La Beata Vergine Maria e la vita filosofica

Livio Melina

Relazione al Dies academicus, Pontificia Università S. Tommaso d’Aquino, Roma, 17 novembre 2023.

Nell’ultimo canto della Divina Commedia, lo sguardo di Maria, prima rivolto a Dante, si fissa su Dio:

Li occhi da Dio diletti e venerati, fissi ne l’orator, ne dimostraro quanto i devoti prieghi le son grati; indi a l’etterno lume s’addrizzaro, nel qual non si dee creder che s’invii per creatura l’occhio tanto chiaro.

Paradiso XXXIII, 40-45[1].

Dante descrive così il momento in cui il desiderio umano di contemplare la verità, che ha guidato l’intera ricerca filosofica dall’inizio della storia, raggiunge il suo culmine. Affinché questa visione si realizzi, Maria invita Dante a entrare nel suo chiaro sguardo. Se la pienezza del cammino filosofico si realizza attraverso gli occhi di Maria, “diletti e venerati” da Dio e capaci di “addrizzarsi all’eterno lume”, non deve forse anche l’intero percorso filosofico verso la méta, essere segnato da Lei?

È proprio questo che proponeva san Giovanni Paolo II nella sua enciclica Fides et Ratio, di cui ricorre quest’anno il XXV anniversario. In questa enciclica, dimenticata e forse passata di moda, il Papa invitava con forza la filosofia a recuperare la sua originaria vocazione (n. 6), e la ragione a ritrovare l’audacia di porsi le domande fondamentali sul senso delle cose e dell’esistenza stessa, quelle domande che permettono di andare oltre il fenomeno per cercare il fondamento.

A conclusione del documento, il Papa propose un vibrante pensiero alla Beata Vergine Maria, Sede della Sapienza, invitando i filosofi a seguire le tracce dei santi monaci dell’antichità, che erano convinti di dover “philosophari in Maria” (n. 108).

Tale conclusione non può non stupire il filosofo contemporaneo, abituato a distinguere l’ambito della fede da quello della ragione e a dare per scontata la autonomia del filosofare. Che cosa c’entra Maria con l’esercizio della filosofia? Al massimo essa potrà interessare i teologi, così che l’accenno a Lei suona ai nostri orecchi solo devozionale, oltreché sconveniente.

Ma possiamo anche chiederci se era pura devozione quella di San Tommaso d’Aquino, che nello scritto autografo della Summa contra Gentiles riportava in margine le parole dell’Ave Maria, o quella di Karol Wojtyła, che scandiva la successione delle pagine dei suoi scritti filosofici con antifone mariane.

Forse proprio nel richiamo a Maria si trova la chiave che permette di accedere a quell’unità di visione, che pur nel rispetto delle debite distinzioni e dell’autonomia metodologica, permette alle due ali dello spirito umano, la fede e la ragione, di ritrovare sé stesse nella loro originaria destinazione e così di entrare in sinergia, portando l’uomo alla contemplazione della verità.

In questo modo vediamo come philosophari in Maria sia decisivo anche per il mestiere del teologo, in quanto la teologia include in sé le ricerche della ragione umana, senza adulterarle. Recentemente, in un’intervista all’Osservatore Romano, il segretario generale della Commissione Teologica Internazionale, Piero Coda, ha affermato che “non c’è riforma della Chiesa senza riforma della teologia”[2]. Può darsi una riforma, della Chiesa o della teologia, senza la presenza costitutiva di Maria?

Sarebbe interessante chiedersi quale sia il ruolo di Maria nella riforma della Chiesa che i sinodi sulla sinodalità vogliono avviare. Il Vaticano II, concludendo la costituzione sulla Chiesa Lumen Gentium con un capitolo dedicato a Maria, ha indicato la centralità della Madonna per capire chi è la Chiesa. La presenza mariana aiuterebbe a chiarire, ad esempio, come la Chiesa è di per sé femminile e farebbe così luce sulla questione del ruolo delle donne nella Chiesa. Oppure, per dare un altro esempio, la presenza mariana, in quanto Maria raccoglie in sé le generazioni di Israele per generare l’uomo nuovo, aiuterebbe anche a comprendere lo sviluppo omogeneo della tradizione attraverso i secoli.

Questa prolusione non intende affrontare tali questioni. Tuttavia, può far luce sulla riforma della Chiesa, nella misura in cui philosophari in Maria rivela questioni urgenti per la teologia nel suo servizio all’annuncio del Vangelo. Seguendo Piero Coda, se Maria aiuta a riformare la teologia, aiuterà anche a riformare la Chiesa.

Ci domandiamo, allora: che cosa c’entra Maria con la vita filosofica? Non può essere che lo sguardo di Maria aiuti gli occhi della ragione umana, come ha aiutato gli occhi di Dante, a dirigersi verso la sua pienezza ultima e contemplare l’eterno lume? Che conseguenze ha questa presenza mariana sul cammino filosofico per riformare la Chiesa, il cui compito centrale consiste nella contemplazione e nell’annuncio del “Dio vivo e vero” (1Tes 1,9)?

1. Consonanza di vocazione

Giovanni Paolo II ci offre il suggerimento fondamentale per rispondere a queste domande, quando afferma che “tra la vocazione della Beata Vergine Maria e la vocazione della genuina filosofia si può intravedere una profonda consonanza” (n. 108). Una consonanza a livello di vocazione, dunque: come la Vergine fu chiamata ad offrire tutta la sua umanità e femminilità affinché il Verbo potesse prendere carne e farsi uno di noi, così la filosofia è chiamata a prestare la sua opera razionale e critica, affinché la comprensione della fede, propria della teologia, sia feconda ed efficace.  Come Maria ha generato Dio nella carne, così Ella sostiene lo sforzo maieutico dello spirito umano nella ricerca della verità. Non si tratta di riproporre una forma servile di ancillarità, ma piuttosto di favorire una fedeltà piena alla ragione, nella sua tensione alla conoscenza della verità[3].

La parola “vocazione” indica una chiamata molto personale ed esigente, che riguarda l’identità profonda del filosofo e della filosofia. Martin Heidegger scrisse in maniera pregnante: “Ecco la vera questione: che cosa ci chiama a pensare? Che cosa ci colpisce direttamente, come un colpo di fulmine?”[4].

Ed ecco come Edith Stein descrive più dettagliatamente la vocazione filosofica: “

Tutto ciò che penetra nell’intimo dell’anima è una chiamata a una vocazione della persona, un appello all’intelletto della persona, cioè a quella facoltà che “comprende” quanto sta accadendo, un appello quindi alla riflessione, cioè a quella facoltà che cerca il significato di ciò che tocca l’anima; e un appello alla libertà, poiché anche la ricerca intellettuale è già attività libera. E tuttavia, al di là di questo, l’anima è chiamata a comportarsi e ad agire in accordo col significato di cui si è messa alla ricerca[5].

La chiamata viene sempre da Dio e coinvolge la persona nella sua identità profonda rivelandole la missione che dà senso alla vita. Dio infatti compie la sua opera di redenzione chiamando ciascuno a partecipare con Lui a questo compito. San Tommaso, nella Summa Theologiae afferma che Dio dona ad ogni persona tutte le grazie necessarie per portare a compimento la propria vocazione, e afferma che in modo eccellente la Beata Vergine Maria ricevette il dono della sapienza, per la sua vicinanza intima allo stesso Autore della grazia. E tuttavia, non prevedendo ancora la possibilità per le donne di insegnare nella Chiesa, l’Aquinate afferma che tale dono di sapienza eccellente fu dato a Maria per la contemplazione e non per l’insegnamento[6].

2. Oltre la falsa umiltà del pensiero debole

Che ne è di questa vocazione oggi? L’enciclica Fides et Ratio la richiama, proprio perché sembra che ci sia stata una rinuncia, e che la vocazione della ragione alla conoscenza della verità sia estenuata tanto per la filosofia, quanto per la teologia. Giovanni Paolo II aveva posto una domanda seria, che dopo 25 anni non ha perso di attualità: “perché la ragione vuole impedire a sé stessa di tendere verso la verità, mentre per sua stessa natura essa è orientata al suo raggiungimento?” (cf. n. 5).

Nella sua presentazione dell’Enciclica diceva così l’allora cardinale Joseph Ratzinger:

Il pensiero debole, con la rinuncia della ragione alla rivendicazione della verità e l’esclusione della metafisica a causa dell’assolutizzazione del paradigma della ragione scientifica o storica, rappresenta una capitolazione apparentemente innocua per la fede, che viene però sospinta dentro un cerchio chiuso in sé stesso, relegata nel soggettivismo, nella privatizzazione intimistica, non più in grado di comunicarsi agli altri, né di farsi valere sul piano culturale e razionale[7].

In effetti la più seducente e diffusa tentazione contro tale vocazione è costituita proprio da quel “pensiero debole”, che rinuncia alla pretesa di poter raggiungere una verità assoluta, da comunicare agli altri. Si propone cioè una razionalità che accetta la sua finitezza e non pretende di attingere ad un fondamento incontrovertibile, universale e permanente. La negazione della metafisica non è però solo accettazione del limite della ragione. Essa si ammanta anche di una motivazione etica, come il rifiuto della violenza con la quale la metafisica ridurrebbe l’Essere ad una oggettività quantificabile e manipolabile. Nella dissoluzione di ogni verità oggettiva, restano così solo interpretazioni legate alla condizione finita e storica del soggetto umano.

Questa rinuncia e autolimitazione sarebbe poi l’effetto positivo del cristianesimo, che viene interpretato come fattore di secolarizzazione, di decostruzione del concetto di natura e di leggi naturali sacralizzate. Esso sarebbe un evento di amore, piuttosto che una rivelazione di verità. La sua riscoperta autentica, dopo la millenaria cattura all’interno delle categorie metafisiche del pensiero greco, stabilirebbe il passaggio dalla veritas alla caritas, come principio di salvezza[8]. Per secoli si sarebbe andati contro il precetto evangelico fondamentale della carità, imponendo a tutti una verità ultima rivelata dall’alto e contribuendo così alla violenza tra i popoli. Quanto alla morale, la discriminante per stabilire quello che si può fare e quello che non si può fare, non dovrebbe essere la verità, ma piuttosto e finalmente solo la carità.

In questa dissoluzione degli assoluti metafisici e dell’idea di verità universale e immutabile, si potrebbe finalmente superare la violenza dell’autoritarismo di chi si ritiene detentore di una verità assoluta e pretende di imporla agli altri. Liberato dalla metafisica, de-ellenizzato, e de-dogmatizzato il cristianesimo potrebbe ritrovare la sua presunta originaria semplicità di una religione dell’amore[9].

Ma che cos’è una caritas senza la verità, a che cosa porta una benevolenza non guidata dalla ragionevolezza, se non ad un cieco sentimentalismo che sconfina poi sempre nell’arbitrio del potere? Se si esclude la capacità della ragione di andare oltre il sensibile, si finisce per ricondurre tutto all’interpretazione soggettiva, cancellando la possibilità di raggiungere la realtà. L’apparente umiltà di questa proposta è in realtà la rinuncia alla dignità della vocazione originaria dello spirito umano: è una falsa umiltà, che apre la porta al sopruso. Come ribatteva René Girard a Gianni Vattimo: “non avere altro che interpretazioni è la stessa cosa che non averne nessuna”. La falsa umiltà, che non riconosce all’uomo la capacità di verità, alimenta infatti la presunzione con cui egli si colloca al di sopra delle cose e al di sopra di qualsiasi verità, come un dominatore, abbandonando il mondo al potere della manipolazione tecnologica, scatenando l’hybris della ragione, confinata al mondo dell’empirico, ma legittimata nella sua manipolazione senza limiti. Non si libera così proprio quella volontà di potenza che è la vera fonte della violenza?

Se la Chiesa abbracciasse questo pensiero debole, finirebbe per sostenere anche che la via verso Dio è solo quella della carità che unisce, non della verità che sembra dividere; della misericordia che include tutti, non della verità che sembra giudicare. Allora la dottrina della fede sembrerebbe un ostacolo che impedisce che nella Chiesa tutti gli uomini possano essere accolti. Ma questo atteggiamento non implicherebbe la rinuncia della Chiesa ad essere “colonna e fondamento della verità” (1Tim 3,15)? Non si finirebbe per fare della Chiesa una grande nave, con le porte aperte perché tutti entrino, ma incapace di navigare verso un traguardo comune?

Tutto ciò conferma l’importanza di philosophari in Maria per la vita e missione della Chiesa. Vedremo di seguito come questo può aiutarci a ricuperare la fiducia nella nostra capacità di accogliere la verità, in modo che si possa coltivare la carità e la sua capacità di offrire un destino comune a tutti gli uomini.

3. La vera umiltà del chiedere

Ricordando la vocazione originaria della ragione, Giovanni Paolo II invita ad una filosofia di portata autenticamente metafisica, che trascenda l’empirico e il fenomenico, per conseguire una verità assoluta, ultima, fondamentale, una filosofia “che non si accontenti di compiti più modesti, quali la sola interpretazione del fattuale o la sola indagine su campi determinati del sapere umano o sulle sue strutture” (n. 55).

E proprio qui si può ravvisare il profilo mariano dell’autentica ricerca filosofica, che pur consapevole dei limiti creaturali e storici, in cui si colloca il suo esercizio, non rinuncia alla sua altissima vocazione a conoscere la verità. E’ l’umiltà vera di Maria, che deve ispirarla, l’umiltà che si rivela nel Magnificat, quando riconosce di essere umile serva del Signore, ma nello stesso tempo afferma che in lei Egli ha fatto grandi cose, così che tutte le generazioni la chiameranno beata (Lc 1,48).

Di questo profilo, offre una descrizione sintetica e geniale John Henry Newman nel suo famoso XV sermone universitario di Oxford, quando afferma che Maria Santissima è

il nostro modello di fede, sia quanto all’accoglienza che quanto allo studio della verità divina. Non pensa che sia per lei sufficiente accettarla, ma vi si sofferma; non ne prende soltanto possesso, ma la mette a profitto; non le basta assentire, ma la sviluppa; non solo le sottomette la ragione, ma ve la applica; non cercando di ragionare prima di credere, come Zaccaria, ma anzitutto credendo senza ragionare e poi ragionando con amore e reverenza, dopo aver creduto. In tal modo ella ci offre il simbolo, non solo della fede dei semplici, ma anche dei dottori della Chiesa, che hanno il compito di investigare, valutare, definire i contenuti della fede, oltre che di professarla; e devono distinguere fra verità ed eresie, prevenire o porre rimedio alle varie aberrazioni di una erronea ragione, trovare il modo di combattere l’orgoglio e la temerarietà, trionfando così su sofisti e novatori[10].

Da un lato Maria esemplifica il compito iniziale della filosofia: quello di ricevere la realtà senza manipolarla, con semplicità, sine plice, senza ripiegamenti e ritrosie, senza volerla dominare con quell’atteggiamento possessivo e aggressivo, ben descritto nell’affermazione di Hegel: “begreifen ist beherschen”, comprendere significa dominare[11]. Maria non domina, ma accoglie, con quell’attitudine squisitamente femminile che qualifica la creatura di fronte al Creatore: un atteggiamento di stupore per una bellezza, che può essere solo un dono gratuito[12].

Ma d’altra parte, la fede di Maria non si conclude in una passiva acquiescenza. Lei ponderava, meditando nel suo cuore. Maria vuole intendere (synìemi) ciò che ha udito, per questo lo raccoglie (symballo) nel suo cuore. Meditare è anche custodire, conservare in sé la verità che si è ascoltata e raccolta e che dunque non è un nostro prodotto e non ci appartiene.

Come dice splendidamente Massimo Cacciari di Maria: “Quanto più la meditazione è in partecipe ascolto del problema che la assilla, quanto più fermamente in sé stessa lo conserva e custodisce, tanto più riconosce che la radice che lo alimenta sfugge ai propri metra, alle proprie misure. Sa di custodirlo, ma il suo sapere non esercita alcun potere su ciò che custodisce. Nei suoi confronti essa è ontologicamente umile”[13]. E così, colma di grazia (kecharotoméne), è capace di generare veramente, perché generare è conoscere ciò che ha vita propria, ciò che può vivere in sé e per sé.

Maria, che più sa di ignorare e più vuol conoscere, più dubita e più va cercando, diventa così cosciente che Colui che cerca è davvero sempre oltre, “fuori” dalla sua presa (cf. Mc 3,20-35). Maria non rinuncia a porre le domande, anzi a porre la domanda filosofica cruciale: “come è possibile?” (pôs éstai touto?;Lc 1, 34-37). La categoria della possibilità è infatti la suprema dimensione della ragione e definisce l’apertura strutturale dell’uomo ad un orizzonte che lo supera infinitamente e verso il quale tende. Senza di questo non c’è la ragione[14]. Maria sta di fronte all’apparente contraddizione tra ciò che le dicono l’esperienza e i sensi e quanto le è stato rivelato dall’angelo. Ma in questa lacerante tensione riceve la risposta, che accoglie nel silenzio: “Non esiste nulla di impossibile per Dio”. E così apre la sua ragione a ciò che va oltre l’esperienza fenomenica e i sensi e dilata l’orizzonte della possibilità oltre la sua misura. “Nulla è impossibile a Dio”, eppure senza il sì di Maria non sarebbe stata possibile quella possibilità divina, che accetta di sottomettersi alla libertà accogliente di Maria. Nel mistero della libertà di Maria, l’umiltà di Dio che si fa uomo, trova il punto archimedico dove realizzare l’umanamente impossibile.

Quest’apertura alle possibilità di Dio non avviene senza lotta e sofferenza da parte nostra, come è successo anche a Maria. Il cuore di Maria, che raccoglie e custodisce quanto le viene annunciato e quanto accade attorno a lei (Lc 2,19), che fa memoria degli eventi prodigiosi del Figlio, è un cuore che viene trafitto da una spada. E non solo sotto la croce, ma anche nella quotidiana sequela di quel suo figlio che è sempre “fuori” dalla misura e dalla portata dell’umana comprensione (cf. Mc 3,21).

Nella XIII Regula ad sentiendum cum Ecclesia, posta alla fine degli Esercizi spirituali, Sant’Ignazio di Loyola dice: “Per giudicare giustamente in tutto, occorre essere pronti, davanti a ciò che vedo bianco a credere che è nero, se la Chiesa gerarchica così decide”. La sfida per il credente è qui portata ad un livello estremo e sembra proporsi un contrasto radicale tra fede e ragione, che capovolge la speculare dichiarazione di Erasmo da Rotterdam: “Il nero non diventerà mai bianco, neppure se così lo definisse il Romano Pontefice”.

Nel suo penetrante commento, Gaston Fessard vede qui in controluce la scena dell’annunciazione, in cui Maria fu chiamata davvero a credere che era bianco ciò che i sensi e l’esperienza le dicevano che era nero[15]. Il filosofo gesuita scorge il realizzarsi di una vera lotta interiore (acertar), per accordare la certezza soggettiva con la verità oggettiva: tale lotta ha un carattere personale e dialogico, poiché l’umiltà e la disponibilità ad essere fecondato dallo Spirito divino sono le condizioni che deve realizzare lo spirito creato per raggiungere la verità.

In realtà alla creatura non è chiesto di rinnegare le evidenze dell’esperienza sensibile e della ragione, ma piuttosto di tenerle aperte ad una verità più grande della propria misura, con una apertura al futuro che realizza le possibilità di Dio. In questa lotta interiore ciò che sostiene l’apertura della ragione è da un lato il pudore (vergüenza) di fronte a ciò che è infinitamente alto, e d’altro canto la convinzione che il medesimo Spirito che unisce nell’amore Cristo e la sua Sposa, la Chiesa, ci governa e ci dirige mediante l’Autorità per il bene delle nostre anime. In questo modo, l’autorità della Chiesa non è un esercizio arbitrario del potere, che chiede il sacrificio della ragione, perché poggia sulla testimonianza dell’amore originario, che sorregge in fedeltà tutta la storia.

 4. Il cammino della verità nel tempo e nella carne

Or bene, nella nostra cultura tale umiltà del chiedere, che diventa capace di attingere la verità, si mette alla prova attraverso una domanda fondamentale per la filosofia oggi, e che influisce anche sull’annuncio cristiano di Dio. Si tratta della prova del corpo, con la sua fragilità e la sua soggezione alla storia. Se si prende sul serio la corporeità, la verità non risulta più un’astrazione lontana dalla vita. Anzi essa può rendersi presente proprio nella concretezza della nostra carne e del nostro tempo. Philosophari in Maria, la Madre della Parola fatta carne, diventa allora chiave per illuminare il percorso filosofico odierno e la sua capacità di essere assunto nella fede della Chiesa.

Per vedere come Maria aiuta a illuminare il ruolo del corpo torniamo all’esperienza del pudore, di cui parla Gaston Fessard. Il pudore esprime il legame intimo dello spirito col nostro corpo, testimonianza concreta della nostra condizione creaturale di spirito incarnato. Se da un lato il corpo ci collega con il mondo esteriore a noi, d’altra parte il corpo ci parla anche della nostra intimità personale.

Nella Modernità si è provocato un enorme abisso tra l’umana consapevolezza e libertà rispetto al mondo naturale circostante, per cui l’essere umano si trova impedito nel reperire un quadro di riferimento più ampio, in cui orientare la propria domanda di senso e la propria azione: è lasciato solo con sé stesso nella ricerca di identità. La conseguenza di questa separazione tra l’uomo e la natura è la separazione tra l’uomo e il suo corpo. Il corpo diventa allora un materiale morbido, totalmente malleabile dai nostri desideri, che soli potrebbero donargli un senso.

Nel contesto dualista della Modernità, il discepolo di Heidegger, Hans Jonas capì che la questione del corpo era improvvisamente diventata cruciale per la filosofia. Così egli si esprime: “Il corpo vivente e che può morire, che ha il mondo e che appartiene come parte anch’esso al mondo, che può essere sentito e sente, la cui forma interna è essere sé e finalità: è il memento dell’ancora irrisolto interrogativo dell’ontologia su che cosa sia l’essere, e deve essere il canone dei futuri tentativi di soluzione”[16].

Nello stesso senso anche Gabriel Marcel affermava che il punto di partenza della filosofia è proprio il corpo, luogo originario del dono e della parola che ci è rivolta dall’incontro con la realtà e con gli altri in particolare[17].

Ebbene, Maria è testimone singolare di questa capacità del corpo di esprimere l’umano. I Padri hanno parlato della vergine “capax Dei”, capace di accogliere Dio nel suo grembo[18]. Il corpo di Maria porta così a pienezza l’esperienza di maternità di tutte le madri della storia, a cominciare da Eva, che “ha concepito un figlio con l’aiuto di Dio” (cf. Gen 4,1). Se il grembo di Maria ha accolto la Parola eterna, che ha fondato l’universo, allora il corpo umano deve possedere un linguaggio che ci mette in rapporto con l’ordine originario del cosmo e con il suo Creatore.

Ogni corpo materno, infatti, nell’accoglienza che offre al figlio aprendogli una prima dimora, ci parla dell’origine buona della vita, ricordandoci che procediamo da un dono che ci precede. Questa verità originaria della vita fa sì che il pensiero inizi sempre con un atto di gratitudine, come ha segnalato Hannah Arendt in riferimento al collegamento delle parole tedesche denken (pensare) – danken (ringraziare).

Tuttavia, se il corpo materno apre la domanda al di là di sé stesso, è sempre in riferimento al corpo paterno. Un corpo da solo non può dire l’origine, ma solo in comunione con un altro corpo segnato dalla differenza, il che apre la domanda al di là dell’uomo e della donna. La differenza sessuale diventa così apertura simbolica del nostro sguardo verso l’Origine, che ci precede e che dona orizzonte di senso al cammino della vita.

Maria, figlia di Adamo e di Abramo, raccoglie nella sua carne tutta la storia di paternità e maternità che l’ha preceduta. In questo modo Maria conferma la bontà della differenza dei sessi, che permette di vedere nella storia la mano provvidente di Dio, fino alla nascita del Cristo.

Allo stesso tempo in Maria appare una novità, perché in Lei la differenza sessuale si apre verginalmente ad un intervento nuovo dello Spirito. Questo intervento trasforma la corporeità, affinché possa esprimere pienamente l’amore originario del Padre e l’alto destino dell’uomo, chiamato alla piena somiglianza di Dio in Gesù. Il corpo, testimone dell’origine, diventa testimone anche della novità che Dio può portare avanti nella storia, al di là delle possibilità umane.

La capacità del corpo di Maria di generare la novità nella storia ci fa pensare anche alla crisi demografica, che vive il nostro mondo. Proprio perché la verità è iscritta nel corpo, tale crisi demografica è anche una crisi della comprensione metafisica del mondo, come ha mostrato il filosofo francese Rémi Brague. Secondo Brague, il nichilismo è il rifiuto di accettare la convertibilità dei trascendentali, in particolare dell’identificazione dell’Essere col Bene, affermazione chiave sia per la filosofia greca che per la Sacra Scrittura[19]. Riducendo l’Essere all’esistenza e quest’ultima alla contingenza, vengono a mancare le ragioni stesse del vivere, in particolare vengono meno le stesse ragioni del generare ancora dei figli. Abbiamo il diritto di mettere al mondo figli, se non abbiamo la certezza che saranno felici?

A questa domanda si può rispondere solo quando si esperimenta la bontà sorgiva che si trova all’origine della nostra vita, bontà testimoniata dall’amore del padre e della madre nella loro differenza, che si apre al di là di loro alla bontà originaria del Creatore. Philosophari in Maria significa comprendere l’Essere a partire da questa bontà originaria, a cui la Madonna rende testimonianza con tutta la sua carne. Questa percezione della verità ci trasmette di nuovo la certezza che l’essere è buono. Si può allora aprirsi alla speranza e trovare la ragione per generare dei figli, comprendendo che la vita è un dono così grande, che non può non essere trasmesso ad altri.

Se il corpo di Maria parla dell’origine e anche della novità, allora philosophari in Maria aiuta a cogliere la capacità della storia per dire la verità eterna, senza dover cancellare la temporalità. Nel corpo che genera il nuovo a partire dalla testimonianza di un’origine, si comprende l’unità della storia e la sua capacità di metterci in rapporto con l’eterno. Insomma, se Maria è vergine capax Dei, questo significa che la carne di ogni uomo e donna è, come insegna sant’Ireneo di Lione, capax virtutis Dei[20]. Si apre in Maria un orizzonte che permette di collegare la ricerca della verità, non ad un allontanamento progressivo della corporeità, che finirebbe in un’astrazione, ma all’esperienza più profonda del linguaggio della carne. La differenza sessuale, in questo modo, non è soppressa, ma assunta in un quadro più ampio, per cui Maria può diventare, sotto la Croce, madre di tutti i credenti e icona della Chiesa Sposa di Cristo.

Arriviamo così ad una luce molto attuale per la Chiesa del nostro tempo, che sembra smarrita davanti alla questione del corpo e del suo significato. Chi sa philosophari in Maria comprende il linguaggio della differenza tra uomo e donna come grammatica per esprimere l’origine fondante e il destino ultimo della vita. In questo modo si può illuminare quella differenza sessuale che, secondo la filosofa femminista Luce Irigaray, è l’unico tema che la nostra epoca ha il compito di pensare fino in fondo[21].

Infine, questo radicamento della riflessione filosofica nel corpo invita a considerare, come insegna Fides et Ratio, che solo “nell’unità inscindibile tra la realtà e il suo significato si può cogliere la profondità del mistero” (n. 13), con un accenno all’orizzonte sacramentale della Rivelazione, ma riferendosi anche alla necessità per la ragione umana di prestare attenzione ai segni presenti nel mondo, che aprono al mistero.

5. Il cammino della verità nel tempo e nella carne

Se la verità si dischiude a noi nel corpo, allora è la verità di un dono e di un incontro interpersonale. Il linguaggio del corpo è, infatti, il linguaggio dell’accoglienza materna e paterna, così com’è il linguaggio del dono mutuo degli sposi e della fecondità di ogni nuova vita. La presenza di Maria aiuta il filosofo a cogliere il nesso tra verità e amore, che supera l’opposizione tra la carità e la fede, tra la pastorale e la dottrina, tra l’apertura a tutti e l’indicazione di un cammino verso una mèta comune.

Nel dialogo tra Gesù e Pilato, il governatore romano chiede “che cos’è la verità” (Gv 18, 38). E Gesù non risponde. Un anagramma latino interpreta questo silenzio con un gioco di parole: alla domanda di Pilato, che nel latino della Vulgata suona “Quid est veritas?”, si risponde “Est vir qui adest”, cioè la verità è l’uomo qui presente, è proprio colui che sta davanti a te. Su questa base, il filosofo polacco Stanisław Grygiel, ha coniato una sua originale riformulazione della definizione tomista di verità: adaequatio personae cum persona[22], adeguarsi continuo della mia persona alla persona di Cristo, che mi rivela l’Amore del Padre, origine e destino della vita. Se la verità è una persona, l’accesso ad essa passa per un incontro e un rapporto personali.

Si capisce allora bene perché Fides et ratio afferma che la verità non può esaurirsi in una formula (n. 95). E tuttavia il condizionamento storico e culturale delle formule, che possono e devono essere continuamente riviste per esprimere sempre meglio il mistero, non contrasta con l’assolutezza e l’universalità della verità. L’adozione di un’ermeneutica aperta all’istanza metafisica è in grado di mostrare come dalle circostanze storiche e contingenti, in cui i testi sono maturati, si compia il passaggio alla verità da essi espressa, che va oltre tali condizionamenti. Se la carne di Maria è capace di ospitare la Parola, anche le formule concrete sono capaci di ospitare una verità che le trascende.

La struttura personale dell’incontro ci mostra come in realtà la verità è inseparabile dall’amore, non solo perché non si può trovarla se non la si ama, ma anche perché, nella sua essenza profonda, essa stessa è amore. Il Dio dei filosofi non è più solamente un Dio filosofico, ma è il Dio vivente, che nella storia si china sull’uomo per salvarlo[23]. Così la verità di cui parla il cristianesimo è la verità dell’amore (veritas amoris), che si rivela come principio dell’essere. Se la conoscenza è spiegabile unicamente mediante l’amore e per l’amore, allora l’amore non è divisibile dalla verità e si può ben dire con Hans Urs von Balthasar che “la verità sgorga dall’amore”[24]. Se il Logos non è ragione matematica, ma Amore Creatore e Salvatore, allora il primato del Logos e il primato dell’Amore sono identici tra loro.

In quest’orizzonte si colloca anche il nesso tra libertà e verità, che non possono venire contrapposte, ma devono coniugarsi tra loro, “per non perire miseramente insieme” (n. 90). “La verità vi farà liberi” (Gv 8,31) dice Gesù, mentre l’odierna lettura radicale dell’autonomia kantiana capovolge l’affermazione: “la libertà ci farà veri”[25]: il diritto dell’uomo di autodeterminarsi, cioè di condurre la propria vita secondo fini che lui stesso si pone, comporta la subordinazione della ragione alla volontà. Ma in realtà, come afferma Balthasar, la soggettività (atto del pensiero e della libertà) è oggettiva solo se distingue l’essere da sé e quindi ne percepisce la verità come “altro” che la precede, per cui l’autentica realizzazione della libertà consiste nella percezione della verità (Wahrnehmung)[26].

Conclusione

Abbiamo aperto questa disamina con lo sguardo di Dante che, accolto in quello di Maria, si rivolge verso l’eterna luce. Comprendiamo adesso meglio il ruolo di Maria in questa contemplazione finale di Dio. Maria apre lo spazio in cui è stato generato il Figlio di Dio, uno spazio che si prolunga nella Chiesa dove i cristiani vengono rigenerati. È necessario entrare in Maria per poter contemplare la Trinità, nel cui centro si è impressa l’immagine umana del Figlio fatto carne. Solo nello spazio aperto dalla Madonna, che si prolunga nello spazio ecclesiale (Maria – Ecclesia), si coglie quella verità che si dona nel nostro corpo e nel nostro tempo e che si dischiude in un incontro di amore. Usando un’altra formula di Stanisław Grygiel si può dire che è necessario philosophari in Maria perché extra communionem personarum nulla philosophia[27]. La presenza mariana diventa chiave per una riforma della teologia che torni a mettere al centro la domanda fondamentale su Dio e sul modo in cui l’uomo può entrare in comunione piena con lui. Ecco qui un fondamento per la riforma della Chiesa, a partire dal traguardo definitivo a cui la chiama Dio.

Il francescano Corrado di Sassonia († 1279), nel suo Speculum Beatae Mariae Virginis, attribuito per molto tempo a san Buonaventura, mostra come Maria è piena della luce della sapienza che ogni filosofo cerca. A questo fine egli cita un testo dei Proverbi: “mio marito non è in casa, è partito per un lungo viaggio, […] tornerà a casa il giorno del plenilunio” (Prov 7,19-20)[28]. Nell’esegesi di Corrado la casa è l’anima razionale dell’uomo, che è senza marito, cioè senza quella verità che la mente cerca. Non possiamo vedere qui la situazione dell’uomo contemporaneo e la crisi nella ricerca del fondamento? Il marito però non abbandona la casa, ma vi ritorna con la luna piena, cioè con la Madonna, luna che umilmente riflette la luce del sole. Accogliendo questa luce Maria partorisce lo Sposo, che entra così nella sua casa e ci dona la luce della verità. Corrado giustifica così l’etimologia che offre san Girolamo del nome di Maria: illuminata sive illuminatrix.

A partire da questa esegesi medievale posso formulare il mio augurio per il compito filosofico del prossimo anno accademico all’Angelicum, così necessario anche per la Chiesa di oggi. Il vostro philosophari in Maria possa aprire di nuovo le vie alle nostre menti e alla fede della Chiesa, per essere illuminati dalla luce dello Sposo, vale a dire, da quella verità dell’amore, che si è rivelata nel corpo risorto di Cristo, nato da Maria.


[1] Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso XXXIII, 40-45.

[2] Si tratta di un’intervista del 27 luglio 2023: https://www.osservatoreromano.va/it/news/2023-07/quo-172/non-c-e-riforma-della-chiesa-senza-riforma-della-teologia.html (ultimo accesso: 11 ottobre 2023).

[3] Cf. P Allen, “Mary and the Vocation of Philosophers”, New Blackfriars 90 (2009) 50–71.

[4] M. Heidegger, Was heißt Denken?, M. Niemayer Verlag, Tübingen 1954, 85.

[5] E. Stein, Essere finito ed essere eterno. Per una elevazione al senso dell’essere, Città Nuova, Roma1988438-439, citato da P. Allen, “Mary and the Vocation of Philosophers”, cit., cui sono debitore per il riferimento e per altri spunti.

[6] San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, III, q. 27, a. 5, ad IIIum.

[7] J. Ratzinger, “L’Enciclica reagisce al pensiero debole”, conferenza di presentazione del 15 ottobre 1998: AGI 23 aprile 2014.

[8] Si veda in particolare: G. Vattimo, “Contro gli assolutismi di fede e ragione”, in MicroMega, 14 (1/1999) 117-121; così come i suoi interventi in R. Girard – G. Vattimo, Verità o fede debole? Dialogo su cristianesimo e relativismo, Transeuropa, Pisa 2006.

[9] J. Ratzinger, Il Dio della fede e il Dio dei filosofi. Un contributo al problema della theologia naturalis. Prolusione a Bonn (1959), Nuova Edizione con post-fazione di Massimo Epis, Marcianum Press, Venezia 2013.

[10] J.H. Newman, Oxford University Sermons, Sermon XV: The Theory of Developments in Religious Doctrine; trad. it.: “Gli sviluppi dottrinali della fede (e una loro teoria interpretativa)” in Sermoni su temi di attualità. Sermoni all’Università di Oxford, trad. e introduzione a cura di L. Chitarin, Ed. Studio Domenicano, Bologna 2004, 681-712.

[11] G.W.F. Hegel, Theologische Jugendschriften, ed. H. Nohl, Berlin 1907 (ristampa: Minerva 1966), 376.

[12] Cf. K. Schmitz, The Gift: Creation, The Aquinas Lectures 1982, Marquette University Press, Milwaukee 1982.

[13] M. Cacciari, Generare Dio, Il Mulino, Bologna 2017, 30.

[14] Cf. L. Giussani, Il senso religioso, vol. I del PerCorso, Rizzoli, Milano 1997, 25° ed.: 2023, 66. Sul tema: G. Corbella, “Non tomba, ma finestra. Giussani e la categoria della possibilità”, in C. Di Martino (a cura di), Vivere la ragione. Saggi sul pensiero filosofico di Luigi Giussani, vol. 2 – Centenario Luigi Giussani (1922-2022), BUR, Milano 2023, 162-181.

[15] G. Fessard, La dialectique des Exercices Spirituels de Saint Ignace de Loyola. Vol. II: Fondement – Péché – Orthodoxie, Aubier, Paris 1966, 156-222.

[16] Cf. H. Jonas, “Il problema della dottrina del corpo nella dottrina dell’essere”, in Id., Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica, Einaudi, Torino 1999, 27. Si veda in merito: J. Granados, La carne si fa amore. Il corpo, cardine della storia della salvezza, Cantagalli, Siena 2010, 28-29.

[17] G. Marcel, Homo viator: prolégomènes à une métaphysique de l’espérance, Aubier – Montaigne, Paris 1944; Homo viator, tr. it. di L. Castiglione e M. Rettori, Borla, Roma 1980, 160.

[18] San Cromazio di Aquileia, In Math. III (CCL 9a, l. 12).

[19] R. Brague, Ancore nel cielo. L’infrastruttura metafisica, Vita e Pensiero, Milano 2012, 31ss.

[20] Sant’Irenaeus, Adversus Haereses, V 3,2 (SCh 153, l. 48).

[21] L. Irigaray, Éthique de la différence sexuelle, Minuit, Paris 1984. L’Autrice ha dedicato a Maria il volumetto: Le mystère de Marie, Paris 2010.

[22] Si veda: S. Grygiel, “Il pluralismo, l’unità, la verità”, in Il Nuovo Areopago anno 1, n. 2 (1982), 100-105.

[23] Cf. J. Ratzinger / Benedetto XVI, Il Dio della fede e il Dio dei filosofi, cit.

[24] H.U. von Balthasar, Verità del mondo, vol. I di TeoLogica, Jaca Book, Milano 1989, 115.

[25] K.H. Menke, La verità rende liberi o la libertà rende veri? Uno scritto polemico, Queriniana, Brescia 2020.

[26] Balthasar, Verità del mondo, cit., 117.

[27] S. Grygiel, Extra communionem personarum nulla philosophia, Lateran University Press, Roma 2002.

[28] Corrado di Sassonia, Speculum seu salutatio Beatae Mariae Virginis, VII, Quaracchi, Grottaferrata 1975, 94-95.

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Livio Melina

Livio Melina

Livio Melina è Teologo Moralista. Già Ordinario di Teologia morale (dal 1996 al 2019) presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia a Roma, di cui fu Preside dal 2006 al 2016. Vi ha fondato e diretto l’Area Internazionale di Ricerca in Teologia morale. Membro ordinario della Pontificia Accademia di Teologia, è stato Direttore scientifico della rivista "Anthropotes" e visiting Professor a Washington DC e a Melbourne. Ha tenuto e tiene corsi e conferenze in varie Università internazionali.

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