bene. È qui l’essenza del pelagianesimo, sia quello antico, sia quello contemporaneo.

 

II. Pars construens: approccio positivo

3. Quale paradigma è adeguato alle sfide?

Occorre accettare la sfida pastorale che ci invita ad assumere papa Francesco in Amoris laetitia. Occorre cioè considerare il “realismo” della vita morale, facendoci carico della debolezza della persona, distinguendo comunque la fragilità dal peccato.

Si tratta di prendere sul serio il dovere pastorale di rivolgerci con una proposta adeguata alle persone che si trovano in condizioni di peccato o di debolezza.

È quindi accettabile l’idea che bisogna elaborare un nuovo paradigma, ma questo nuovo paradigma, secondo le parole di San John Henry Newman deve mantenere pienamente la continuità della dottrina, sia con la “preservation of the type – la permanenza del tipo” (prima nota), sia la “continuity of principles – la continuità dei principi” (seconda nota), verificandosi adeguato con la capacità di assumere la ricchezza della Tradizione.

Per tale compito occorre superare il dualismo che caratterizza le proposte, che abbiamo sottoposto a vaglio critico. I paradigmi finora esaminati, più o meno radicali, condividevano una medesima prospettiva, che in fondo è quella insufficiente della “morale moderna”, come fu denunciato da Alasdair MacIntyre in After Virtue[13]: una prospettiva estrinseca al dinamismo dell’agire, che si pone dal punto di vista dell’osservatore esterno all’azione (giudice o confessore), per giudicare l’azione. Questo approccio alla morale inevitabilmente va a infrangersi sulla contrapposizione dialettica tra oggettivo e soggettivo. È la prospettiva adottata dalla casuistica, dovuta alla sua origine minimalistica e legalistica. La critica dei moralisti progressisti non trasforma la etica moderna sanandone i limiti (legge oggettiva contro coscienza soggettiva), ma piuttosto la ripete, invertendone dialetticamente i termini (coscienza soggettiva contro legge oggettiva).

Autori come Servais Pinckaers, Les sources de la morale chrétienne (1985), o Carlo Caffarra, Viventi in Cristo (1981) ci invitano a superare questo dualismo che vede la legge come un peso estrinseco e la libertà come un vuoto, un’indifferenza. Ascoltiamo le loro voci.

Servais Pinckaers: «È troppo facile dichiarare che oggi l’era dei manuali è chiusa e assumere ormai la posizione opposta di quello che insegnavano pronunciandosi sistematicamente in favore della libertà e della coscienza rispetto alla legge e all’autorità. Facendo questo non si esce affatto dall’orbita delle categorie specifiche della morale che si critica, cioè dall’opposizione tra legge e libertà, non si fa altro che contribuire a dissolvere la morale, a minarne le basi che potrebbero assicurarne la fermezza e la stabilità» (Les sources, 281).

Carlo Caffarra: «L’essenza delle proposizioni normative della morale e del diritto si trova nella verità del bene, che in esse è oggettivata. Se non ci si mette in questa prospettiva si cade nella casuistica dei farisei. E non se ne esce più, perché ci si infila in un vicolo cieco alla fine del quale si è costretti a scegliere tra la norma morale e la persona. Se si salva l’una non si salva l’altra: La domanda del pastore è dunque la seguente: come posso guidare i coniugi a vivere il loro amore coniugale nella verità? Il problema non è di verificare se i coniugi si trovano in una situazione che li esime dall’osservanza di una norma, ma qual è il bene del rapporto coniugale» (Intervista a Il Foglio del 15 marzo 2014).

In questi modi di impostare la problematica morale, la legge è vista come un peso estrinseco che ingombra la libertà; mentre la libertà è intesa come un vuoto privo di orientamento (“libertà di indifferenza”, come dice Pinckaers).

Il vero cambio di paradigma accade quando si vede tutto dalla prospettiva della persona che agisce. Occorre assumere la prospettiva di Veritatis splendor n. 78, cioè della persona che agisce. Solo così si può superare il razionalismo e il volontarismo: una razionalità fuori dal dinamismo dell’azione, una legge intesa come prodotto dell’arbitrio. La concezione razionalista dell’oggetto, lo vede estraneo all’intenzionalità del soggetto, mentre il volontarismo intende il soggetto come creatività autonoma.

La prospettiva della prima persona è invece questa: ogni azione libera porta in sé la memoria di un amore che la precede e che è radicato in Dio. Questa prospettiva ci permetterà di superare il dualismo tra oggettivo e soggettivo. La prospettiva del soggetto agente pensa la libertà non come vuota e indifferente, ma come libertà, che venendo da una creatura, è preceduta da un amore e orientata dall’amore verso il bene.

In seguito propongo tre formule che ci permetteranno di andare in questa direzione:

a) la verità dell’amore

b) la formazione del soggetto

c) una dimora per il soggetto

 

a) La verità dell’amore

Ci imbattiamo qui in una categoria decisiva per la visione morale, ispirata da Karol Wojtyła, che ne illustra la concezione in Amore e responsabilità (ed. italiana: 82-85; 97-101). Così si cerca di superare il soggettivismo di un “amore senza verità”, di un amore ridotto all’autenticità del sentire, cioè alla verità soggettiva del sentimento. Wojtyła cerca anche di superare l’oggettivismo di una “verità senza amore”, un intellettualismo che impone dall’esterno regole alla libertà. Wojtyła non parla né di un oggettivismo, né di un relativismo, ma invece della ragionevolezza dell’amore che porta in sé i criteri della sua verità. C’è una razionalità dell’amore che va oltre il razionalismo e l’oggettivismo, senza cadere nel volontarismo e nel relativismo.

La prospettiva del soggetto agente è la prospettiva dell’amore, che è fonte di ogni azione. Chi agisce, agisce sempre in quanto mosso da un qualche amore, dice San Tommaso[14]. E qui il riferimento necessario all’interno di ogni amore è al bene autentico. L’amore vuole il bene dell’altro: questa è la definizione che ne dà San Tommaso: “in hoc praecipue consistit amor, quod amans amato bonum velit – L’amore consiste specialmente nel fatto che chi ama vuole del bene all’amato»”[15]. L’amore è una passione che nasce dall’unione affettiva, nella quale l’amato si rende interiore all’amante mediante l’affetto (sicut amatum in amante) ed è spinto a cercare la comunione reale. L’amore come azione implica la ricerca della comunione con l’altro, che può realizzarsi solo se il bene particolare che si cerca nell’azione è vero.

La verità sul bene è la condizione della verità dell’amore. L’amore infatti implica esigenze oggettive: vuole il bene dell’altro e sa che la comunione autentica si realizza solo nel compimento del bene, nella trascendenza rispetto al desiderio, agli impulsi immediati e nella sottomissione della volontà alla verità: questa è la libertà autentica, perché judicium rationis, radix libertatis – il giudizio della ragione e la radice della libertà. La libera sottomissione ad una verità sul bene, che precede e orienta la libertà, è condizione necessaria dell’amore.

Proprio qui si innesta il riferimento alla nozione di natura e si coglie l’importanza del discorso sulla legge naturale. La legge naturale va intesa come l’ordine dell’amore (ordo amoris), che il Creatore ha stabilito e stabilisce negli atti umani, affinché raggiungano il loro fine (ordo creationis). È un ordine che è stabilito dalla ragione: è l’ordine che la ragione fa negli atti umani, orientandoli al loro fine (ordo rationis).

Dal punto di vista teologico, Cristo è il fondamento di quest’ordine e il suo compimento (Col 1: in Lui, verso di Lui). È Cristo che con la legge nuova dell’amore offre l’ermeneutica definitiva della legge naturale, che aveva avuto una prima interpretazione nella legge del Decalogo.

Sant’Ireneo nell’Adversus haereses[16], dice che quella legge che gli uomini portavano già scritta nelle tavole del loro cuore (legge naturale), ma che non potevano più leggere, perché il peccato l’aveva oscurata, ora la potevano leggere scritta dal dito di Dio sulle tavole di pietra che Mosè recava al popolo di Israele scendendo dal Sinai (legge divina antica).

Ora col suo dito Gesù la scrive sul terreno tenero del cuore: una legge che non cancella nulla, ma porta a compimento, interiorizzando e radicalizzando le esigenze dei comandamenti, ma anche rendendone possibile l’osservanza mediante il dono della grazia. La grazia permette di partecipare alle virtù di Cristo, a partire dalla carità, una forma di amicizia con Dio, che è “madre e forma di tutte le virtù”. Così la legge si compie nelle virtù: la legge nuova di Cristo non ha la forma dell’imposizione esterna di nuovi comandamenti, ma quella interiore dell’amore, che adempie i comandamenti per slancio interiore libero. Ecco la libertà nuova della legge di Cristo: non libertà dai comandamenti, ma libertà di chi per amore è capace di osservarli nella loro intima essenza di espressioni della verità sul bene, che permettono la verità dell’amore. Così si capisce che il fine della legge è Cristo (Rm 10, 4) e che pieno compimento della legge è l’amore (Rm 13, 10) e che la forma compiuta della morale cristiana fa perno sull’amore e sulle virtù[17].

La verità dell’amore è il luogo per le virtù, che generano l’unione interiore di soggetto e oggetto, nel dinamismo che nasce dall’amore. “Virtus dependet aliqualiter ab amore – la virtù dipende in qualche modo dall’amore”[18]. L’ordine dell’amore si riverbera nel soggetto come ordine delle virtù, sgorgate dall’amore e generate dalla carità, amore che fa unità interiore di soggetto e oggetto.

E qui si colloca anche la funzione specifica della virtù della prudenza, che illumina, guida e porta a compimento le scelte della ragione pratica. La prudenza opera nella luce dell’amore: è amore che discerne ed è utile all’amore, come dice Sant’Agostino[19]. Essa nella luce dell’amore coglie il bene concreto da fare nella circostanza specifica, ma non può mai andare contro il bene. Non è la facoltà di trovare eccezioni alla norma. L’ordine dell’amore è l’ordine della virtù. La virtù è l’armonia del soggetto con il bene vero e non solo autenticità soggettiva, coerenza con se stessi.

Il riferimento a Dio Creatore è necessario per garantire la verità dell’amore. L’agire morale è sempre una sinergia dell’agire umano con l’azione del Creatore e del Redentore. Ha una radice ultima a livello teologico e cristologico.

L’azione morale del cristiano è una sinergia, che inizia sempre da un primo impulso del Creatore e che è consenso alla grazia, che dall’interno muove. Ha la forma mariana del consenso, del fiat, in cui la libertà aderisce all’impulso della grazia.

Il carattere esteriore della legge viene avvertito dopo la Caduta, inevitabilmente: nella condizione post-lapsaria. La legge è anche un peso perché sono anche peccatore, redento, ma con ancora i segni e le conseguenze della concupiscenza, all’interno di un percorso di faticosa guarigione. La legge è anche un “no”, ha anche l’aspetto esteriore, che deve maturare gradualmente verso l’interiorizzazione della virtù. Essa ha anche un aspetto di luce: le virtù sono “arma lucis – le armi della luce” che illuminano la ragione (connaturalità virtuosa) e mostrano la corrispondenza col vero bene, che il desiderio stesso cerca. Man mano che si formano le virtù, nella stessa misura il peso dell’esteriorità della legge diminuisce e cresce la libertà nel compiere il bene. Occorre quindi non trascurare la legge che ammonisce e proibisce. Così si fa maturare il soggetto.

In Guardare Cristo, Joseph Ratzinger dice: «Solo nella comprensione del nesso tra virtù e amore è possibile comprendere la Croce nella sua profondità teologica e quindi il significato autentico del perdono. Il perdono ha a che fare con la verità e perciò esige la croce del Figlio ed esige la nostra conversione. Perdono è appunto la restaurazione della verità, rinnovamento dell’essere e superamento della menzogna nascosta in ogni peccato. Il peccato è sempre – per sua essenza – un abbandono della verità del proprio essere e quindi della verità voluta dal Creatore, da Dio»[20]. Verità dell’amore vuol dire che la Croce è il realismo di Dio.

 

b) La formazione del soggetto

La prospettiva pastorale è importante: è il richiamo specifico che ci fa papa Francesco in Amoris laetitia. Non si tratta semplicemente di accontentarsi di ripetere la legge e le norme morali. Neppure si tratta di estenuare le leggi con la casistica delle eccezioni (diceva Blaise Pascal: “ecce patres qui tollunt peccata mundi – ecco i padri che tolgono i peccati del mondo”). Non si tratta di sostituirsi alle persone nel discernimento. Neppure si tratta di legittimare ogni scelta: non è vera misericordia quella che scusa il peccato e non guarisce il peccatore.

Occorre una formazione del soggetto, che renda conto dell’originalità della razionalità pratica. Non si tratta solo di insegnare, ma di aiutare la formazione delle virtù. Libertà e verità vanno insieme, in un nesso biunivoco. Senza verità non si è liberi; ma si può accedere alla verità solo liberamente.

Come nasce il soggetto cristiano? Come si genera o meglio, si rigenera il soggetto cristiano? Nascere di nuovo: è la domanda di Nicodemo (Gv 3). Come può un uomo nascere quando è già grande? Non è solo la formazione della coscienza (nella dimensione conoscitiva), come veniva impostato nella morale scolastica o neo-scolastica moderna: era inteso come abilitazione al giudizio razionale corretto. È invece una crescita nelle virtù, in particolare nella prudenza, come virtù che perfeziona la ragione pratica, la quale non mira solo al giudizio, ma anche e soprattutto alla capacità di scegliere e di agire.

La prudenza è la capacità di illuminare e favorire le scelte e il compimento delle azioni, che si radica nelle disposizioni virtuose, nelle disposizioni affettive ben ordinate secondo ragione. E infatti senza virtù morali non può esserci prudenza: ci sarà solo furbizia. Allo stesso modo, senza prudenza non si avranno vere virtù morali, ma solo abitudini meccaniche. La virtù è habitus electivus: disposizione a scegliere il bene conveniente, che predispone non l’oggetto della scelta (id quod eligitur), ma il modo eccellente di sceglierlo (id cuis gratia eligitur). È una virtù e non un’abitudine: rende più liberi e non meno liberi: ha di mira la scelta e non toglie la necessità di scegliere.

La risposta alla questione pastorale posta da Amoris laetitia non è l’adattamento della legge alle presunte capacità del soggetto, ma piuttosto la rigenerazione del soggetto. La (ri-)generazione del soggetto morale ha a che fare con i tempi della vita, con l’agire, con la cultura. Ha un carattere drammatico. Giuseppe Angelini, nel suo recente volume[21] (2019) tratta della coscienza. Vi sono limiti molto gravi: manca un riferimento alla legge naturale come memoria del bene, nella creazione. Però c’è qualcosa da imparare in quello che dice, in particolare sulla coscienza come “parola” e sulle età della vita. Vorrei presentare questi elementi, così come li ho colti e interpretati io.

 

i) La coscienza come parola

Bisogna passare dalla coscienza come una voce (rumore di fondo, un “brusìo” indistinto, che in me crea fastidio e disagio, che inquieta, ma non istruisce, che disturba senza dirmi qualcosa di preciso) alla coscienza intesa come parola, che, sì, mi dice qualcosa e che, come parola, ha carattere drammatico. Angelini critica l’idea agostiniana della coscienza come interiorità, in cui Dio dà testimonianza di sé al singolo, perché avrebbe portato ad una concezione puramente intimistica e privata, estraniante della coscienza rispetto all’agire. Questa idea agostiniana sarebbe poi sfociata nell’idea autonomistica moderna.

Va invece riconosciuto che c’è un aspetto drammatico dell’agire, nel quale la coscienza come voce indistinta si trasforma in coscienza come parola. È nel rischio pratico che la coscienza si istruisce. Mi fa capire che chi fa la verità viene alla luce. L’agire istruisce.

Qui si sente l’influsso di Blondel: il problema di Angelini, come anche di Blondel, è che non riconosce qualcosa di precedente al desiderio, non riconosce che “amor praecedit desiderium – l’amore precede il desiderio”. Nell’agire qualcosa precede la mia coscienza come un dono: questa è l’istruzione fondamentale della coscienza che la fa parlare: la luce dei principi della legge naturale.

 

ii) Le età della vita

Angelini riprende la originale analisi di Romano Guardini sulle età della vita umana, ma la applica alla questione della coscienza morale. Infanzia, adolescenza, giovinezza, maturità, vecchiaia… Ognuna di queste fasi della vita ha le sue caratteristiche. È sempre drammatico il passaggio da un’età all’altra.

La ricostruzione di Angelini evidenzia la struttura drammatica dell’identità morale: la si raggiunge mediante l’agire libero che sceglie nella storia e nel contesto dei rapporti. Drammatico viene dal greco drama, che significa “azione”: l’agire è cioè la forma mediante cui il soggetto cerca e scopre se stesso. E il “patire” precede l’“agire”: ogni azione nasce da una passione.

Angelini prende quindi in considerazione le età della vita, in rapporto con il sorgere e il maturare della coscienza morale, ma associa queste età anche alle fasi della storia della salvezza nella Sacra Scrittura.

Nell’infanzia tutto mi viene dato: basta aprire la bocca e qualcuna lo riempie. Qui la coscienza morale ha l’aspetto della presenza del genitore – la legge non è esteriore: è rapporto con una persona. La coscienza del bambino prima di essere giudizio è rapporto: “che cosa piace a mamma e a papa?” La memoria dei benefici ricevuti raccomanda l’obbedienza. Come per il popolo di Israele che cammina nel deserto, la legge non è norma arbitraria, ma istruzione, che invita ad imitare Dio: è iscritta nell’origine del cammino ed è sostenuta da una promessa.

L’adolescenza implica un nascere di nuovo, disponendo di sé, decidendo, scegliendo e non evitando di scegliere. Oggi viviamo in una società senza padri. Le persone vivono in un’adolescenza prolungata e interminabile. Ciò che manca oggi è l’età adulta, la figura dell’adulto.

L’identità originaria del soggetto morale è filiale. All’inizio la coscienza è senza parole: ha la forma di un affetto, di un modo di sentire. I rapporti familiari sono il luogo di formazione. I rapporti familiari sono il contesto all’interno del quale si passa da un’età della vita all’altra. La nascita del soggetto è il passaggio dall’affetto alla parola, al regime della promessa e della legge.

Esodo 19, 4-6: «Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquila e vi ho fatto venire fino a me. Ora, se darete ascolto alla mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa». Ecco il passaggio dal regime dei benefici gratuiti al regime della legge, del cammino, della scelta.

 

c) La dimora del soggetto

Per la formazione del soggetto morale è importante mettere a fuoco il nesso tra la genesi del soggetto e la cultura ambiente in cui egli nasce, cresce e agisce. La coscienza dipende molto dalle forme del vivere comune oggi condivise socialmente.

Nelle forme del vivere comune occorre un ethos condiviso. La legge trova qui le sue motivazioni. Su questo punto insiste molto Alasdair MacIntyre e con lui la corrente dei “comunitaristi” (St. Hauerwas, V. Guroian). Sono qui le ragioni adeguate per le pratiche virtuose. Le pratiche sono forme di condotta socialmente condivise all’interno di una comunità e di una cultura. È attraverso le pratiche che si plasmano le convinzioni etiche e le virtù.

Il soggetto morale ha bisogno di una dimora. Occorre dimorare in una comunità per generare il soggetto: ciò avviene nelle famiglie, ma anche nella Chiesa, che è “famiglia delle famiglie”. Essa è luogo di relazioni e di formazione dell’“ethos”. L’“ethos” indica un insieme organico di valori condivisi e vissuti, che precede l’“etica”, la quale invece è la riflessione sistematica e critica su questo ethos. L’etica esercita una funzione critica sul costume abituale di una comunità, svelandone le incoerenze, mostrandone le lacune, portandolo ad una apertura universale.

I sacramenti seguono le età della vita. Essi sono i gesti in cui lo Spirito tocca la carne umana delle relazioni in momenti decisivi della vita (nascita, crescita, scelta dello stato di vita, malattia). I sacramenti ispirano e generano a loro volta delle usanze comunitarie festive o quotidiane, che si diversificano nelle varie culture.

Questo cammino che va dal culto alla cultura, dai sacramenti alla vita quotidiana, mediante il quale la fede impregna i costumi di una comunità, è decisivo. Perché si formi il soggetto cristiano è necessario che ci siano famiglie, che ci siano comunità, e che queste siano capaci di generare la cultura. Il cristianesimo non deve adattarsi alla società, ma piuttosto agire come un lievito per trasformarla dall’interno, creando così una nuova società.

Non basta il kerygma, l’entusiasmo per la novità del primo annuncio, occorre anche preoccuparsi della cultura e della didaché[22], che è la catechesi, la quale implica l’incontro dell’annuncio con la cultura e le forme di vita. San Paolo VI nella Evangelii nuntiandi del 1976 ha mostrato la necessità di questa fecondità culturale della fede, per una compiuta evangelizzazione. Le pratiche virtuose si compiono in una cultura. La verità dell’amore brilla in un luogo dove questa verità dimora.

Vorrei menzionare due esempi e due opere importanti per mostrare questo fenomeno di fecondità culturale del cristianesimo. Il primo è del grande patrologo francese, Gustave Bardy: La conversione al cristianesimo nei primi secoli[23], che mostra l’impatto sociale della conversione cristiana nel mondo pagano.

Il secondo è più recente, dello storico inglese dell’Università di Oxford David L. D’Avray ed è dedicato all’introduzione dell’indissolubilità del matrimonio nel mondo tardo antico e medioevale[24]. La dottrina cristiana si sviluppa nel contatto con la società, senza rinnegare nulla di ciò che fu rivelato, ne mostra piuttosto la perenne fecondità, evidenziandone aspetti nuovi e inediti nell’incontro col mondo. Essa diventa così matrice di storia nuova, come è dimostrato proprio dalla vicenda dell’introduzione dell’indissolubilità nel costume pubblico e nella legislazione della società tardo antica, in cui invece il divorzio era praticato.

 

Conclusione

Si può dire che anche quello che si è proposto, sotto la formula della “rigenerazione del soggetto cristiano”, è in un certo senso un cambiamento di paradigma rispetto ai paradigmi del discernimento caso per caso, dell’autonomia morale della coscienza e della morale razionalista e deduttiva dell’applicazione deduttiva della norma.

È tuttavia un paradigma che si raccomanda perché non rompe con la tradizione della teologia morale, perché non cancella la dottrina del Magistero di Veritatis splendor e non rifiuta la sollecitudine pastorale di Amoris laetitia. Interpreta quest’ultima in continuità con l’enciclica di San Giovanni Paolo II e in particolare con l’istanza del n. 78, di collocarsi nella prospettiva del soggetto agente.

Che cosa libera dall’ideologia? La capacità di amare, nel senso di poter stabilire un rapporto con l’altra persona. Questo implica ricondurre la legge al bene dell’altra persona. Quella proposta è una via che coglie la verità nella luce dell’amore e quindi nella grande visione del personalismo cristiano: di un personalismo radicato nell’ontologia del bene, che ha le sue radici nell’atto del Creatore e il suo compimento nella Redenzione di Cristo.

 

  1. W. Kasper, “Amoris laetitia: Bruch oder Aufbruch. Eine Nachlese”, in Stimmen der Zeit 11 (2016), 723-732. Nello stesso senso si muove anche il più articolato intervento di E. Schockenhoff, “Traditionsbruch oder notwendige Weiterbildung? Zwei Lesearten des Nachsynodalen Schreibens Amoris laetitia” in Stimmen der Zeit 3 (2017), 147-158.

  2. E. Schockenhoff, “Traditionsbruch oder notwendige Weiterbildung? Zwei Lesearten des Nachsynodalen Schreibens Amoris laetitia” in Stimmen der Zeit 3 (2017), 147-158.

  3. Cfr. T.S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolution, The University of Chicago, Chicago 1970, in particolare il Postscriptum 1969.

  4. Si veda su questo la critica elaborata da S. Fontana, Esortazione o rivoluzione? Tutti i problemi di Amoris laetitia, Fede e cultura, Verona 2019.

  5. Cfr. J.H. Newman, An Essay on Development of Christian Doctrine, Notre Dame University Press, Notre Dame 1989.

  6. Lo documenta D. D’Avray, Medieval Marriage: Symbolism and Society, Oxford University Press 2005, 206-207.

  7. Si tratta di affermazioni rispettivamente del Preposito Generale della Compagnia di Gesù, P. Arturo Sosa Abascal, intervista di G. Rusconi sul sito www.rossoporpora.org, ripresa in versione rivista dall’Autore ne “Il giornale di Lugano” del 18 febbraio 2017; e del gesuita americano P. Thomas Reese, “What God has joined”, in National Catholic Reporter, 6 aprile 2017.

  8. J.M. Garrigues – A. Thomasset, Une morale souple mais non sans boussole, Cerf, Paris 2017.

  9. Cfr. C. Caffarra, Intervista a Il Foglio del 15 marzo 2014.

  10. D.L. Schindler, “Conscience and the relation between truth and pastoral practice: moral theology and the problem of modernity”, in Communio (USA) 46 (2019), 333-385.

  11. Ph. Bordeyne, Divorcés remariès: ce qui change avec François, Y. Briend – Salvator, Paris 2017; in italiano: Portare la legge a compimento. Amoris Laetitia sulle situazioni matrimoniali fragile, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2018.

  12. Sant’Agostino, Discorso XLVI, 13.

  13. A. MacIntyre, After Virtue. A Study in Moral Theory, University of Notre Dame Press, Notre Dame, Ind. 1981. Al riguardo si veda anche: G. Abbà, Felicità, vita buona e virtù. Saggio di filosofia morale, LAS, Roma 1989, 97-104.

  14. Summa Theologiae, I-II, q. 26, a. 2.

  15. Summa contra Gentiles, III, 90, 5 (Marietti, n. 2657).

  16. Sant’Ireneo di Lione, Adversus haereses, III, 27, 2-3.

  17. Al riguardo, si veda la bella sintesi di Veritatis splendor, n. 24.

  18. Summa Theologiae, I-II, q. 56, a. 3, ad 1.

  19. Sant’Agostino, De moribus Ecclesiae catholicae, I, XV, 25.

  20. J. Ratzinger, Guardare Cristo. Esercizi di fede, speranza e carità, Jaca Book, Milano 1986, 76.

  21. G. Angelini, La coscienza morale. Dalla voce alla parola, Glossa, Milano 2019.

  22. Cf. J.H. McDonald, Kerygma and Didaché. The Articulation and Structure of the Earliest Christian Message, Cambridge University Press, Cambridge 1980.

  23. G. Bardy, La conversion au christianisme durant les premiers siècles, Aubier, Paris 1949.

  24. D.L. D’Avray, Medieval Marriage: Symbolism and Society, Oxford University Press 2005, in particolare 206-207.

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Livio Melina

Livio Melina è Teologo Moralista. Già Ordinario di Teologia morale (dal 1996 al 2019) presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia a Roma, di cui fu Preside dal 2006 al 2016. Vi ha fondato e diretto l’Area Internazionale di Ricerca in Teologia morale. Membro ordinario della Pontificia Accademia di Teologia, è stato Direttore scientifico della rivista "Anthropotes" e visiting Professor a Washington DC e a Melbourne. Ha tenuto e tiene corsi e conferenze in varie Università internazionali.

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