Natura dell’atto e contraccezione. Perché la contraccezione è contra naturam?

Jarosław Merecki

Testo pubblicato per la prima volta in J.J. Pérez-Soba – S. Kampowski (eds.), in collaborazione con E. Stefanyan, Lucerna pedibus meis. Prudenza, amore e virtù. Saggi in onore di Livio Melina, Cantagalli, Siena 2021, 201-214.

In questa breve riflessione cercherò di affrontare sia il tema del contesto culturale e del carattere profetico dell’enciclica Humanae vitae di san Paolo VI, sia il suo contenuto, particolarmente per chiarire quella parte del documento in cui si afferma che la contraccezione è contro la natura dell’uomo[1]. Vorrei spendere prima qualche parola sul significato dell’espressione “carattere profetico”, che è spesso usata in riferimento all’enciclica di Paolo VI, e poi rifletterò sul rapporto tra questa enciclica e Veritatis splendor di san Giovanni Paolo II[2] e, per dirla in termini ancora più ampi, farò riferimento alla teologia del corpo del Papa polacco. Ciò che Giovanni Paolo II dice sul rapporto tra libertà e natura, e soprattutto sulla dimensione morale del corpo umano, è di particolare importanza per lo sviluppo del nostro tema. Afferma, tra l’altro, che “una dottrina che dissoci l’atto morale dalle dimensioni corporee del suo esercizio è contraria agli insegnamenti della Sacra Scrittura e della Tradizione: tale dottrina fa rivivere, sotto forme nuove, alcuni vecchi errori sempre combattuti dalla Chiesa, in quanto riducono la persona umana a una libertà «spirituale», puramente formale” (VS 49). Si tratta quindi di mostrare il significato morale del corpo umano dato nell’esperienza vissuta. Lo stesso Giovanni Paolo II nella sua “teologia del corpo”, sviluppata nel ciclo di catechesi svolto all’inizio del suo pontificato, ci ha fornito un approfondimento antropologico e teologico a sostegno dell’insegnamento dell’enciclica Humanae vitae. L’enciclica Humanae vitae è un testo molto conciso e non poteva contenere la piena argomentazione a favore della norma, che Paolo VI ha confermato nella sua enciclica, ribadendo l’insegnamento secolare della tradizione cristiana su questa materia. Per il nostro tema è inoltre importante ciò che Giovanni Paolo II dice sulla determinazione della qualità morale di un atto. A tale proposito egli afferma: “La moralità dell’atto umano dipende anzitutto e fondamentalmente dall’oggetto ragionevolmente scelto dalla volontà deliberata” (VS 78). Per poter cogliere l’oggetto di un atto che lo specifica moralmente occorre quindi collocarsi “nella prospettiva della persona che agisce” (VS 78).

Cercherò di presentare l’insegnamento dell’enciclica Humanae vitae sulla base dell’analisi del concetto di natura dell’atto compiuta dal grande filosofo tedesco Robert Spaemann, recentemente scomparso, e delle riflessioni della filosofa inglese Elizabeth Anscombe su ciò che è oggetto dell’atto contraccettivo e sul perché questo oggetto è contro naturam. La Anscombe è nota soprattutto per il suo libro intitolato Intention, fondamentale per il tema che andiamo a trattare[3]. Che l’insegnamento di Paolo VI sia ancora oggetto di controversie tra i teologi e non solo tra di loro è dimostrato per esempio dal fatto che nell’ambito di una serie di conferenze dedicate al 50° anniversario della pubblicazione della Humanae vitae, tenute all’Università Gregoriana a Roma nell’anno accademico 2017/2018, in un discorso intitolato “Rileggere Humanae vitae (1968) a partire da Amoris Laetitia (2016)”, il professor Maurizio Chiodi, un noto teologo milanese, ha sostenuto che in alcune circostanze la responsabilità morale di una persona non solo permette, ma richiede l’uso dei mezzi contraccettivi. D’altra parte, va ricordato che uno dei compiti che Giovanni Paolo II ha posto davanti all’Istituto per studi su Matrimonio e Famiglia, da lui fondato, è proprio quello di “sviluppare un’adeguata antropologia, che sta alla base dell’enciclica Humanae vitae[4].

1. La natura profetica dell’enciclica Humanae vitae

Il carattere profetico dell’enciclica Humanae vitae può essere inteso in due sensi. Il primo è un senso più superficiale, appartenente al nostro linguaggio quotidiano, in cui per profezia intendiamo semplicemente una previsione che si avvera del futuro. Nel secondo senso del termine, che è più specificamente teologico, il profeta è una persona che nella storia fa presente e proclama la verità originaria voluta da Dio, ce la ricorda, specialmente quando questa verità non è rispettata o viene travisata.

Non è difficile notare che Paolo VI (e anche Giovanni Paolo II dopo di lui) hanno puntualmente previsto le conseguenze legate all’approvazione morale dei mezzi contraccettivi, identificandole principalmente con l’emergere della cosiddetta mentalità contraccettiva, l’indebolimento dell’istituzione del matrimonio e persino un cambiamento del significato della sessualità umana. Esaminiamo ora brevemente queste conseguenze.

I fautori della revisione dell’insegnamento della Humanae vitae sostengono che la nuova situazione in cui ci troviamo a cinquant’anni dalla pubblicazione del testo di Paolo VI richiede una nuova lettura del documento. Come ha giustamente sottolineato George Weigel, un teologo e giornalista americano, nell’edizione online della rivista First Things, la situazione odierna è davvero nuova – e molto peggiore di quella di cinquant’anni fa[5]. In molti paesi sviluppati, soprattutto in Europa, quella che sembrava essere l’ovvia vocazione di un uomo e di una donna che si sposano, quella cioè di dare alla luce un figlio (figli), è diventata una decisione difficile da prendere, che risulta spesso perdente al confronto con altri valori associati alla cosiddetta qualità di vita. I figli richiedono un grande impegno e persino sacrificio da parte dei loro genitori e oggi tante persone non vogliono impegnarsi così profondamente. Ciò ha portato ad una grave crisi demografica in Europa, con un tasso di natalità del 1,58 nel 2014 (ben al di sotto del tasso di sostituzione semplice, che dovrebbe essere di poco superiore a 2,1). Vale la pena ricordare che in Polonia – non molto tempo fa, prima dell’introduzione del programma 500+, che è un programma di sostegno finanziario alle famiglie con almeno due figli – il tasso di fertilità aveva quasi raggiunto quello che i demografi definiscono “lowest low fertility” (1,3), vale a dire il livello della catastrofe demografica.

L’istituzione stessa del matrimonio è toccata da una grave crisi. Secondo un rapporto sull’evoluzione della famiglia in Europa dell’Istituto per la politica familiare di Madrid, dal 2014 in meno di mezzo minuto si rompe un matrimonio (in Belgio il 71% dei matrimoni termina con il divorzio, in Polonia va meglio – circa il 30% – ma la tendenza è in aumento). Anche in questo aspetto le previsioni di papa Paolo VI si sono puntualmente realizzate (cfr. n. 17 dell’enciclica). Certamente la situazione non è ovunque così drammatica. Per esempio in Africa è molto migliore, ma anche in questo caso la mentalità promossa dalle varie istituzioni del mondo occidentale sta avendo un impatto sempre più forte sulla percezione del matrimonio e sul suo rapporto con la procreazione.

Anche la stessa sessualità è stata banalizzata. Probabilmente solo per caso l’anno di pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae coincide con il 1968, anno simbolo della cosiddetta rivoluzione sessuale. Ma qual è l’essenza di questa rivoluzione? Essa consiste proprio nell’aver separato l’atto sessuale e la procreazione[6]. In questo modo non solo è divenuto lecito godere del piacere sessuale intenzionalmente escludendo la possibilità di diventare madre e padre, ma è anche lecito concepire un bambino al di fuori dell’atto sessuale (la cosiddetta fecondazione in vitro). Di conseguenza il bambino non è percepito come un dono, ma come frutto di una decisione, non è più vissuto come manifestazione dell’azione di Dio Creatore nel mondo umano, ma è visto come un “prodotto” della volontà umana (accettato quando è voluto, o rifiutato quando risulta essere “indesiderato”). Così come diventa possibile un atto sessuale separato dalla procreazione, allora anche la procreazione si separa dalla sessualità: il bambino non è più frutto della natura, ma un prodotto della decisione umana (realizzato a volte anche con l’uso della tecnologia). Nel suo famoso libro How the West Really Lost God l’autrice americana Mary Eberstadt sostiene che questo cambiamento nella percezione della procreazione è una delle ragioni principali della perdita di sensibilità religiosa nelle società occidentali[7]. La stessa autrice dimostra in modo convincente che la diffusione della mentalità contraccettiva – contrariamente a quanto proclamato dai promotori della contraccezione – ha in realtà portato ad un significativo aumento del numero di aborti e all’irresponsabilità maschile per le conseguenze del proprio comportamento sessuale. “Nell’era dopo la pillola”, scrive Eberstadt, “la responsabilità per la gravidanza ricade esclusivamente sulle donne, rafforzando la convinzione degli uomini (maschi) che, anche se la contraccezione fallisce, non devono essere responsabili di nulla”[8]. Non dobbiamo dimenticare questo argomento nel nostro tempo in cui si pone – e giustamente – un forte accento sulla pari dignità di donne e uomini.

2. Il contrappunto alla rivoluzione sessuale

Come abbiamo accennato, l’enciclica di Paolo VI era una sorta di contrappunto alla cosiddetta rivoluzione sessuale, il cui simbolo è l’anno 1968. Mentre l’essenza della rivoluzione sessuale può essere vista nella separazione dell’amore espresso nell’atto sessuale dalla procreazione, l’enciclica di Paolo VI sottolinea con forza che il significato unitivo e il significato procreativo dell’atto sessuale sono intrinsecamente uniti e non devono essere separati[9]. In altre parole, il Papa dichiara che l’uso dei contraccettivi non è un buon metodo per regolare il numero delle nascite. Il metodo moralmente lecito è quello che il Papa chiama “paternità responsabile”, che consiste nel rispetto per il ciclo naturale di fertilità della donna[10]. Ma naturalmente dobbiamo chiederci: Perché è così? L’esercizio della sessualità è un’attività piacevole, allora perché non è lecito staccarla dalla possibilità del concepimento? Il mondo in cui il sesso sarà più accessibile non sarà dunque un mondo migliore, meno violento etc.?

Non si può dire che l’enciclica Humanae vitae sia stata accolta con entusiasmo. Naturalmente, non mancavano coloro che condividevano le argomentazioni del Papa (tra loro – cosa che può sembrare sorprendente per alcuni – vi era uno dei fondatori della Scuola di Francoforte: Max Horkheimer, che non era cristiano[11]), ma molti autori, tra cui diversi teologi, vedevano nell’enciclica di Paolo VI l’espressione di una concezione troppo naturalistica dell’uomo, che gli imporrebbe di sottostare alle regole che sono espressione della sua natura “animale”, mentre egli, in quanto essere libero, dovrebbe poter decidere da solo, liberamente e ragionevolmente – così si diceva – come vivere la sua sessualità. Vari teologi e semplici fedeli chiedevano: si deve davvero rispettare il ritmo naturale della fertilità quando si possiedono i mezzi per sospenderla quando si vuole e comunque godere della sessualità come espressione dell’amore?

Coloro che hanno avuto in mano il documento di Paolo VI sanno che si tratta di un testo piuttosto conciso (che è il suo vantaggio), e perciò il Papa non presenta in modo esaustivo la visione dell’uomo che sta alla base del suo insegnamento, né sviluppa un ragionamento articolato a favore della dottrina che proclama. D’altra parte la completa argomentazione a favore della norma proclamata non è il compito di questo tipo di documenti – anzi, essi devono esprimere in modo chiaro e inequivocabile, senza bisogno di ulteriori interpretazioni, qual è il magistero della Chiesa nella materia di cui si occupano. Tuttavia, ciò non significa che una giustificazione più profonda non sia necessaria. Si può dire che proprio con la sua teologia del corpo Giovanni Paolo II abbia risposto a questa esigenza. In essa, il Papa dimostra che il corpo non è semplicemente uno degli strumenti usati dalla persona per raggiungere i suoi scopi (potremmo dire: la prima cosa che una persona ha, possiede), ma che è la persona stessa, è il suo segno o, come dice il Papa, il suo “sacramento”[12]. Non è un caso che a qualcuno che tocca una parte del mio corpo posso dire per esempio: “Hai toccato la mia mano”, ma posso anche dire: “Mi hai toccato, hai toccato la mia persona”. Inoltre il corpo ha anche il suo linguaggio proprio, che non è un risultato delle nostre decisioni arbitrarie. Questo linguaggio – linguaggio del corpo, come dice il Papa – ha bisogno di essere imparato come qualsiasi altra lingua, e nel comunicare con gli altri dobbiamo rispettare le sue regole e i suoi significati. Sappiamo cosa significano certi gesti: un sorriso, una smorfia facciale, un bacio, una carezza. Chi ha considerato più profondamente il linguaggio del corpo, non sarà sorpreso dal fatto che anche l’atto sessuale abbia il suo significato nell’ambito di questo linguaggio (e, inoltre, vale la pena ricordare che il significato oggettivo e fondamentale della sessualità per la costituzione dell’identità umana non è stato studiato da nessun altro che da Sigmund Freud che certamente non può essere considerato un partigiano della morale sessuale insegnata dalla Chiesa cattolica). Naturalmente, possiamo usare il linguaggio del corpo in un modo che è incompatibile con i suoi significati, così come possiamo usare il linguaggio parlato per ingannare qualcuno. Non è un caso che si parli del “bacio di Giuda” come di un atto falso nella sua stessa essenza. Questo perché l’intenzione dell’autore (tradimento di Gesù da parte di Giuda) è contraria al significato oggettivo del bacio, che è espressione di simpatia, amicizia, amore. È difficile dire che chi commette l’atto della violenza sessuale rispetti il significato dell’atto sessuale all’interno del linguaggio del corpo, anche se l’autore di questo atto ottiene in questo modo il piacere sessuale. Ma è proprio il fatto che in questo caso notiamo spontaneamente una contraddizione tra il significato oggettivo dell’atto e il suo uso effettivo (come nel caso del “bacio di Giuda”) dimostra che siamo convinti dell’esistenza del linguaggio del corpo. Nella teologia del corpo Giovanni Paolo II cerca di mostrare i significati del linguaggio del corpo presenti nel rapporto tra uomo e donna. Nella storia umana, che dopo il peccato originale è la “storia del peccato”, “la storia segnata dal peccato”, questo rapporto è naturalmente segnato in modi diversi dalla debolezza umana, ma nonostante tutto, si può trovare in essa il senso comunionale della relazione uomo-donna che il Creatore ha inteso fin dal principio. La relazione sessuale non è altro che l’espressione e realizzazione di questo senso comunionale.

3. Tornare al “principio”

Come svelare dunque la “intenzione originaria” del Creatore in relazione al rapporto tra uomo e donna? Giovanni Paolo II trova una indicazione nel colloquio di Gesù con i farisei sull’indissolubilità del matrimonio, che è stato preservato nei Vangeli sinottici. In questa conversazione i farisei fanno riferimento all’autorità religiosa di Mosè stesso, che ha permesso al marito di inviare una lettera di divorzio alla moglie. Gesù, tuttavia, non accetta un simile atteggiamento. “A causa della durezza dei vostri cuori Mosè vi ha permesso di allontanare le vostre mogli, ma al principio non è stato così” – dice Gesù. La pratica del divorzio è dunque, secondo Gesù, il risultato del peccato, espressione dell’egoismo umano (e in questo caso maschile), e non riflette il piano di Dio per il matrimonio. Vale la pena notare, tra l’altro, che nel mondo ebraico e “pagano” di quei tempi il divorzio era una pratica comune e in questo senso la risposta di Gesù era senza dubbio controcorrente. Gesù non accetta come norma la pratica diffusa, non accetta l’argomento “tutti lo fanno oggi, tutti la pensano così”, ma ci dice di tornare al principio. Cosa è il principio? Tornare al principio significa tornare all’intenzione originaria di Dio in relazione all’uomo creato a sua immagine e somiglianza. “Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi” (cfr. Mt 19,4-6). Se è così, ciò significa che le prime persone, Adamo ed Eva, hanno vissuto il progetto originario di Dio nella sua pienezza, senza contaminazioni con il peccato. Seguendo questa indicazione, Giovanni Paolo II cerca di varcare la soglia del peccato originale a ritroso, tornando alla situazione della “innocenza originale”, cercando di scoprire l’intenzione originale del Creatore nell’esperienza dei primi genitori.

Tornare al principio significa quindi tornare all’atto della creazione e al progetto originario di Dio sul mondo e sull’uomo. Cosa dice questa operazione del “ritorno al principio” alle persone che vivono dopo il peccato originale, cioè a tutti noi? In primo luogo, ci dice che l’esistenza del mondo non è (esclusivamente) il risultato di un “big bang”. È il frutto dell’azione personale di Dio, che non deve creare, ma vuole creare. Per questo la creazione è il suo dono, è un dono del suo amore. Così – in termini dell’ermeneutica del dono – Giovanni Paolo II legge quello che i filosofi chiamano “la contingenza” del mondo, cioè il fatto che il mondo esiste, anche se non ha in sé sufficienti ragioni per la sua esistenza. In secondo luogo, l’ermeneutica del dono riguarda anche, e prima di tutto, l’uomo stesso. Prima di tutto perché l’uomo – e solo lui in tutta la creazione – è in grado di sperimentare la sua esistenza e l’esistenza del mondo come dono personale del Creatore, solo l’uomo in tutto il mondo visibile è persona e quindi solo lui può rispondere al dono di Dio con il linguaggio del dono. Nella mistica medievale troviamo l’idea che la prima espressione dell’amore di Dio è la gioia per il fatto che Egli esiste. Infatti, se Dio esiste, questo fatto cambia radicalmente tutta la nostra esperienza del mondo, dà senso al mondo, ci permette di viverlo come dono – e questa percezione è il motivo della nostra gioia. “Ti rendiamo grazie per la immensa gloria Tua”.

Chiediamo ora: Come riceve l’uomo il dono dell’esistenza da Dio Creatore? Lo riceve insieme al corpo; la nostra esistenza nella dimensione di questo mondo è l’esistenza nel corpo e attraverso il corpo. Già Aristotele scriveva: “La vita è l’esistenza di esseri viventi” (vivere viventibus esse): e la nostra vita è la vita di un corpo vivente. Il dono dell’esistenza non arriva a noi in nessun altro modo che con il dono del corpo. Ma dobbiamo aggiungere qui ancora qualcosa di più. Fin dall’inizio, il corpo non è semplicemente inteso genericamente, senza ulteriori qualificazioni, ma è un corpo maschile o femminile, un corpo sessualmente determinato. Nella teologia del corpo di Giovanni Paolo II, la sessualità non è solo un fatto biologico, ma è un dono che la persona umana riceve con il dono dell’esistenza data nel dono del corpo. Da questo punto di vista la differenza sessuale è il dono originale. Questo dono – mascolinità e femminilità – porta un messaggio specifico, contiene un senso specifico sulla base del quale si sviluppa l’iniziativa della libertà umana. Nel corso della sua storia, la persona umana al tempo stesso “è e diventa” un uomo e una donna in dialogo con il proprio corpo (oggi sappiamo bene che persino il funzionamento del cervello umano è differente a seconda dell’appartenenza sessuale). Se è così, l’atto fondamentale della libertà umana consiste nell’accettazione del dono del corpo nella sua mascolinità e femminilità e nello sforzo di comprensione del messaggio che vi è stato inscritto (ciò non deve contraddire l’affermazione, oggi diffusa, del carattere culturale della sessualità, ma significa che la cultura è – secondo l’etimologia della parola – la “coltivazione” razionale della natura, una lettura del suo significato e uno sforzo per realizzarlo nella vita umana, invece la cultura non deve essere un’operazione diretta contro la natura, ciò che accettiamo oggi senza grandi difficoltà nei confronti della natura non umana, quando parliamo dell’ecologia. È venuto il tempo di parlare pure dell’ecologia umana come fa Papa Francesco nell’enciclica Laudato si’[13].

4. Dalla solitudine alla comunità

Fin dall’inizio la Bibbia definisce l’identità umana come identità relazionale, cioè un’identità che si costituisce in relazione ad un altro essere umano e, soprattutto, in relazione ad una persona dell’altro sesso. “Non è bene che l’uomo sia solo, gli voglio fare un aiuto che gli sia simile” (Gen 1,18). Fermiamoci un po’ alla prima parte di questa frase: il primo uomo creato è solo. Cosa significa questa sua solitudine? Per Giovanni Paolo II, questa affermazione non ha soltanto il senso negativo (“non è buono”), ma anche positivo – la solitudine del primo uomo creato esprime il suo esistere “diversamente e in modo più alto” in rapporto con tutto il mondo visibile. Sebbene l’uomo sia stato fatto con la polvere della terra, non è in grado di identificarsi con essa, non è in grado di identificarsi con altri esseri viventi, è più simile al suo Creatore che al mondo creato. Nel mondo delle piante e degli animali, l’uomo è solo, perché è essenzialmente diverso da loro, e allo stesso tempo è posto al di sopra di loro – è Dio che affida all’uomo di dare i nomi alle creature, che nel linguaggio biblico è espressione della sua posizione privilegiata nel mondo.

Una seconda caratteristica, oltre alla solitudine originaria, definisce ulteriormente la situazione dell’uomo prima del peccato originale, ovvero l’“unità originaria” dell’uomo e della donna, che si esprime nella differenza sessuale. Nella cultura contemporanea non mancano teorie che considerano la differenza sessuale come secondaria, non appartenente alla definizione dell’uomo, o che addirittura parlano di una “guerra dei sessi”. Nella visione di Giovanni Paolo II la sessualità è una caratteristica essenziale dell’identità della persona umana, e la parola “complementarità” descrive il rapporto tra i sessi nel modo migliore. Per comprendere meglio l’originalità della narrazione biblica sul significato della differenza sessuale vale la pena confrontarla con un’altra bellissima narrazione sullo stesso argomento, che troviamo nel Simposio di Platone. Dal discorso di Aristofane apprendiamo che la natura originale “siamese” dell’uomo è stata divisa da Zeus per punizione. L’uomo al principio ha commesso qualche peccato e perciò per punizione Dio lo ha diviso in due, così che da quel momento le due metà si cercano. Dice Platone: “Dunque da così tanto tempo è connaturato negli uomini il reciproco amore degli uni per gli altri che ci riporta all’antica natura e cerca di fare di due uno e di risanare l’umana natura. Ciascuno di noi, pertanto, è come simbolo di uomo, diviso com’è da uno in due (…) E così ciascuno cerca sempre l’altro simbolo che gli è proprio”[14]. Vediamo che mentre nel racconto di Platone ciò che è originario non è la differenza tra i sessi ma l’unità che è stata successivamente divisa, nella storia biblica l’uomo fin dall’inizio è l’immagine di Dio nella sua differenza sessuale (“uomo e donna li creò” – dice la Bibbia), e anche se nella seconda storia della creazione in principio l’uomo è solo, questa solitudine originale non è una manifestazione della perfezione, ma di mancanza (“non è bene che l’uomo sia solo”). La differenza sessuale è quindi un dato antropologicamente primario. Nel contesto cristiano le affermazioni del Libro della Genesi acquistano una dimensione ancora più profonda, poiché l’uomo è qui visto come immagine di Dio, che non è solo, ma che è la comunità delle persone divine. Vale la pena citare l’eloquente commento di Giovanni Paolo II al racconto della creazione: “L’uomo diventa immagine di Dio non tanto nel momento della solitudine quanto nel momento della comunione. Egli, infatti, è fin ‘da principio’ non soltanto immagine in cui si rispecchia la solitudine di una Persona che regge il mondo, ma anche, ed essenzialmente, immagine di una imperscrutabile divina comunione di Persone”[15].

“Questa è, finalmente, l’osso delle mie ossa e carne della mia carne!” (Gen 2,23). Il fatto dell’“omogeneità somatica” tra uomo e donna (“carne della mia carne”) è, per il Papa, espressione della loro pari dignità. Entrambi, uomo e donna, sono stati creati, come dice il Papa, “sulla base della stessa umanità”, quindi sono entrambi uguali nella dignità di esseri umani. Le parole di Adamo esprimono allo stesso tempo la gioia di incontrare un’altra persona, la gioia del fatto che da allora lui non è più solo. Soltanto ora l’uomo può riflettere pienamente il suo prototipo: la comunione delle Persone divine. Abbiamo detto che la prima espressione dell’amore di Dio è la gioia della sua esistenza. Ora possiamo aggiungere che la stessa idea può essere trasferita alle relazioni interpersonali – la prima espressione dell’amore per l’altro è la gioia per il fatto che egli o ella esiste. Questa gioia è espressa nelle parole di Adamo: “Questa è, finalmente, l’osso delle mie ossa e carne della mia carne!”. Ricordiamo che il filosofo tedesco Josef Pieper, nel suo famoso libretto intitolato Sull’amore[16], proprio in questo modo ha definito il significato fondamentale dell’amore. Secondo lui, amare significa dire all’altro: “È bene che tu sia”.

Il terzo elemento dell’esperienza dell’uomo prima del peccato originale è la nudità originale. “Anche se l’uomo e sua moglie erano nudi, non ne provavano vergogna” (Gen 2,25). Questa nudità primordiale non è espressione del sottosviluppo dell’uomo, del suo rimanere – diremmo oggi – in uno stadio più basso di sviluppo evolutivo. Al contrario, essa è l’espressione di una piena comunicazione personale tra uomo e donna. Il corpo nella sua qualità sessuale è qui in un certo senso “trasparente”, la sessualità non focalizza l’attenzione esclusivamente su se stessa, ma “rivela la persona” di cui il corpo è un segno visibile. Tutto cambierà dopo il peccato originale, quando il corpo, a causa della sua qualità sessuale, diventa un “possibile oggetto d’uso” e quindi la persona inizierà a nascondere i suoi organi sessuali – non perché si vergogna di possederli, ma perché vuole essere vista principalmente nel suo valore di persona, e il suo essere persona si esprime principalmente nel suo volto e nel suo sguardo, ed è per questo che vogliamo per così dire distogliere gli occhi dell’altro dagli organi sessuali e dirigerli verso la totalità della nostra persona.

Nell’ermeneutica del dono sviluppata da Giovanni Paolo II il corpo fin dall’inizio ha il senso nuziale, cioè attraverso il corpo e nel corpo, uomo e donna si donano l’uno all’altro, diventando “una sola carne”. Potremmo dire: il corpo nella sua differenza sessuale ci viene dato proprio per poter esprimere il dono di sé nell’amore. Questo è anche il significato fondamentale dell’atto sessuale nel linguaggio del corpo. L’atto sessuale è espressione della comunione coniugale delle persone. L’atto sessuale dice: ti faccio il dono di me stesso (di me stessa) e ti accetto come dono. In questo modo i coniugi in un certo senso ridefiniscono le loro identità. Dal momento in cui fanno un tale dono nessuno di loro può dire chi è, nessuno può più sapere cosa vuole veramente senza pensare alla persona dell’altro. Possiamo dire che l’identità di ciascuno di loro è diventata identità comunionale, e questa loro comunione si esprime nell’esperienza di “una sola carne” propria dell’atto sessuale.

5. Intenzione e oggetto

Nell’enciclica Humanae vitae Papa Paolo VI sottolinea che la dimensione inseparabile dell’autentica comunione delle persone nell’esperienza di “una sola carne” è l’aprirsi al terzo (nel linguaggio dell’enciclica il significato unitivo dell’atto sessuale è inseparabilmente connesso con il suo senso procreativo). Questa affermazione deve essere compresa bene. Ciò non significa che in ogni atto sessuale i coniugi devono mirare ad avere figli. Se ci sono buone ragioni per farlo, possono voler evitare di avere un nuovo figlio (per esempio per ragioni economiche), adattandosi al ritmo naturale di fertilità della donna. Contrariamente alla convinzione abbastanza diffusa, nella valutazione morale dell’atto contraccettivo non è nemmeno decisiva la distinzione tra “artificiale” e “naturale”, se questa si riferisce esclusivamente ai mezzi utilizzati. Ciò che è invece decisivo è l’intenzione. Anche questa affermazione deve essere chiarita, perché a volte la si comprende male. Non si tratta dell’ulteriore intenzione con cui il soggetto compie l’atto (nel caso della contraccezione: per quale motivo vuole evitare la procreazione), ma dell’intenzione che definisce l’atto stesso (cioè non si tratta del “perché” faccio ciò che faccio, ma di ciò che faccio, che tipo di atto compio quando agisco. Per esempio: vediamo che una persona dà una certa somma di denaro ad un’altra persona. Quale tipo di atto ha compiuto? Lo possiamo sapere soltanto dalla sua intenzione fondamentale che definisce l’atto stesso. Forse ha restituito un prestito, forse ha dato un’elemosina o forse una bustarella. E se ha dato una bustarella, lo poteva fare per vari motivi, ma questi motivi costituiscono la sua intenzione ulteriore). È per questo motivo che Giovanni Paolo II afferma nel passo dell’enciclica Veritatis splendor citato nell’introduzione: “La moralità dell’atto umano dipende anzitutto e fondamentalmente dall’oggetto ragionevolmente scelto dalla volontà deliberata” (VS 78).

Elizabeth Anscombe nelle sue analisi della valutazione morale dell’atto di contraccezione sottolinea l’importanza fondamentale della distinzione tra due tipi di intenzione menzionati sopra[17]. Secondo l’autrice inglese, l’atto di contraccezione non è moralmente cattivo a causa dell’ulteriore intenzione del soggetto, ma a causa della intenzione fondamentale, che definisce l’oggetto dell’atto. Perché? L’atto, che per natura è un atto generativo, cessa di essere un atto generativo e diventa un altro tipo di atto, o, come dice Robert Spaemann, una simulazione di un atto che secondo la sua natura è legato al significato procreativo. Dice Spaemann:

"Se il telos naturale che definisce un atto è consapevolmente escluso, allora l’atto non è più quel particolare atto, ma solo la sua simulazione (…) La cultura umana non elimina la natura, ma la eleva al livello della persona. Gli atti personali che hanno il loro noema (significato) proprio, il senso che scaturisce dalla natura, diventano cattivi quando il piacere soggettivo che portano viene cercato attraverso la loro simulazione"[18].

Sottolineiamo: nel postulato di Paolo VI del rispetto della natura dell’atto coniugale non si tratta semplicemente di rispettare le regolarità naturali intese come regolarità biologiche (e in questo senso naturale, si potrebbe dire: biologico), ma di rispettare i significati inscritti nella natura dell’atto coniugale, della sua natura intesa nel senso filosofico (cioè si tratta del rispetto per il significato morale dell’atto), di rispettare la parola (noema), che gli sposi dicono nel linguaggio del corpo. Qual è il significato dell’atto coniugale? L’atto sessuale dice: io mi dono interamente a te e accetto te come dono alla mia persona. Quale parola si dice nell’atto di contraccezione? Io uso il tuo corpo per il mio piacere soggettivo, escludendo una dimensione essenziale dell’atto sessuale, cioè la sua potenziale generatività. Perciò ha ragione Livio Melina quando scrive: “L’apertura alla trasmissione della vita è garanzia della verità del significato unitivo dell’atto coniugale”[19].

Notiamo anche che se separiamo il piacere soggettivo dal senso oggettivo dell’atto sessuale sarà difficile sollevare obiezioni fondamentali ad altri modi di ottenere questo piacere, diversi dall’atto coniugale. In questo contesto vale la pena ricordare l’opinione del filosofo italiano Augusto Del Noce, che ancora oggi non ha perso nulla della sua rilevanza. Del Noce scrive: “Il nichilismo oggi corrente (…) intende l’amore sempre omosessualmente, anche quando mantiene il rapporto uomo-donna”[20]. Nella mentalità contraccettiva, in un certo senso, è la relazione omosessuale che diventa il modello di tutte le relazioni sessuali, comprese quelle eterosessuali, perché quando il suo senso unitivo è separato dal suo senso procreativo anche l’amore fra uomo e donna diventa sterile.

Credo che l’essenza della controversia attorno alla valutazione della contraccezione stia proprio qui. Si tratta della identità umana. La valutazione morale della contraccezione è intrinsecamente legata al concetto stesso di persona umana, al suo rapporto con il corpo, all’importanza che la natura ha per la persona. In sintesi, si può dire che la norma della Humanae vitae non è solo una norma che riguarda una parte – qualcuno potrebbe dire marginale – di etica sessuale, ma che in essa si decidono le questioni antropologiche ed etiche di base (rapporto anima-corpo, rapporto intenzione-oggetto dell’azione)[21]. Non è un caso che questi temi siano oggi oggetto di una vivace discussione non solo nella teologia morale cattolica, ma anche nella cultura occidentale in quanto tale.

  1. Cfr. Paolo VI, Lettera enciclica Humanae vitae, 25 luglio 1968, n. 13: “Un atto di amore reciproco, che pregiudichi la disponibilità a trasmettere la vita che Dio creatore di tutte le cose secondo particolari leggi vi ha immesso, è in contraddizione sia con il disegno divino, a norma del quale è costituito il coniugio, sia con il volere dell’Autore della vita umana. Usare di questo dono divino distruggendo, anche soltanto parzialmente, il suo significato e la sua finalità è contraddire alla natura dell’uomo come a quella della donna e del loro più intimo rapporto, e perciò è contraddire anche al piano di Dio e alla sua santa volontà”.

  2. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis splendor, 6 agosto 1993.

  3. G.E.M. Anscombe, Intention, Harvard University Press, Harvard 2000.

  4. Cfr. C. Caffarra, Giovanni Paolo II e l’Istituto per Studi su Matrimonio e Famiglia, in Id., Scritti su Etica, Famiglia e Vita, Cantagalli, Siena 2018, 210.

  5. Cfr. G. Weigel, What’s Changed Since Humanae Vitae?

    https://www.firstthings.com/web-exclusives/2017/11/whats-changed-since-humanae-vitae.

  6. Per un’analisi approfondita della relazione tra Humanae vitae e la rivoluzione sessuale: cfr. R. Buttiglione, “Riflessioni sul dibattito intorno alla enciclica Humanae vitae”, in Id., La crisi della morale, Dino Editore, Roma 1991, 41-130.

  7. Cfr. M. Eberstadt, How the West Really Lost God. A New Theory of Secularization, Templeton Press, West Conshohocken 2013.

  8. M. Eberstadt, The Prophetic Power of Humanae vitae, in https://www.firstthings.com/article/2018/04/the-prophetic-power-of-humanae-vitae.

  9. Cfr. Paolo VI, Humanae vitae, n. 12.

  10. Una eccellente presentazione e analisi dell’insegnamento di Paolo VI si può trovare in: L. Melina, “Maternità e paternità responsabili. La regolazione naturale della fertilità nel rispetto del linguaggio dell’amore”, in Id., Per una cultura della famiglia: Il linguaggio dell’amore, Marcianum Press, Venezia 2006, 148-159.

  11. Cfr. M. Horkheimer, Die Sehnsucht nach dem ganz Anderen, Furche, Frankfurt am Main 1970, 74.

  12. Per un ulteriore sviluppo della visione del corpo come sacramento: cfr. J. Merecki, “Il corpo, sacramento della persona”, in L Melina – S. Grygiel (a cura di), Amare l’amore umano. L’eredità di Giovanni Paolo II sul Matrimonio e la Famiglia, Cantagalli, Siena 2007, 173-185.

  13. Francesco, Lettera enciclica Laudato si’, 24 maggio 2015.

  14. Platone, Simposio, 191 D.

  15. Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò. Catechesi sull’amore umano, Città Nuova Editrice, Roma 1982, 59.

  16. Cfr. J. Pieper, Sull’amore, Morcelliana, Brescia 2012.

  17. Cfr. G.E.M. Anscombe, Una profezia per il nostro tempo: ricordare la sapienza di Humanae vitae, ed. S. Kampowski, Cantagalli, Siena 2018, 85s.

  18. R. Spaemann, Czyn a piękne życie (O pojęciu natury czynu) (L’atto e la vita bella. Sul concetto di natura dell’atto), in Ethos 33-34 (1996) 31-41.

  19. L. Melina, “La responsabilità procreativa nella visione cattolica”, in Id., Per una cultura della famiglia: il linguaggio dell’amore, Marcianum Press, Venezia 2006, 143.

  20. A. del Noce, Lettera a Rodolfo Quadrelli, riportata da M. Tringali, Augusto Del Noce interprete del Novecento, Le Château Edizioni, Aosta 1997, 142.

  21. Ha ragione l’autore polacco Tomasz Terlikowski quando scrive: “La risposta alla domanda se la Chiesa debba (…) cambiare la dottrina in materia o difenderla e proclamarla a tutti i costi contiene in sé anche risposte a molte altre questioni, già completamente dottrinali”: T. Terlikowski, Czego księża nie powiedzą ci o antykoncepcji? (Quello che i sacerdoti non ti diranno sulla contraccezione), Wydawnictwo W drodze, Poznań 2018, 8.

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Jarosław Merecki

Jarosław Merecki

Jarosław Merecki è sacerdote della Congregazione religiosa Societas Divini Salvatoris. Ha studiato teologia e filosofia in Polonia e Lichtenstein, conseguendo poi il dottorato all’Università Cattolica di Lublino sotto la direzione di Tadeusz Styczeń. Dopo alcuni anni da Ricercatore alla stessa Università, nel 2001 è venuto a Roma come professore all’Istituto Giovanni Paolo II, dedicato agli studi sul matrimonio e la famiglia. Dall’anno 2000 è Vice-direttore della rivista Ethos ed è membro del Comitato Scientifico della Cattedra Wojtyła presso l’Istituto Giovanni Paolo II.

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Il Veritas Amoris Project mette al centro la verità dell’amore come chiave di comprensione del mistero di Dio, dell’uomo e del mondo e come approccio pastorale integrale e fecondo.

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