Eutanasia: la rottura di un patto vitale

José Granados

Alla base della società c’è una alleanza nella quale ci diciamo mutuamente:

“Io difenderò e confermerò la tua vita, accada quel che accada, e conto che tu faccia lo stesso con la mia. Ti difenderò, anche nei tuoi momenti più oscuri, quando la promessa di vita sembra cedere di fronte alla tristezza che la assale.”

Si è approvato di recente un progetto di legge che permetterà l’eutanasia in Spagna. Per comprendere quello che è in gioco è importante inquadrare la domanda alla quale risponde la legge. Questa domanda non è: “ho diritto a togliermi la vita quando la considero insopportabile?”. Una tale domanda, infatti, suppone che l’individuo si trovi solo di fronte alla morte. Al contrario la legge dell’eutanasia mette in gioco la società intera: medici, famiglia, concittadini, che si trovano di fronte quest’uomo che vuole concludere i suoi giorni. Per questo motivo, la domanda più giusta è la seguente: “Che fare quando qualcuno ci guarda negli occhi e ci dice: la vita mi si è fatta insopportabile, mi aiuti a farla finita?”

Due sono le risposte a quest’ultima domanda.

La prima è stata comune, fino a poco tempo fa, nella cultura occidentale. Consiste nel rispondere:

“Immagino quanto tu debba soffrire per volerla far finita con la tua vita e mi fa male che tu non veda il senso di continuare a vivere. Però, per me, non posso non testimoniare precisamente il contrario: cioè che la tua vita non è inutile, che la tua presenza e un bene per me e per la società. Per questo non posso aiutarti nel tuo proposito, ma la mia responsabilità è piuttosto impedirlo. E una domanda mi spinge ad agire: come posso lenire il tuo dolore, come posso aiutarti, affinché con la mia cura tu percepisca un amore che fa preziosi i tuoi giorni?”

Chi risponde così suppone che il valore della vita umana non si basa solo sopra il giudizio che ognuno fa della sua vita, ma sopra le relazioni che ci legano l’uno all’altro, grazie alle quali la vita riceve un senso, fin da quando fu accolta nelle braccia materne. E suppone anche che solo affrontando la vita insieme si può dire: “si, vale la pena vivere, anche quando le difficoltà ci sembrano troppo grandi”.

Per contro alla prima risposta, se ne offre oggi un’altra, alternativa, difesa dalla nuova legge sull’eutanasia.

La seconda risposta propone che, a seconda del caso, si possa rispondere, a chi ci chiede di aiutarlo a farla finita con la sua vita, in questo modo:

“Si, hai ragione, vedo come stai e confermo il tuo giudizio: non vale la pena che continui a vivere. La cosa migliore è aiutarti a porre fine ai tuoi giorni, stare così non fa bene a te e nemmeno alla società. E una domanda mi spinge ad agire: come posso aiutarti a farla finita con la tua vita, in modo che questo accompagnamento alla morte costi (a te e alla società) il meno possibile?”

E’ proprio questa seconda risposta a negare che la vita umana abbia sempre valore.

La conseguenza ineludibile è che, in questo modo, ci sono vite che valgono più di altre. Esistono circostanze, infatti, nelle quali, secondo la nuova legge, non è possibile collaborare con chi vuole togliersi la vita (per esempio, nel caso di una giovane con la depressione), e si tratterà di convincerla del fatto che vale la pena vivere. Però in altre circostanze (una infermità cronica che immobilizza, ad esempio) si deve dare ragione al sofferente e aiutarlo nel suo proposito. C’è, così, una vita più degna di un’altra.

Questo smaschera l’eufemismo di chiamare l’eutanasia una “morte dignitosa”, essendo in realtà il tipo di morte in cui la società considera “vita indegna” quella di colui a cui è concessa l’eutanasia. Ma, al contrario, è degna solo la morte di chi, morendo, consegna qualcosa di prezioso.

Queste due risposte implicano due modi distinti di comprendere la vita comune. La prima suppone che alla base della società c’è una alleanza nella quale ci diciamo mutuamente:

“Io difenderò e confermerò la tua vita, accada quel che accada, e conto che tu faccia lo stesso con la mia. Ti difenderò, anche nei tuoi momenti più oscuri, quando la promessa di vita sembra cedere di fronte alla tristezza che la assale. E se qualche giorno ti chiedo di eliminarmi, ascoltami bene: Quello che starò chiedendo è che tu mi convinca, con la tua presenza e la tua attenzione, che la mia vita continui valendone la pena. Perché il centro e nucleo della vita non è l’autoaffermazione, ma al contrario l’affermazione reciproca dell’amore”

La legge sull’eutanasia, una volta approvata, romperà questo patto sociale, con cui ciascuno affermava il senso della vita dell’altro e la sua bontà. Al guardare negli occhi il vicino con il quale incrociamo i nostri occhi per la strada non ci diremo più:

“Ecco qualcuno che affermerà la mia vita come un bene, qualunque cosa accada”,

ma piuttosto:

“Ecco qualcuno che, in determinate circostanze, potrà confermare che la mia vita non è degna e non è bene continuarla, e contribuirà a porvi fine “.

C’è in questo pensiero una ferita radicale alla speranza che ci tiene uniti. La legge sull’eutanasia è una bandiera bianca alzata dalla società per accettare la resa della vita umana davanti ai pericoli, interni ed esterni, che pretendono di negare la sua bontà.

Inoltre vengono traditi tutti coloro che, nelle situazioni in cui la legge consente l’eutanasia, vogliono continuare a vivere. Quando capiranno, infatti, lo sforzo e il sacrificio che le loro cure richiedono, non potranno più dire: “Tu abbi cura di me per il patto che ci sostiene”, né ascolteranno il medico o il figlio dire: ” Mi prendo cura di te per il patto che ci sostiene “.

Quello che diranno è, invece: “ti prendi cura di me solo per il fatto che non ti ho chiesto di aiutarmi a morire”. Come non dedurranno, quindi, che sono loro colpevoli, e come non si sentiranno in dovere di chiedere l’eutanasia? La legge non solo apre nuove possibilità a chi vuole interrompere la propria vita (ma la scelta della morte è la fine di ogni possibilità), impone anche un fardello crudele a chi vuole vivere nonostante tutto: quello del sentirsi colpevole per non aver chiesto la sua propria morte.

La prima risposta che abbiamo dato[1], in apertura dell’articolo, è l’unica che afferma la dignità della persona umana, in quanto capace di farsi responsabile, non solo della propria vita, ma anche della vita comune. Accettare che esiste un fondamento ultimo per questa dignità reciproca è accettare la fede nel Creatore. Perché il Creatore è colui che afferma, nell’amore, il valore originale e radicale di ogni vita, non importa come vadano le cose. Ed è Lui che ha affidato ad ogni uomo l’accoglienza e la cura del cammino dei suoi fratelli, affinché la speranza non si spenga mai.

L’approvazione dell’eutanasia in Spagna è coincisa con il tempo di Natale, quando Cristo è venuto a rivelare pienamente il Creatore. Il Figlio di Dio si è fatto uomo per affermare la grandezza della vita umana, tanto che Dio stesso ha voluto viverla. Vale la pena, così, vivere la vita in tutti i suoi momenti, dal concepimento fino alla morte, inclusa la morte di croce. La civiltà che ha scommesso sulla vita prima che sulla morte poggia in ultima analisi sulla fede cristiana. La perdita di sensibilità sociale che ci impedisce di vedere l’orrore dell’eutanasia è legata alla perdita del senso del Dio Creatore, rivelato da Gesù Cristo. Cosicché quest’anno sarà difficile celebrare il Natale, e non per la pandemia. Perché il vero tentativo di eliminare il Natale viene da questa legge sull’eutanasia, che si oppone al cuore del Natale. Ma, allo stesso tempo, celebrare il Natale ripristina la speranza che queste leggi ingiuste non prevarranno. Il Bambino continua a nascere, nonostante tutto, ed è venuto per vincere il male, per ristabilire l’alleanza tra gli uomini. La Sua difesa della preziosità infinita di ogni vita umana, per la quale ha versato il suo sangue, sarà l’ultima parola in ogni vero progresso nella storia.

Traduzione italiana dell’articolo di Patrizia Guardarelli



[1] “Immagino quanto tu debba soffrire per volerla far finita con la tua vita e mi fa male non vedere il senso di continuare a vivere. Però, per me, non posso non testimoniare precisamente il contrario: cioè che la tua vita non è inutile, che la tua presenza e un bene per me e per la società. Per questo non posso aiutarti nel tuo proposito, ma la mia responsabilità è piuttosto impedirlo. E una domanda mi spinge ad agire: come posso lenire il tuo dolore, come posso aiutarti, affinché con la mia cura tu  percepisca un amore che fa preziosi i tuoi giorni?”

 





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José Granados

José Granados è Teologo Dogmatico e cofondatore del Veritas Amoris Project. Tra il 2010 e il 2020 ha insegnato come ordinario di Teologia dogmatica del matrimonio e della famiglia al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia a Roma, di cui fu Vicepreside. Tra il 2004 e il 2009 è stato professore di teologia alla sezione di Washington, DC dello stesso Istituto Giovanni Paolo II. È autore di numerose pubblicazioni, tra cui "Una sola carne in un solo spirito. Teologia del matrimonio", Cantagalli 2014 e "Teologia dei sacramenti: Segni di Cristo nella carne", Cantagalli 2023.

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