Pensare la sinergia. La ricezione di Veritatis splendor alla luce della teologia di Joseph Ratzinger

Livio Melina

Testo originariamente presentato in spagnolo con il titolo “Pensar la sinergia. La recepción de la Veritatis splendor a la luz de la teología de Joseph Ratzinger” nel contesto della Giornata di Studio “La actualidad de Veritatis splendor. La regeneración del sujeto moral”, organizzata dalla Facoltà di Teologia San Dámaso, Madrid, il 20 aprile 2023.

L’intenzione ultima dell’enciclica Veritatis splendor, secondo l’interpretazione che ne diede Joseph Ratzinger, fu quella di contribuire al rinnovamento della teologia morale cattolica, che era stato auspicato dal Concilio Vaticano II, ma che poi rimase incompiuto, producendo anzi esiti che egli in una conferenza del 2004, non ebbe paura di definire “fallimentari”[1]. Il punto critico fu la contestazione dell’insegnamento di Humanae vitae e, in particolare l’assolutezza della norma morale che definisce la contraccezione come un atto intrinsecamente cattivo, contestazione che arrivò ad intaccare i fondamenti stessi della teologia morale, provocando una vera crisi (VS, n. 5).

Di per sé il nucleo dottrinale dichiarato del documento di papa Giovanni Paolo II è costituito dalla «riaffermazione – con l’autorità del successore di Pietro – dell’universalità e dell’immutabilità dei comandamenti morali e in particolare di quelli che proibiscono sempre e senza eccezioni gli atti intrinsecamente cattivi» (VS, n. 115). E tuttavia era convinzione profonda del Card. Ratzinger che per risolvere una tale questione di carattere normativo sui cosiddetti “assoluti morali”, era necessario ripensare i fondamenti teologici stessi della morale, e specificamente quelli cristologici e por mano al rinnovamento desiderato[2].

1.     Il rinnovamento teologico della morale secondo Joseph Ratzinger

Secondo il grande teologo bavarese da un lato occorreva superare il razionalismo della morale casistica post-tridentina, che finiva nell’eteronomia, per cui le norme venivano dedotte a partire da principi legalistici, quando addirittura nominalistici, astratti rispetto alla dinamica dell’agire; dall’altro occorreva evitare anche il dualismo della morale autonoma, che aveva fatto seguito al Vaticano II e che conduceva al soggettivismo e al relativismo. Entrambe le posizioni, eteronomia ed autonomia condividono un medesimo difetto di natura teologica: la separazione della morale dalla fede, che a sua volta è frutto dell’emancipazione della libertà dalla verità e dunque anche della negazione che esista una verità sul bene, iscritta nella creazione, di cui le norme morali sono espressione.

Le linee suggerite da Ratzinger, per una ripresa delle prospettive conciliari furono sostanzialmente due. Per un verso occorreva, sulla scorta della Gaudium et spes, ritrovare il respiro biblico della morale cristiana, ispirata dall’incontro con Cristo: non una serie di precetti, ma l’avvenimento di un incontro che mobilita la vita, destando l’amore, principio da cui ogni azione morale proviene. Per altro verso si trattava di operare un cambiamento nel concetto di ragione, capace di sfidare un contesto epistemologico post-metafisico, profondamente segnato da un evoluzionismo radicale, nel quale la ragione si chiude in sé stessa e diventa incapace di cogliere delle finalità iscritte nella natura.

La prima linea di rinnovamento biblico della morale, dopo un momentaneo entusiasmo, era sfociata in un’ancor più radicale marginalizzazione de jure della Sacra Scrittura, confinando lo specifico cristiano a livello di una ispirazione motivazionale trascendentale, ed attribuendo alla mera razionalità autonoma il compito di stabilire i contenuti categoriali dell’azione giusta da compiere[3]. D’altra parte, la linea della razionalità autonoma, staccatasi dalla metafisica e da una adeguata teoria dell’agire, aveva finito con l’adottare il criterio del calcolo proporzionalista delle conseguenze come misura della correttezza etica, in modo che nulla è più da considerare intrinsece bonum o intrinsece malum, perché tutto finisce col dipendere dal contesto e dalle finalità che devono essere realizzate.

Ecco dunque l’indicazione sintetica che il Cardinale prospettava ai teologi moralisti come loro compito precipuo, per realizzare il rinnovamento della disciplina, auspicato dal Vaticano II e riproposto dall’enciclica Veritatis splendor. Lo dico con le sue stesse parole, di un intervento del 1993: «La collaborazione dell’agire umano e dell’agire divino nella realizzazione piena dell’uomo: questo è appunto il problema soggiacente a tutta la morale cristiana»[4]. Dietro queste parole non è difficile scorgere lo sfondo patristico del concetto di “collaborazione” nell’idea di συνέργεια, che fu sviluppato in particolare da san Gregorio di Nissa, da san Giovanni Damasceno e soprattutto da san Massimo in Confessore[5]. Il concetto è stato recentemente ripreso nel documento della Congregazione per la dottrina della fede Placuit Deo del 2018, in cui si afferma che «nella vita di Gesù appare una mirabile sinergia dell’agire divino e dell’agire umano»; e questo è il principio cristologico che permette di evitare sia il neo-pelagianismo che il neo-gnosticismo, superando tanto le angustie casuistiche che le approssimazioni parenetiche di una morale troppo spiritualista.

Pensare la sinergia consente di evitare l’estrinsecismo dell’azione rispetto alla grazia e quindi un’eteronomia che umilia l’humanum, ma anche nello stesso tempo la pretesa di un’autonomia, che sconfina in un nuovo pelagianesimo. L’intuizione della sinergia si collega da vicino alla celebre riflessione di Hans Urs von Balthasar alla Commissione Teologica Internazionale nel 1974, col titolo di Nove tesi sull’etica cristiana, nella quale il teologo svizzero con una meditazione cristologica ispirata a Massimo il Confessore, mostrava il superamento nel Figlio di Dio fatto uomo della dialettica moderna di “heteros” / “heteron[6]. Tuttavia in quel testo il concetto chiave era ancora quello di “norma categoriale concreta e personale”, mentre nella proposta di Ratzinger la questione viene focalizzata sulla soggettività personale di Cristo e del cristiano, consentendo quindi un’impostazione centrata sul dinamismo dell’agire.

Una simile questione è per Ratzinger decisiva non solo per la dottrina, ma anche per la prassi concreta dei cristiani, tanto che egli, in uno dei suoi ultimi scritti come papa emerito, non esita ad attribuire al collasso della teologia morale e alla negazione del valore assoluto delle norme morali negative una delle cause che ha portato al dramma degli abusi sui minori che affligge ancor oggi la Chiesa[7].

La prospettiva suggerita della sinergia implica non solo una riflessione antropologica, ma anche una cristologia, che sia centrata sul dinamismo dell’agire di Cristo e del cristiano, e che faccia tesoro della mirabile armonia tra il divino e l’umano che vi si manifesta. E’ certo che Ratzinger non ha sviluppato una tale riflessione in modo sistematico e organico. Egli ne ha tuttavia indicato gli elementi essenziali.

In questo mio contributo vorrei indicare tali elementi, a livello di teologia della creazione, di cristologia e di ecclesiologia, delineandone un abbozzo di impronta trinitaria, capace di ispirare un rinnovamento dei fondamenti della teologia morale. In un momento successivo e conclusivo farò riferimento critico alle recenti tendenze, emerse dopo la pubblicazione dell’esortazione apostolica Amoris laetitia, che mirano ad introdurre un “cambiamento di paradigma”, mettendo da parte l’insegnamento di Veritatis splendor. Il pensiero teologico di Joseph Ratzinger sarà utile per una adeguata valutazione critica della loro coerenza col rinnovamento conciliare.

2.     Sinergia col Creatore: la legge naturale

Cruciale per il confronto con l’epoca moderna è, secondo Ratzinger, il tema della libertà, che appare anche alla coscienza dell’umanità attuale come il bene più alto, al quale tutti gli altri devono essere subordinati[8]. Particolarmente sospetto è invece, per la cultura contemporanea, il ricorso alla nozione di verità, che sembra lo strumento per opprimere la libertà, così che lo scetticismo per quanto supera l’esperienza empirica, alimentato dalla supremazia epistemologica delle scienze della natura, pare unica garanzia di rispetto e di convivenza sociale. Il percorso storico che va da Lutero a Kant, con l’emancipazione della coscienza religiosa e della ragione da ogni autorità esterna, prosegue poi nell’Illuminismo prima in forme moderate di programmi politici costituzionali, ma poi sfocia con Rousseau nell’anarchia di una libertà totale, senza regole, e, ai nostri giorni nell’idea di Jean-Paul Sartre di una completa separazione tra libertà e verità, per cui il presupposto della libertà diventa per l’uomo non avere più natura alcuna.

Ratzinger osserva che una tale idea radicale di libertà ha dato origine alle tragedie del secolo scorso: è diventata un idolo diabolico, che conduce l’uomo – come lo stesso Sartre acutamente ha visto – ad un’esistenza di autocontraddizione, che chiamiamo inferno, perché infatti per una libertà simile “l’inferno sono gli altri”.  È dunque falsa la concezione di una libertà che dissolve le norme. La vera libertà invece è essenzialmente legata al criterio della realtà e della verità. E’ libertà condivisa, dunque, che viene dall’essere insieme di uomini liberi che si riconoscono reciprocamente, per i quali il diritto non è un limite estrinseco, ma il fattore costitutivo di una responsabilità, nei confronti dell’essere che ci precede e che ci chiede una risposta adeguata. La libertà autentica, realistica, non illusoria e distruttiva, è quella che corrisponde al nostro essere, che agisce come risposta a ciò che siamo in verità.

Non l’anarchia del volere qualsiasi cosa, ma il giudizio della ragione è dunque la radice della libertà, come qualità di una volontà in armonia con la realtà delle cose[9]. Per questo occorre «allargare i confini della ragione, recuperare la sensibilità per la verità, invitare la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio»[10]. La realtà non è solo materia, puro materiale privo di ordine e di senso, a disposizione dei desideri e dei progetti soggettivi[11]. Allargare i confini della ragione significa superare la sua riduzione utilitarista e proporzionalista e ritrovare la fiducia di poter conoscere un ordine oggettivo e finalistico delle cose.

La libertà, per essere autentica, deve riconoscere di essere preceduta da una verità e deve mettersi in armonia con essa: si tratta della verità dell’essere, che procede dal disegno sapiente e provvidenziale del Creatore. Una teologia della creazione consente di fondare adeguatamente la sinergia tra l’agire umano e Dio Creatore e Provvidente[12]. Si ritrova così anche il concetto di natura e quindi anche la possibilità di parlare di legge naturale. Infatti in tale prospettiva la natura non è né quella dell’oggettivismo e del razionalismo filosofico della neo-scolastica, né quella del fisicismo delle scienze umane. E’ la natura della creazione, che porta in sé l’impronta del Logos, un ordine di fini ed un messaggio morale, che corrisponde col linguaggio della coscienza dell’uomo[13].

Ratzinger riconosce l’apporto della storia alla conoscenza della verità, dal momento che l’essere umano è sempre in cammino e la sua ragione ha bisogno di tempo e di lavoro comune con altri per poter avanzare. In tal senso la fede nel progresso non è totalmente falsa, mentre invece è falso il mito di un mondo futuro liberato e pienamente buono. Nella storia ci saranno sempre un progredire ed il rischio di retrocedere, per cui la ragione umana dovrebbe congedarsi dal sogno illusorio di un’assoluta autosufficienza e cercare sostegno nelle grandi tradizioni sapienziali e religiose. In tale impresa si genera la cultura morale dell’umanità, che può trovare stabilità di contenuti veritativi, dal momento che la ragione è capace di cogliere la verità nel disegno sapiente della natura creata.

La legge naturale non va dunque concepita come un codice di leggi dedotte a priori da un’essenza umana immutabile, conosciuta metafisicamente, ma piuttosto come la luce che illumina la ricerca umana del bene, in alleanza con la Sapienza del Creatore[14].

Veritatis splendor afferma che nel comprendere il rapporto tra libertà e natura e nelle questioni della legge naturale, «un posto particolare ha il corpo umano». Infatti «la persona umana, incluso il corpo, è affidata interamente a sé stessa, ed è nell’unità di anima e di corpo che essa è il soggetto dei propri atti morali. La persona, mediante la luce della ragione e il sostegno delle virtù, scopre nel suo corpo i segni anticipatori, l’espressione e la promessa del dono di sé, in conformità col sapiente disegno del Creatore» (VS, n. 48). Il testo dell’enciclica è denso e ricco di implicazioni. Esso fa riferimento implicito a quel “linguaggio del corpo” di cui parlavano le Catechesi sull’amore umano nel piano divino di san Giovanni Paolo II. Esistono dunque dei significati primordiali del corpo umano, che vengono rivelati nell’esperienza originaria delle relazioni, che il corpo manifesta e permette. San Giovanni Paolo II aveva sottolineato soprattutto il significato unitivo e generativo del corpo dell’uomo e della donna, nel quale la differenza sessuale, costitutiva dell’immagine creaturale, si apre al dono di sé e alla fecondità di una nuova vita.

Papa Benedetto XVI ha sottolineato un altro aspetto decisivo, nel suo importante discorso del 13 maggio 2011: «il corpo, nel rivelarci l’Origine, porta in sé un significato filiale, perché ci ricorda la nostra generazione, che attinge, tramite i nostri genitori, che ci hanno trasmesso la vita, a Dio Creatore». Il senso filiale del corpo nasce dall’unione coniugale nella differenza sessuale, e la apre oltre sé stessa alla comunicazione della vita[15]. E’ solo nell’unità dei tre significati: filiale, unitivo e generativo, e nel rispetto di ciascuno di essi, che il corpo può esprimere il linguaggio dell’amore. Nel corpo è inscritta dunque una grammatica che regola le relazioni costitutive, che danno origine alla famiglia e quindi alla socialità umana. Negare con la contraccezione, l’apertura alla vita della sessualità coniugale, sostituire con una tecnica riproduttiva l’origine coniugale della vita umana, non riconoscere il disordine intrinseco delle relazioni omosessuali, che prescindono dalla differenza del corpo maschile e femminile, significa portare un attacco al senso originario del corpo e alle basi della famiglia, cellula della società umana.

Nell’ultimo dei suoi grandi discorsi come Papa, quello per gli auguri natalizi alla Curia romana del 21 dicembre 2012, papa Benedetto XVI, affermò che con la nuova filosofia della sessualità, che va oggi sotto il lemma del “gender” non è in questione solo la famiglia come forma storica della vita sociale, ma l’essere umano stesso. «L’uomo contesta, infatti, di avere una natura precostituita dalla sua corporeità… contesta la propria natura. Egli è ormai solo spirito e volontà. La manipolazione della natura, che oggi deploriamo per quanto riguarda l’ambiente, diventa qui la scelta di fondo dell’uomo nei confronti di se stesso. Esiste ormai solo l’uomo in astratto, che poi sceglie per sé autonomamente qualcosa come sua natura. … Dove la libertà del fare diventa libertà del farsi da sé, si giunge necessariamente a negare il Creatore stesso e con ciò, infine anche l’uomo quale creatura di Dio».

Nelle parole di papa Benedetto XVI diventa chiaro che in queste tendenze antropologiche, che oscurano, deformano o addirittura negano i significati costitutivi del corpo e che sul piano morale rifiutano il valore normativo della sua grammatica, in favore di un’autonomia, egli vedeva manifestarsi tratti di matrice gnostica, che disprezzano la carne, nella sua qualità di opera sapiente del Creatore. Al contrario, il riconoscimento che il corpo ha in sé un linguaggio, che precede l’azione orientando l’agire ai beni umani, per un verso esprime il realismo di una concezione della libertà radicata nella carne e per altro verso ne manifesta la dimensione relazionale, per cui essa si compie nella comunione e non nell’isolamento.

3.     Sinergia con Cristo: il dinamismo della carità e delle virtù

La sinergia col Creatore, mediante il riconoscimento della legge naturale, si compie nella storia della salvezza come sinergia con Gesù Cristo, Figlio eterno del Padre. Il Cardinale Ratzinger, nel presentare l’enciclica ha sempre sottolineato l’importanza del primo capitolo, che è di natura cristologica: infatti è nel dialogo del giovane ricco con Gesù, “Maestro buono” (Mt 19) che la domanda morale sul bene da compiere trova la sua ermeneutica definitiva[16]. L’avvenimento dell’incontro vivo e personale con Cristo presuppone l’intera storia della salvezza e la riassume in sé. Egli in persona è l’interpretazione autentica della Torah, anzi è la Torah vivente, fondamento di ogni morale cristiana. Ma Gesù non è appena un Maestro, che spiega la Legge, ma di quella Legge è il compimento stesso, così da poter chiedere una sequela incondizionata[17].

Gesù è detto dall’enciclica, con formula presa da sant’Ambrogio “plenitudo legis” (VS, n. 15)[18], “legge vivente e personale”, proprio in quanto compimento della Legge. Si riecheggia qui la forte concentrazione cristologica balthasariana della morale cristiana, in risposta all’obiezione di Lessing che non si potrebbero fondare verità di carattere universale e assoluto su fatti storici contingenti. Il punto cruciale della morale cristiana è dato dal nucleo stesso della confessione di fede: Cristo «ha vissuto in un’esistenza umana del tutto simile alla nostra, la sua obbedienza eterna di Figlio alla volontà del Padre»[19]. Per questo in Lui si danno simultaneamente universalità e concretezza storica e chi crede in Lui può assumerlo come forma normativa insuperabile per la vita morale. La inclusione del cristiano in Cristo permette di superare ogni eteronomia e di vivere il rapporto con la volontà del Padre, espressa nella Legge Santa di Dio, in modo filiale, mediante lo Spirito Santo.

In piena sintonia, Ratzinger afferma che la fondazione cristologica garantisce ad un tempo la ragionevolezza dell’etica cristiana, dal momento che Cristo è il Logos, e la sua novità specifica. Come Maestro, Gesù, nel Discorso della Montagna (Mt 5-7), porta a compimento il Decalogo nella legge nuova dell’amore, per un verso radicalizzando le esigenze dei comandamenti, per altro verso interiorizzandole: essi non sono appena un limite da non oltrepassare, ma una strada di perfezione da percorrere[20]. Il compimento che Gesù opera della legge è però un “compimento vivo”, in quanto la sua stessa persona è la legge nuova vivente e personale (VS, n. 15). Le Beatitudini, con cui si apre il discorso della Montagna, non hanno come oggetto norme particolari, ma offrono la prospettiva nuova dell’amore per interpretare il senso dei comandamenti: «Nella loro profondità originale esse sono una specie di autoritratto di Cristo»: l’enciclica fa sue qui, al n. 16, parole che già aveva usato il Cardinal Ratzinger[21].

Veritatis splendor formula il suo cristocentrismo in un testo di grande densità teologica, che collega intimamente il tema della assolutezza e dell’immutabilità delle norme morali alla fede in Cristo. Al n. 53, citando il Concilio Vaticano II, essa dice che: «”la Chiesa afferma che al di sotto di tutti i mutamenti ci sono molte cose che non cambiano; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli” (Gaudium et spes, n. 10). È lui il Principio, che, avendo assunto la natura umana, la illumina definitivamente nei suoi elementi costitutivi e nel suo dinamismo di carità verso Dio e verso il prossimo».

La possibilità di un assoluto nella storia è dunque fondata proprio sul principio cristologico del Verbo eterno di Dio che si fa carne. Particolarmente importante è la citazione in nota di un testo del trattato sulla legge nuova della Summa Theologiae di san Tommaso d’Aquino, laddove si risponde alla questione se la legge nuova dello Spirito debba esprimersi mediante atti esteriori, contenendo divieti assoluti al riguardo, oppure se debba limitarsi ad istruire sulle intenzioni interiori, relativizzando le norme e i sacramenti. Il Dottore Angelico argomenta in favore dell’implicazione anche di atti esteriori, e lo fa riferendosi al cuore stesso del dogma cristiano: “Il Verbo si è fatto carne” (Gv 1,14), vivendo così la pienezza della Legge, in una carne filiale pienamente umana.

Nel corpo filiale di Cristo trova fondamento un ordine di relazioni, in cui l’eterno si esprime nel tempo. E’ dunque attraverso atti esteriori, cioè mediante i sacramenti, che Cristo ci comunica la sua grazia, ed è parimenti necessario che la sua grazia si manifesti anche nel nostro corpo mediante atti esteriori, coerenti con la carità e le virtù. Negarlo sarebbe cadere in una sorta di docetismo morale, simile a quello di chi pensa di poter affermare di conoscere Cristo, senza osservare i suoi comandamenti (cf. I Gv 2, 4-5). In realtà chi nega il valore dei comandamenti, non riconosce nemmeno Cristo venuto nella carne[22].

Da parte sua Ratzinger ribadisce che le norme morali non possono essere considerate dei semplici ideali, che ispirano l’agire, ma che andrebbero poi sempre adattate in un situazionismo etico: Egli non solo afferma che si danno norme morali negative, immutabili e senza eccezioni, le quali proibiscono quanto è contrario ai comandamenti; ma segnala anche che le tendenze che negano gli assoluti morali e che vengono confutate nella seconda parte dell’enciclica Veritatis splendor, in realtà colpiscono al cuore la fede cristiana[23].

L’incorporazione in Cristo, mediante la fede e i sacramenti, permette di pensare alla legge nuova dello Spirito come al dinamismo per cui, nella carità, il cristiano partecipa alle virtù stesse di Cristo[24]. Se la carità è la pienezza della legge, essa tuttavia ha bisogno delle differenti virtù morali, per potersi esprimere a livello dei beni umani oggetto delle scelte.

4.     La sinergia con lo Spirito: la coscienza e la dimensione ecclesiale della morale

È tema prediletto del Card. Ratzinger rimarcare l’intima connessione della fede con la morale. Egli nota come prima ancora che la parola “cristiani” fosse coniata, il termine usato dagli Atti degli Apostoli, almeno sei volte, per definire la religione dei seguaci di Gesù Cristo, sia stato semplicemente “la via”, οδός (cf. At 22, 4): così come Egli stesso si era definito la Via, che porta al Padre (Gv 14, 6). Ciò significa che il cristianesimo indicava prima di tutto una determinata maniera di vivere[25]: non appena una serie di ideali indistinti, ma una “forma di vita” ben identificabile, anche mediante criteri esterni di visibilità, così come testimonia l’antichissima Lettera a Diogneto.  Egli richiama anche che nell’istruzione battesimale dei catecumeni, testimoniata dall’apostolo Paolo nella lettera ai Romani, al kérygma era associata la trasmissione di un τύπος διδαχή (cf. Rm 6, 17): l’annuncio non è astratto, ma implica l’adesione ad una “forma di vita”, così che la confessione di fede viene ad avere un aspetto narrativo, che è la morale[26].

Se è vero che tanto nel contenuto del Decalogo quanto nell’esortazione apostolica, alcuni elementi morali di legge naturale sono comuni al contesto culturale è altrettanto vero che il processo di assimilazione storica implica non solo una cernita decisamente critica, ma anche una configurazione globale nuova, in cui le istanze dell’etica umana sono recepite, corrette, chiarite, ricevendo infine una forma nuova e specificamente cristiana[27].

La morale cristiana dunque ha una dimensione costitutivamente ecclesiale: non è un codice di comportamento individuale ed interiore, ma una forma visibile di etica comunionale, in cui i fedeli condividono lo stile di vita di Cristo e degli Apostoli. Il contenuto fondamentale della successione apostolica consiste nella delega, garantita dall’assistenza dello Spirito Santo, alla tutela della fede apostolica, a cui appartiene anche la dottrina e la tradizione di una prassi coerente[28]. Ratzinger osserva che perciò la tradizione cristiana si oppone radicalmente all’idea di una prassi, che vuole dapprima creare fatti e poi, tramite essi, produrre verità. Così, «i valori fondamentali dell’uomo, che essa (la Chiesa) conosce guardando all’esempio di Gesù Cristo, sono sottratti a qualsiasi manipolazione»[29].

Il Magistero è il dono permanente di Cristo alla Chiesa, che ha il compito di custodire e garantire la continuità della dottrina apostolica. I pastori, assistiti dallo Spirito, sono testimoni dei “mores” della Chiesa, in un dialogo costante con l’esperienza vissuta della Chiesa universale. La fede degli Apostoli, così come appare ad esempio nei primi due capitoli della lettera ai Romani, ha grande stima nella ragione e nella sua capacità di verità. Ciò implica al tempo stesso la costanza dei contenuti della verità, che si accorda con la costanza della fede. In tal modo tutta quanta la Chiesa si situa con criteri sicuri nel processo di assimilazione di quello che è veramente ragionevole e di rigetto di ciò che è ragionevole solo in apparenza.

Non mi è possibile in questo contesto, soffermarmi adeguatamente sul tema specifico e delicato della coscienza, cui il Card. Ratzinger ha dedicato pagine magistrali e che è al cuore di una chiarificazione specifica di Veritatis splendor. Sarà sufficiente indicare la linea fondamentale di riflessione teologica da lui proposta[30]. Egli prende le mosse  dalle aporie di una coscienza erronea, che diventa quel “guscio della soggettività” che ci dispensa dalla verità.

Egli segue la grande lezione del Card. John Henri Newman[31], il quale, contro ogni relativismo e soggettivismo, ma anche contro ogni autoritarismo, vede nella coscienza il santuario dell’incontro con la verità, sia quella che proviene dalla luce naturale impressa dal Creatore, sia quella della Rivelazione. Per questo, se è giusto «brindare prima per la coscienza e solo dopo per il Papa», va anche richiamato che rifiutarsi di vedere la verità di Dio, sottraendosi ad essa per pigrizia, per conformismo o per interesse egoistico e di gruppo, è il primo e più grave peccato La coscienza non può essere dunque confusa con un oracolo infallibile e inappellabile, ma dev’essere formata all’ascolto docile e umile della Verità.

La sinergia con lo Spirito Santo, che si realizza nel santuario intimo della coscienza, ha pertanto una dimensione ecclesiale, che permette di verificare le ispirazioni soggettive (I Gv 4, 3). Radicata nel corpo, la coscienza è in noi la voce dell’essere, del Creatore, ed è la voce di Cristo, che ci ha rivelato il Padre e la sua santa volontà. È anche la voce dello Spirito, che ci parla nel corpo ecclesiale, mediante i Pastori e mediante i fratelli, ispirandoci nel discernimento del bene, con l’avvertenza che non può essere lo Spirito buono quello che contraddice agli insegnamenti della Tradizione o del Magistero, in particolare sui comandamenti di Dio[32].

5.     Il “nuovo paradigma” e la sinergia

Giunti ormai al termine della nostra riflessione, chiediamoci: che ne è dell’auspicato rinnovamento nella più recente teologia morale? Come valutarne le proposte nella luce della sinergia, che Ratzinger invitava a pensare? Innanzitutto va osservato con preoccupazione un dato di fatto: negli ultimi anni, Veritatis splendor sembra dimenticata dal Magistero: non ne sono stati ricordati il 25° anniversario, non è stata citata nei documenti vaticani; addirittura si è evitato di menzionarla in una citazione volutamente tronca di Amoris laetitia. Ai Dubia dei quattro cardinali Burke, Caffarra, Brandmüller e Meisner, che vertevano sulla coerenza dell’insegnamento di Amoris laetitia con Veritatis splendor, non è stata mai data risposta.

A livello di discussione teologica si parla invece apertamente di un “cambiamento di paradigma”, introdotto dall’esortazione apostolica di papa Francesco, che dando il primato alla pastorale sulla dottrina e superando il rigorismo, permetterebbe di applicare gli insegnamenti di Humanae vitae e del precedente magistero ecclesiale con flessibilità[33]. Un recente volume edito dalla Pontificia Accademia per la Vita[34] sostiene come espressione del “progresso teologico” auspicato l’andare oltre l’osservanza letterale della norma (TB 172-173) insegnata finora dal Magistero, che ha definito come atti “intrinsecamente cattivi” la contraccezione e la procreazione artificiale, anche omologa, che prescinde dall’atto coniugale. In esplicita contraddizione con l’enciclica di san Giovanni Paolo II Veritatis splendor (cf. n. 78), gli autori affermano che non è possibile specificare moralmente un atto solo per il suo oggetto, ma che occorre considerare anche la singolarità delle circostanze e l’intenzione soggettiva di chi agisce e applicano questo principio anche agli atti intrinsecamente cattivi (TB 126-130).

Il nuovo paradigma pretende di corrispondere al “personalismo” promosso dal Concilio Vaticano II, perché valorizzerebbe il ruolo decisivo della coscienza rispetto alla norma nel discernimento concreto delle azioni. Al numero 109 del “Testo Base” incluso nel volume, vengono espressi i due tratti caratterizzanti, che riguardano in primo luogo il primato dell’ermeneutica nel nesso inscindibile tra antropologia ed etica, e in secondo luogo una nuova concezione della coscienza, nel nesso tra norma, discernimento e coscienza stessa.

Viene pertanto adottato quello che Cornelio Fabro chiamava il “principio di immanenza” caratteristico della modernità, che consiste nella scelta di pensare l’essere dall’interno della coscienza, cioè dell’esperienza e della storia, per cui non sarebbe possibile accedere alla verità in quanto tale, perché ogni verità conosciuta è appresa solo in quanto è pensata dal soggetto[35]. In forza di questa co-implicazione della coscienza del soggetto, l’essere che viene conosciuto non è l’essere come tale, ma solo l’essere della coscienza, che resta chiusa in se stessa e non giunge alla realtà delle cose. Il primato dell’ermeneutica, che qualifica il nuovo paradigma, non incide solo sul piano speculativo, ma determina anche una nuova concezione della razionalità pratica e, in particolare, della legge naturale[36]. Quest’ultima risulta dunque non solamente interna alla coscienza, ma anche risolta in un continuo esercizio di interpretazione, che ne dissolve la funzione di regolazione oggettiva dell’agire. L’assunzione del soggetto storico come orizzonte insuperabile della comprensione, porta ad una dissoluzione della verità morale nel processo storico in cui viene mediata.

L’asserito personalismo di questa reinterpretazione della legge naturale, rifiutando una concezione “data una volta per tutte”, finisce coll’identificare riduttivamente il soggetto morale con la sua coscienza (cf. TB 110-114), risolvendo in essa ogni dato previo, che possa essere oggetto di conoscenza veritativa e normativa. Si tratta di una vera e propria ipertrofia della coscienza. Così, mentre si accoglie lo schema della manualistica post-tridentina, che oppone legge e coscienza in una dialettica sistemica, si pensa di risolverne la contrapposizione mediante un assorbimento della norma nella coscienza stessa. In un primo momento si raccomanda “una circolarità virtuosa la coscienza e la norma”, che apre al superamento della distinzione rigida tra oggettività e soggettività, ma in un secondo momento si afferma finalmente che la legge senza la coscienza non ha un senso compiuto, e quindi la coscienza prevale sempre sulla norma, perché “soltanto la coscienza dell’agente morale può formulare la norma concreta per l’azione”.

E proprio qui si manifesta il punto più critico della proposta del “nuovo paradigma”. In nome di un personalismo equivoco e di un primato della coscienza esso nega la possibilità che si diano nella vita morale degli assoluti, cioè delle norme morali negative che per il loro contenuto intenzionale oggettivo sono incompatibili col bene della persona, cioè con le virtù morali e con la carità.

Un concetto chiave, che caratterizza il “nuovo paradigma”, è quello di “bene possibile” (TB  104. 129), che era stato usato anche nell’esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia (n. 308).  Si tratta di una nozione altamente problematica, che necessita di una chiarificazione. Da un lato, infatti essa esprime l’idea del tutto tradizionale che solo ciò che è possibile può essere un bene che obbliga (ad impossibilia nemo tenetur). D’altra parte però, quando viene usata, come è il caso del Testo Base, in riferimento ad asseriti conflitti di norme, per affermare che esse costituirebbero solo un ideale troppo difficile da chiedere, allora, come è stato giustamente osservato, «si corre il rischio di fare del bene possibile il secondo nome del male»[37].

Conclusione

Possiamo ora concludere. L’enciclica Veritatis splendor, respingendo l’idea che i comandamenti di Dio, anche nelle loro proibizioni assolute, siano da interpretare solo come un ideale, da modulare secondo le situazioni e le possibilità di ciascuno, riconosce che «l’osservanza della legge di Dio in determinate circostanze può essere difficile, difficilissima: non è mai però impossibile» (VS, n. 102). E tuttavia, appoggiandosi sull’insegnamento del Concilio di Trento e sull’autorità di sant’Agostino, afferma che «solo nel mistero della Redenzione di Cristo stanno le concrete possibilità dell’uomo» (VS, n. 103), cui «è sempre aperto lo spazio spirituale della speranza, con l’aiuto della grazia divina e con la collaborazione della libertà umana».

Incontriamo qui nuovamente il concetto di “sinergia” da cui eravamo partiti e che è stato il filo rosso della nostra riflessione sul pensiero di Joseph Ratzinger sul rinnovamento della teologia morale auspicato da Veritatis splendor. In realtà ciò che smarrisce il sedicente “nuovo paradigma” è proprio il mistero dell’agire morale:

Da un lato infatti non scorge la mirabile sinergia dell’agire divino con l’agire umano, che nella teologia della creazione, fondata cristologicamente e pneumatologicamente, supera la separazione tra libertà e verità, ed evita quell’autonomia morale, che è espressione di un nuovo pelagianesimo. Un pelagianesimo al ribasso, quello del “bene possibile” con le sole forze umane del soggetto.

D’altro lato smarrisce anche quel nesso intimo tra la persona e il suo atto, per cui il soggetto agente, mediante le sue libere scelte non solo produce mutamenti nel mondo esteriore, ma muta sé stesso, in qualche modo generando la propria identità etica[38]. Le norme morali non sono ingiunzioni di un’autorità arbitraria o sintesi di esperienze storico culturali limitate, ma espressioni di una verità sul bene. Di qui traggono la loro forza imperativa. A questo proposito suonano ammonitrici le parole di Gesù: «che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?». È a tale livello che si comprende la radicalità del valore morale e si giustifica l’assolutezza delle norme morali negative. Proprio di fronte ad esse emerge il “caso serio della vita”, per il quale si può anche essere chiamati alla testimonianza suprema del martirio[39].


[1] J. Ratzinger, “Il rinnovamento della teologia morale: prospettive del Vaticano II e di Veritatis splendor”, in L. Melina – J. Noriega (a cura di), Prospettive della teologia morale a partire da Veritatis splendor, Lateran University Press, Roma 2004, 35-45.

[2] Ho trattato la questione con riferimento al dibattito teologico della morale nel recente mio articolo: “Cristocentrismo e assoluti morali nell’enciclica Veritatis splendor”, in Scripta Theologica, vol. 55 (2023), 127-163.

[3]  Nello scritto postumo di papa Benedetto VI questo giudizio è riferito al percorso intellettuale del moralista gesuita Bruno Schüller, della Facoltà di Francoforte: Benedetto XVI, Che cos’è il cristianesimo. Quasi un testamento spirituale, Mondadori, Milano, 2023, 145-146.

[4] Si tratta dello scritto: “Genesi e contenuti essenziali dell’enciclica Veritatis splendor”, ora compreso nel volume: J. Ratzinger, La via della fede. Le ragioni dell’etica nell’epoca presente, ed. Ares, Milano 1996, 91-104, qui: 96.

[5] Cf. T. Špidlík, “Synergie”, in Dictionnaire de Spirtualité 14, 1412-1422. Un pregevole studio su san Massimo è: L. Granados, La synergia en San Máximo el Confesor. El protagonismo del Espíritu Santo en la acción humana de Cristo y del cristiano, Cantagalli, Siena, 2012. Il termine greco viene talvolta espresso nella forma di συνέργια o anche di συνεργία, con lo stesso significato.

[6] H.U. von Balthasar, “Nove tesi sull’etica cristiana”, in J. Ratzinger – H. Schürmann – H.U. von Balthasar, Prospettive di morale cristiana. Sul problema del contenuto e del fondamento dell’ethos cristiano, Città nuova, Roma 1986, 59-79.

[7] Benedetto XVI, “La Chiesa e lo scandalo degli abusi sessuali”, in L. Melina – T. Rowland (a cura di), Chiesa sotto accusa. Un commento agli Appunti di Benedetto XVI, Cantagalli, Siena 2020, 21-43.

[8] J. Ratzinger, “Libertà e verità”, in La via della fede, cit., 13-36.

[9] San Tommaso d’Aquino, De veritate, q. 24, art. 2: «Unde totius libertatis radix est in ratione constituta»; M. Pangallo «Totius radix libertatis est in ratione constituta», in Divinitas 46 (2003) 3-18. “Radix totius libertatis”: zum Verhältnis von Willen und Vernunft in der mittelalterlichen Philosophie; IV° Hannoveraner Symposium zur Philosophie des Mittelalters, Leibniz-Universität Hannover, vom 26. bis 28. Februar 2008 ; pubblicazione: 2011.

[10] Benedetto XVI, Testo preparato per l’Allocuzione nel corso della visita all’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma, prevista per il 17.I.2008 e poi annullata in data 15.I.2008. Si veda anche il Discorso del 12 settembre 2006 all’Università di Regensburg, dove egli parlò di una “autolimitazione della ragione da essa stessa auto-decretata”.

[11] Cf. Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, n. 48: «L’ambiente naturale non è solo materia di cui disporre a nostro piacimento, ma opera mirabile del Creatore, recante in sé una “grammatica” che indica finalità e criteri per un utilizzo sapiente, non strumentale e arbitrario». Si veda in proposito H. Jonas, Dalla fede antica all’uomo tecnologico, Il Mulino, Bologna 1991, 262-263.

[12] Cf. J. Ratzinger, Creazione e peccato. Catechesi sull’origine del mondo e sulla caduta, ed. Paoline Cinisello Balsamo 1986. J. Granados, Teología de la creación: de carne a gloria, Didaskalos, Madrid 2020.

[13] Ratzinger, La via della fede, cit., 69.

[14] Cf. Commissione Teologica Internazionale, Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009.

[15] Al riguardo si veda: J. Granados, “El destino se juega en la carne: Lenguaje del cuerpo y actos intrinsecamente malos”, di prossima pubblicazione negli Atti del Convegno A Response to Pontifical Academy for Life’s Pubblication “Etica teologica della vita. Scrittura, Tradizione, Sfide pratiche”, Rome 8-9-10 December 2022.

[16] Cf. Ratzinger, La via della fede, cit., 85-86; 97-98.

[17] Cf. M. Hengel, Sequela e carisma. Studio esegetico di storia delle religioni su Mt 8, 21s e la chiamata di Gesù alla sequela, Paideia Editrice, Brescia 1990, 91-102.

[18] Sant’Ambrogio, In Psalmum CXVIII Expositio, sermo 18, 37: PL 15, 1541.

[19] Balthasar, “Nove tesi”, cit.; per una discussione dell’obiezione di Lessing: A. Scola, Questioni di antropologia teologica, 2° ed. Pul-Mursia, Roma 1997, 83-151.

[20] Si veda: L. Sanchez Navarro, Evangelio según san Mateo, BAC, Madrid 2023, 69-2014.

[21] Cf. J. Ratzinger, Guardare Cristo. Esercizi di fede, speranza e carità, Jaca Book, Milano 1989, 51-53; J. Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007, 97-98.

[22] Cf. R.E. Brown, Epistles of John, Doubleday, Garden City NY 1982, 248-253.

[23] Cf. Ratzinger, La via della fede, cit., 98.

[24] Cf. L. Melina, Sharing in Christ’s Virtues. For a Renewal of Moral Theology in Light of Veritatis splendor, CUA Press, Washington DC 2001; ed. spagnola: Participar en las virtudes de Cristo, Ed. Cristiandad, Madrid 2004.

[25] Cf. Ratzinger, La via della fede, cit., 81-85.

[26] Al riguardo: J.I.H. McDonald, Kerygma and Didache. The Articulation and Structure of the Earliest Christian Message, Cambridge University Press, Cambridge 1980.

[27] Cf. J. Ratzinger, “Magistero ecclesiastico – Fede – Morale”, in Ratzinger – Schürmann – von Balthasar, Prospettive di morale cristiana, cit., 37-58. 

[28] Cf. Ratzinger, La via della fede, cit., 50-54.

[29] Ibidem, 52.

[30] J. Ratzinger, L’elogio della coscienza. La verità interroga il cuore, Cantagalli, Siena 2018.

[31] Cf. D.G. Graham, “Ratzinger’s Reception of Newman on Conscience”, in Communio (USA), 47/4 (Winter 2020), 791-831.

[32] In merito: L. Melina, Coscienza e prudenza. La ricostruzione del soggetto morale cristiano, Cantagalli, Siena 2018.

[33] W. Kasper, „Amoris laetitia: Bruch oder Aufbruch. Eine Nachlese“, in Stimmen der Zeit 11 (2016), 723-732. S. Goertz – C. Witting (Hrsg.), Amoris laetitia – Wendepunkt für Moraltheologie?, Herder, Freiburg 2016.

[34] Pontificia Accademia per la Vita, a cura di V. Paglia, Etica teologica della vita. Scrittura, tradizione, sfide pratiche, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2022. Per una critica puntuale del testo, si veda:  G. L. Müller and St. Kampowski, Going Beyond the Letter of the Law.The Pontifical Academy for Life Challenges the Teachings of Humanae Vitae and Donum Vitae , in “First Things”  Aug.  27 2022.

[35] Cf. C. Fabro, Introduzione all’ateismo moderno, Edivi, Segni 2013, 9-82. Si veda anche: S. Fontana, Ateismo cattolico. Quando le idee sono fuorvianti per la fede, Fede e Cultura, Verona 2022.

[36] [36] Cf. Testo base, nn. 112-114. Si veda anche il volume di M. Chiodi – P.D. Guenzi – M. Martino, Lex naturae. Storia del concetto, teologia biblica e questioni teoriche, Cantagalli, Siena 2022.

[37] A. Rodriguez Luño, “Superamento del soggetto”, in Pontificia Accademia per la Vita, a cura di V. Paglia, Etica teologica della vita cit. 162.

[38] Cf. K. Wojtyła, Persona e atto, a cura di A.T. Tymieniecka, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1982.

[39] In merito: S. Kampowski. Il caso serio della vita. La morale cristiana tra autonomia e libertà del dono, coll. “Veritas amoris” n. 1, Cantagalli, Siena 2022.

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Livio Melina

Livio Melina è Teologo Moralista. Già Ordinario di Teologia morale (dal 1996 al 2019) presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia a Roma, di cui fu Preside dal 2006 al 2016. Vi ha fondato e diretto l’Area Internazionale di Ricerca in Teologia morale. Membro ordinario della Pontificia Accademia di Teologia, è stato Direttore scientifico della rivista "Anthropotes" e visiting Professor a Washington DC e a Melbourne. Ha tenuto e tiene corsi e conferenze in varie Università internazionali.

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