Questioni politico-legislative relative al fine vita
Alberto Frigerio
La giurisprudenza sul fine vita è materia di discussione in tutta l’area euroatlantica, e negli ultimi anni è andata incontro a profonde trasformazioni anche in Italia, come attestano la legge 219/2017 del Parlamento sul consenso informato e sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, la sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale sul suicidio assistito, e la recente richiesta di referendum abrogativo volto a legalizzare l’eutanasia.
Nel presente contributo si analizzeranno questi tre testi, enucleando le questioni antropologiche sottese, dato che «le leggi statali, oltre a essere permissive o restrittive, sono espressive: cioè, oltre a permettere o vietare un comportamento, esprimono una visione delle cose»[1], in questo caso del dolore e della morte. Prima di analizzare i singoli testi, è però utile chiarire il rapporto tra diritto e morale, che si sostanzia in quello tra legge civile e legge morale, per ricavare un criterio valutativo delle leggi statali.
1. Legge civile e legge morale
Il nesso tra legge civile e legge morale costituisce il nodo gordiano della filosofia del diritto, con cui ogni epoca si è confrontata, dando vita a un ampio ventaglio d’ipotesi, tra cui si distinguono il giusnaturalismo, che insiste sulla valenza universale del diritto naturale, e il positivismo giuridico, che recide il legame del diritto con la morale.
Come ha rilevato il filosofo del diritto Norberto Bobbio, che pure propende per l’orientamento giuspositivista, un rigido positivismo giuridico, che si preoccupa solo di fissare procedure formali di validazione delle norme, è insufficiente per spiegare il funzionamento delle attuali democrazie costituzionali, fondate sulla salvaguardia e sulla tutela dei diritti fondamentali dell’uomo: «Di fronte allo scontro delle ideologie, dove non è possibile alcuna tergiversazione, ebbene sono giusnaturalista; riguardo al metodo, sono, con altrettanta convinzione, positivista […] La storia dello Stato moderno negli ultimi due secoli coincide in gran parte con la storia dei tentativi compiuti per rendere effettivamente operante, attraverso vari accorgimenti costituzionali, l’esigenza fatta valere dalle teorie giusnaturalistiche in favore della limitazione del potere sovrano»[2].
La prospettiva dischiusa da Bobbio aiuta a comprendere il nesso tra legge civile e legge morale, così come è stato formulato dal magistero della Chiesa, secondo cui tra di esse c’è un polo di distinzione e uno di correlazione: da un lato, la legge civile ha il compito di garantire una giusta convivenza civile e perseguire il bene comune, in tal senso, riguarda solo ciò che tra le azioni umane è in relazione con la socialità, pertanto, è limitata rispetto alla legge morale, che riguarda l’agire umano in tutte le sue declinazioni; da un altro lato, la legge civile, proprio perché ha il compito di garantire una giusta convivenza civile e perseguire il bene comune, non è indipendente da basi morali ma è fondata sul principio di giustizia, pertanto la legge morale fonda e verifica quella civile[3].
Il nesso tra legge civile e legge morale così formulato permette di chiarire che la legge civile, per un verso, non può legittimare atti cattivi, né tantomeno comandarli o impedirne di buoni, per altro verso, non deve vietare tutto ciò che è moralmente riprovevole ma solo ciò che nuoce alla dignità personale e al bene comune[4]. Sotto il profilo soggettivo, questo significa che, a fronte di leggi gravemente ingiuste, che ledono i diritti fondamentali della persona (es. diritto alla vita, alla libertà politica o religiosa) o le istituzioni e i rapporti sociali fondamentali (es. matrimonio e famiglia, patria potestà, esercizio della giustizia), vige l’obbligo morale di non seguirle e anzi opporvisi civilmente, tramite l’obiezione di coscienza, la partecipazione pre-politica di carattere culturale e l’impegno politico per promuovere iter volti ad abrogarle o almeno a modificarle[5].
Il nesso tra legge civile e legge morale così formulato consente anche di tracciare i confini del dialogo tra politico e teologico, inteso come pensiero elaborato in seno alle tradizioni religiose: il politico non è teocraticamente costituito, tuttavia è eticamente fondato, in quanto ha il compito di regolare i rapporti sociali affinché siano vissuti secondo giustizia; in tal senso, il teologico, che pure non fonda il politico, ha il diritto/dovere di offrire il proprio contributo sulle questioni etiche relative al vivere comune. Cesare e Dio sono chiamati a dialogare sul terreno dell’ethos in vista dell’edificazione di una società giusta, rispettosa dei beni della persona e promotrice del bene comune[6]. È quanto mi propongo di fare, convinto che la fede in Cristo dischiuda la piena comprensione del Vangelo della Vita, che nei suoi tratti essenziali può essere conosciuta anche dalla ragione umana[7], con cui il fedele è chiamato ad argomentare (1 Pt 3,15).
2. Legge sul consenso informato e sulle dichiarazioni anticipate di trattamento
La legge 219/2017 sul consenso informato e sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT) muove dalla giusta intenzione d’incentrare la relazione di cura tra medico e paziente sulla pianificazione condivisa, come si legge nell’art. 1 co. 2: «È promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico».
Il consenso informato è stato introdotto nel ventesimo secolo per tre motivi: 1) pratiche eugenetiche perpetuate dal regime nazista; 2) etica medica paternalistica, codificata nei codici di deontologia medica redatti nel Novecento, che prescriveva al medico di agire per il bene della persona senza necessità di chiedere il suo consenso, e che dava al medico la facoltà di ignorare le scelte del paziente, nella convinzione di avere la competenza tecnica necessaria per decidere in favore e per conto del paziente; 3) abusi nella pratica medica, verificatisi negli U.S.A., dove furono condotte sperimentazioni cliniche senza previo consenso informato, come accadde a Tuskegee in Alabama, dove si praticarono studi sulla sifilide in persone di colore (1932-1972), e al Jewish Chronic Disease Center di Brooklyn, dove furono iniettate cellule cancerogene in degenti anziani (1963), o sulla base del consenso informato raccolto con metodi ambigui e ricattatori, come accadde nella Willowbrook State School di Staten Island, in cui fu iniettato il virus dell’epatite B in bambini disabili (1956-1970).
Il diritto al consenso informato è stato introdotto nel 1947 dal Codice di Norimberga, che, memore degli abusi nazisti, ha sancito che «il consenso informato è assolutamente essenziale». Il diritto al consenso informato è stato riaffermato nel 1964 dalla Dichiarazione di Helsinki della World Medical Association. In Italia, l’art. 33 della legge 833/1978 ha stabilito che il medico non può eseguire trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, a meno che questi non sia in grado di prestare in modo consapevole il proprio consenso e ricorrano i presupposti dello stato di necessità. Nel 1997 l’art. 5 della Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla bioetica di Oviedo ha ribadito che «un trattamento sanitario può essere praticato solo se la persona interessata ha prestato il proprio consenso libero ed informato». Nel 2000 l’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ha sancito la necessità del consenso informato della persona che deve sottoporsi a un trattamento sanitario. Nel 2014 l’art. 35 del Codice di deontologia medica ha stabilito per il medico il divieto di avviare o proseguire procedure diagnostiche e/o interventi terapeutici senza l’acquisizione del consenso del paziente.
Come rileva l’art. 1 co. 1 della legge 219/2017, il principio del consenso informato ha fondamento costituzionale nell’art. 32, secondo cui «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona», che è da leggere insieme all’art. 13, che garantisce l’inviolabilità della libertà personale, e all’art. 2, posto a presidio di tutti i diritti inviolabili della persona. Da tale contesto normativo traspare l’esistenza di un diritto costituzionale a non subire trattamenti a cui non si è dato consenso preventivamente e consapevolmente.
La legge 219/2017 ricodifica dunque il diritto al consenso informato, già previsto dalla costituzione, garantito dalla legge ordinaria e tutelato dal codice deontologico, rispetto a cui introduce due novità: 1) stabilisce la possibilità di stendere le DAT, che riguardano il trattamento di una eventuale futura malattia in cui la persona non fosse in grado di intendere e di volere e dunque di redigere il consenso informato: «Ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, può, attraverso le DAT, esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari» (art. 4 co. 1); 2) include nei trattamenti l’alimentazione e idratazione artificiali: «Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici» (art. 1 co. 5).
La legge 219/2017 muove dunque dalla giusta preoccupazione di potenziare lo strumento del consenso informato, che tutela il principio di libertà personale. D’altra parte, il principio di libertà personale non è assoluto, ma secondo e relativo al principio del rispetto e difesa della vita umana, che costituisce il presupposto di tutti gli altri beni, compresi l’esistenza e l’esercizio della libertà, che per questo ne è responsabile[8]. Alla luce di questa chiarificazione, è possibile rilevare due criticità della legge 219/2017: 1) la decisione del paziente (o del fiduciario nel caso di minori, persone sotto tutela o disabili) a riguardo di eventi futuri, che pure non è da escludere di principio, è problematica, in quanto presa fuori dal contesto reale, in cui il paziente potrebbe manifestare parere difforme; è quanto testimonia l’oncologa francese Sylvie Menard, allieva di Umberto Veronesi, un tempo favorevole all’eutanasia, che ha cambiato posizione a seguito di una malattia[9]; 2) l’inclusione dell’alimentazione e idratazione artificiale tra i trattamenti è imprecisa, in quanto i trattamenti in senso proprio sono gli interventi di carattere terapeutico, volti a rimuovere fattori patologici e ristabilire la salute, mentre l’alimentazione e idratazione artificiale costituiscono interventi di sostegno vitale, volti ad assistere le funzioni fisiologiche di base, e dunque sono da intendersi come cure, almeno finché l’organismo è in grado di assorbire le sostanze nutrienti e i liquidi fisiologici e trarne giovamento; come ha rilevato il Centro Studi Livatino, il testo ha contenuto eutanasico, in quanto definisce nutrizione e idratazione artificiali trattamenti sanitari, che come tali possono essere sospesi[10].
Per cogliere il tratto eutanasico della legge 219/2017, è utile richiamare l’insegnamento della Lettera Samaritanus bonus della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita, che riflette sulle cure e sui trattamenti, anche in riferimento alle DAT. Mentre le cure vanno garantite finché l’organismo può beneficiarne, i trattamenti vanno interrotti nel caso in cui siano sproporzionati, ovvero futili sotto il profilo medico e/o gravosi sotto il profilo soggettivo[11].
Da ultimo, va rilevata una terza criticità della legge 219/2017, relativa alla mancata tutela degli operatori e delle strutture sanitarie, come attesta l’assenza di ogni riferimento all’obiezione di coscienza. Inoltre, nel testo è rinvenibile una tensione tra volontà del medico e del paziente: gli artt. 1 co. 7 e 4 co. 5 stabiliscono che il medico deve rispettare la volontà del paziente, mentre l’art. 1 co. 6 stabilisce che «il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali». Infine, nell’art. 1 co. 6, che pure sembra tutelare la volontà del medico a dispetto di quella del paziente di cui parlano l’art. 1 co. 7 e l’art. 4 co. 5, si rileva una tensione irrisolta, in quanto ciò che è a norma di legge potrebbe essere contrario alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali o comunque alla coscienza dell’operatore. La legge 219/2017 tende dunque a ridurre il medico a esecutore di scelte prese dal paziente, anche qualora fossero contrarie alla deontologia medica e/o alle convinzioni personali. In tal senso, si denaturalizza la figura del medico, che in realtà ha il dovere di operare sempre e solo realizzando ciò che in scienza e coscienza costituisce il bene del paziente.
3. Sentenza sul suicidio assistito
Il 27 febbraio 2017 Fabiano Antoniani, tetraplegico a seguito di incidente stradale, sceglie di morire in una clinica svizzera. Con lui si trova il radicale Marco Cappato, che il giorno dopo si auto-denuncia, costringendo la Procura di Milano ad accusarlo di aiuto al suicidio assistito, reato punito dall’articolo 580 del codice penale, che prevede una pena dai 5 ai 12 anni di carcere. Il 14 febbraio 2018 si apre il processo a Cappato, e la Corte d’Assise di Milano decide di chiedere alla Consulta di valutare la legittimità costituzionale del reato di aiuto al suicidio contestato all’esponente dei radicali. Nell’ordinanza 207/2018 la Consulta chiede l’intervento del Parlamento per colmare ciò che ritiene un «vuoto legislativo», rinviando al settembre 2019 un eventuale verdetto. Il Parlamento però non si esprime, così il 25 settembre 2019 la Consulta promulga la sentenza 242/2019 relativa al suicidio assistito, affermando che «non è punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Il 23 dicembre 2019 la Corte d’Assise di Milano assolve Cappato.
La sentenza 242/2019 non reputa incostituzionale il reato di aiuto al suicidio in generale, ma la punizione dell’aiuto in caso di: persona affetta da patologia irreversibile, che prova sofferenza intollerabili, è tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, ed è capace di prendere decisioni libere e consapevoli. In tal senso, va certamente rilevato il tentativo della Consulta di limitare al minimo la casistica oggetto del provvedimento, garantendo peraltro l’obiezione di coscienza agli operatori sanitari. D’altra parte, l’esperienza dei Paesi Bassi, primo paese nel 1985 ad aver legalizzato l’eutanasia (termine che nella legislazione olandese comprende il suicidio assistito), mostra che tale procedura, in origine considerata soluzione dell’ultima spiaggia (last resort solution) per casi specialissimi, col tempo è divenuta modo automatico di morire (default way to die), al punto che in alcuni distretti olandesi si registra il 12 % di morti per eutanasia, che nei malati terminali sale al 25 %. È quanto attesta la ricerca condotta da Theo Boer, professore di bioetica alla Kampel Theological University, presidente del Comitato di Bioetica e Biotecnologia della Conferenza delle Chiese Europee e presidente del Gruppo di Ricerca Olandese e Belga in Etica Teologica, che ha messo in luce peraltro come la richiesta di pratica eutanasica sia maggiore tra i malati di cancro, ma non manchi d’interessare soggetti affetti da malattie psichiatriche e disabili. Per Theo Boer, un tempo strenue sostenitore dell’eutanasia, l’introduzione della così detta buona morte genera una sorta di atmosfera di uccisione (ciò che Giovanni Paolo II chiamava «cultura della morte» e Francesco chiama «cultura dello scarto»), secondo cui la morte sarebbe la soluzione a ogni forma di sofferenza ritenuta insopportabile, disincentivando in questo modo anche la ricerca e la pratica delle cure palliative[12].
L’indagine di Theo Boer mostra che la legalizzazione dell’eutanasia, anche quando è pensata per certe categorie e limitata da rigidi paletti, come nel caso della sentenza 242/2019, ha due conseguenze pressoché inevitabili: la rimozione dell’interdizione sociale fa scivolare verso condizioni di liceità sempre più ampie, come attesta la legge approvata in Olanda nel 2020, che prevede la possibilità di richiedere l’eutanasia per i bambini sotto i 12 anni malati terminali col consenso dei genitori; la percezione sociale di disvalore dei soggetti più fragili ricade su di essi, che si sentono quasi obbligati a considerare l’opzione eutanasica, come attesta la proposta di legge avanzata in Olanda nel 2020, che prevede la possibilità di richiedere l’eutanasia per i soggetti sopra i 75 anni indipendentemente dalla malattia di cui soffrono.
Il caso olandese svela dunque la logica del piano inclinato (slippery slope), denunciata più volte dal Card. Willem Jacobus Eijk, primate d’Olanda, medico e teologo, secondo cui l’ammissione dell’eutanasia per alcuni casi limite costituisce il grimaldello per la sua estensione via via crescente. È quanto Romano Guardini disse nel 1947, in riferimento al disegno di legge tedesco sull’interruzione volontaria di gravidanza, che avrebbe sancito la non punibilità dell’atto in base a determinate indicazioni mediche (minaccia per la salute della donna o del nascituro), criminologiche (gravidanza frutto di violenza sessuale) o sociali (condizioni socio-economiche di miseria): «Non appena in cose di tal genere viene a mancare il principio assoluto, e al suo posto subentra un giudizio pratico di utilità o danno, tutta va a rotoli. Può venire proclamata una “indicazione” dopo l’altra, con una quantità di convincentissimi argomenti a disposizione»[13]. In tal senso, la sentenza 242/2019, che pure circoscrive al minimo la possibilità di assistere terzi nel porre fine alla propria vita, presenta un primo elemento critico, in quanto, al di là delle intenzioni del legislatore, favorisce de facto il diffondersi di una mentalità mortifera, che oscura il valore della vita, come comprova nel contesto italiano la recente richiesta di referendum sull’eutanasia.
Accanto a questo primo aspetto problematico, la sentenza 242/2019 presenta altri due elementi critici: 1) sul piano ordinamentale, la Consulta non si limita a dichiarare la costituzionalità o meno dell’art. 580 del codice penale, ma ne riscrive la seconda parte, elencando i casi in cui è lecito assistere terzi nel porre fine alla propria vita; in tal modo, la Consulta, che dice di provvedere all’opera di «riempimento costituzionale necessario» per colmare ciò che riteneva un «vuoto legislativo», va oltre le proprie prerogative e si sostituisce al Parlamento; 2) sul piano dei contenuti, la Consulta sostituisce il principio di indisponibilità della vita, che sarebbe preminente in regime fascista a motivo degli obblighi sociali dell’individuo, col principio di autodeterminazione, che sarebbe preminente nella costituzione (artt. 2, 13, 32). In realtà, come già rilevato, il principio di autodeterminazione non è assoluto, ma secondo e relativo al rispetto e difesa della vita, in quanto presupposto di ogni altro bene. La liceità del suicidio assistito, in cui il paziente si toglie la vita con l’ausilio medico (il paziente beve o, se tetraplegico, attiva con un pulsante il rilascio di un medicinale preparato dal medico, che induce sonnolenza e arresto cardiaco), confligge dunque col principio di indisponibilità della vita, che è tale non in caso di asservimento del soggetto allo stato, ma in quanto la vita è bene primario, condizione di possibilità degli altri beni, compresa la libertà, che ne è pertanto responsabile.
Stabilito che il suicidio assistito non è mai lecito, una precisazione è d’uopo: l’illiceità a sopprimere volontariamente la vita non implica l’obbligo di allungarla in modo indiscriminato. L’illiceità morale del suicidio assistito (e dell’eutanasia) non va tradotta nell’imperativo secondo cui si dovrebbe fare di tutto per prolungare la vita. I trattamenti clinicamente futili e/o soggettivamente gravosi sono infatti inappropriati, come sostiene anche la Lettera enciclica Evangelium vitae: «Da essa [dall’eutanasia] va distinta la decisione di rinunciare al cosiddetto accanimento terapeutico, ossia a certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia»[14]. Alla luce di questa precisazione, si evince che nei casi evocati dalla sentenza 242/2019, in quanto a nostro avviso ascrivibili al quadro dell’accanimento terapeutico, mentre non è lecito praticare il suicidio assistito (né l’eutanasia), è lecito interrompere i trattamenti vitali e ricorrere alla sedazione palliativa[15].
Sull’interruzione dei trattamenti vitali, è opportuno avanzare una puntualizzazione, di cui dà conto Samaritanus bonus: tra gli interventi di cura, il testo menziona i supporti all’idratazione, alimentazione, termoregolazione e respirazione, ma per quest’ultima parla di proporzionalità: «Non è lecito sospendere le cure efficaci per sostenere le funzioni fisiologiche essenziali, finché l’organismo è in grado di beneficiarne (supporti all’idratazione, alla nutrizione, alla termoregolazione; e altresì aiuti adeguati e proporzionati alla respirazione)»[16]; inoltre, il testo parla di cure di base in riferimento all’alimentazione e idratazione, senza menzionare la ventilazione: «Una cura di base dovuta a ogni uomo è quella di somministrare gli alimenti e i liquidi necessari al mantenimento dell’omeostasi del corpo. Quando il fornire sostanze nutrienti e liquidi fisiologici non risulta di alcun giovamento al paziente, perché il suo organismo non è più in grado di assorbirli o metabolizzarli, la somministrazione va sospesa … L’obbligatorietà di questa cura del malato attraverso un’appropriata idratazione e nutrizione può esigere in taluni casi l’uso di una via di somministrazione artificiale, a condizione che essa non risulti dannosa per il malato o provochi sofferenze inaccettabili per il paziente»[17].
La Lettera Samaritanus bonus lascia intendere che, mentre i mezzi di nutrizione e/o idratazione sono cure, anche se somministrate artificialmente, e dunque non vanno mai rimosse, almeno finché non diventano dannose (es. complicanze all’utilizzo di sondino naso-gastrico, catetere venoso centrale e gastrostomia endoscopica percutanea: decubiti sulla mucosa esofagea, trombizzazione venosa, infezioni a livello addominale) o gravose (es. onere psicologico e repulsione soggettiva) per il paziente, i mezzi di ventilazione sono trattamenti e dunque vanno sottoposti al criterio di proporzionalità.
La differenza tra i mezzi di nutrizione e/o idratazione e i mezzi di ventilazione potrebbe essere ricondotta al fatto che i primi forniscono al corpo sostanze che sono assimilate autonomamente dall’organismo, mentre i secondi hanno anche la finalità di ristabilire una funzione fisiologica, quella della ventilazione, altrimenti assente[18]. Per questo, la ventilazione artificiale va valutata con giudizio prudenziale, per comprendere se in una data situazione sia consona o no al trattamento del malato. Si pensi all’intubazione, che è moralmente obbligatoria nel paziente che ne ha bisogno per ristabilirsi da polmonite, mentre è facoltativa se non illecita nel paziente terminale affetto da neoplasia polmonare. Si pensi alla tracheostomia, che è moralmente obbligatoria nel malato giovane affetto da Sindrome di Guillain-Barré, mentre è facoltativa nel malato di Sclerosi Laterale Amiotrofica a motivo della sua condizione debilitante (inoltre, la patologia avanza e provoca uno stato di vita sempre più gravoso, pertanto il ventilatore, che poteva essere considerato proporzionato al momento della sua applicazione, potrebbe divenire sproporzionato e dunque rimosso in una fase successiva).
4. Referendum sull’eutanasia
Il 24 aprile 2021 la Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana riportava l’Annuncio di una richiesta di referendum abrogativo, volto ad abrogare l’art. 579 del codice penale, sull’omicidio del consenziente, al fine di legalizzare l’eutanasia, che la Lettera enciclica Evangelium vitae definisce così: «Per eutanasia in senso vero e proprio si deve intendere un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore»[19]. Il quesito referendario depenalizza l’omicidio del consenziente, salvo che in tre circostanze, che invalidano il consenso: uccisione di un minore, di una persona inferma di mente, o di una persona a cui il consenso è stato estorto con violenza o inganno.
La criticità del quesito referendario è stata rilevata da autorevoli giuristi, tra cui Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Consulta, ex Guardasigilli e docente emerito di Diritto penale, e Luciano Violante, ex magistrato e ex presidente della Camera dei Deputati. Flick ha fatto notare alcune eventuali contraddizioni giuridiche, in quanto «se il referendum abrogativo è ammesso e riceve il consenso dei cittadini, noi avremmo una situazione per cui chi uccide una persona maggiorenne e cosciente di sé che glielo chiede, anche in buona salute, non rischia il carcere; mentre tuttora rischierebbe le sanzioni previste dall’articolo 580 sull’aiuto al suicidio assistito un medico o familiare o amico che procura il farmaco letale a una persona che non si trova nelle quattro condizioni indicate dalla Consulta … Si finisce per punire l’aiuto al suicidio (“meno grave”) e non l’omicidio del consenziente (“più grave”)»[20]. Violante ha fatto notare che il testo liberalizza «ogni forma di omicidio del consenziente, anche se determinato, ad esempio, da una depressione, da un fallimento finanziario, da una delusione sentimentale, da una momentanea fragilità psichica e anche se commesso con mezzi violenti». Questo significa, evidentemente, svilire il valore della vita umana, dischiudendo scenari inquietanti, evocati dallo stesso Violante: «Oggi il costo di una giornata di degenza in una struttura dedicata alle cure palliative è di circa 300 euro e quello di una giornata di ricovero in un ospedale pubblico è di circa 470 euro. Quale sarà il destino dei malati vecchi e poveri in una società che invecchia, con una sanità costosa, dove sia possibile sopprimere chiunque lo consenta?»[21].
Da ultimo, lo slogan della campagna referendaria «se anche tu vuoi vivere libero fino alla fine» mette in luce la questione antropologia sottesa al tema in esame: la visione della libertà come autodeterminazione assoluta. In realtà, come insegna la Lettera enciclica Veritatis splendor, la libertà dell’uomo ha profilo responsoriale, in quanto «è libertà reale, ma finita: non ha il suo punto di partenza assoluto e incondizionato in se stessa, ma nell’esistenza dentro cui si trova e che rappresenta per essa, nello stesso tempo, un limite e una possibilità»[22].
5. Note conclusive
Il soggetto è incline a riconoscere il valore della vita, che appare come promessa di bene a cui dare credito. In termini filosofici l’eminente valore della vita umana è riconducibile al suo tratto spirituale, cioè alla capacità della persona di trascendere la dimensione fisica e appropriarsi in modo singolare della comune natura. È quanto afferma il filosofo Robert Spaemann, secondo cui persona non è qualcosa ma qualcuno, non un semplice esemplare della specie ma soggetto personale[23]. In termini teologici, il tratto spirituale della persona umana trova chiarificazione nella dottrina dell’imago Dei (Gn 1,26), secondo cui la persona umana è in relazione immediata con Dio. L’incomparabile valore della vita umana, percepito a livello esistenziale e comprovato a livello riflesso, rende moralmente illecita la sua soppressa volontariamente.
D’altra parte, le prove dell’esistenza oscurano la promessa di bene che è la vita, di cui la persona può sentirsi ingiustamente privata, come ha scritto il poeta Giacomo Leopardi a seguito della morte dell’amata Silvia: «O natura, o natura, perché non rendi poi quel che prometti allor? Perché di tanto inganni i figli tuoi? … All’apparir del vero tu, misera, cadesti»[24]. L’inclinazione del soggetto a riconoscere il valore della propria vita, che viene prima di ogni possibile disquisizione e che è sostenuta dalla riflessione filosofica e teologica, può entrare in tensione con la percezione che la vita non sia più degna di essere vissuta, a causa della sofferenza. La vita è turbata da momenti di fatica, precarietà e dolore, che talvolta prendono il sopravvento e inducono a desiderarne la fine.
In effetti, se resta valido semper et pro semper il divieto di sopprimere volontariamente la vita (eutanasia e suicidio assistito sono atti intrinsecamente cattivi, che nessuna circostanza può giustificare), non di meno si possono verificare situazioni in cui il soggetto è tenuto a non allungarla indiscriminatamente, pena l’incorrere nell’accanimento terapeutico. È questo il caso dei trattamenti medici che dovessero risultare clinicamente futili e/o soggettivamente gravosi per il paziente e la sua famiglia.
In ogni caso, comunque, i medici, i familiari e gli amici hanno il compito di accompagnare il paziente, in quanto la malattia e la sofferenza, che costituiscono un anticipo di morte nella vita, non suscitano innanzitutto la volontà di autodeterminazione del paziente, ma il riconoscimento della propria fragilità e dipendenza, che muove a chiedere aiuto. È quanto suggerisce Sofocle nell’Edipo Re, laddove i coreuti, a fronte della nuova condizione di cecità che il re si è procurato e auto-inflitto, esclamano: «Ha bisogno di chi lo sostenga e gli faccia da guida: lo ha colpito un morbo troppo grave perché possa sopportarlo»[25].
Le suppliche dei malati gravi sono quasi sempre richieste angosciose di aiuto e affetto, e anche l’eventuale domanda di eutanasia e di suicidio assistito è spesso dettata dal dolore non gestito e dalla mancanza di assistenza. Ne è prova il fatto che, tra i pazienti in condizioni cliniche penose, la gran parte di quelli che si sentono amati sceglie di vivere, come ha rilevato il noto oncologo Umberto Veronesi, che pure si diceva favorevole alla pratica eutanasica: «Se è curato bene, difficilmente il paziente chiede di morire. Se è curato con affetto, con amore, senza dolore, non chiederà la buona morte»[26]. È quanto rivelano, ad esempio, le indagini relative alla Sindrome Locked-in (LIS), in cui il paziente è cosciente ma immobile per la paralisi dei muscoli volontari del corpo[27].
Per concludere, la vita è un bene di cui l’uomo è chiamato a prendersi cura al modo del Buon Samaritano, che si piega compassionevole sulle fragilità umane. Al contrario, sopprimere un malato che chiede l’eutanasia o coadiuvarlo nella pratica del suicidio assistito non significa riconoscere e valorizzare la sua autonomia, ma disconoscere il valore della sua libertà, fortemente condizionata dal dolore, e il valore della sua vita, negandogli ogni ulteriore possibilità di relazione umana, di senso dell’esistenza e di crescita nella vita teologale. A fronte della morte che incombe, si profila così il compito di farsi prossimi a quanti sono nel dolore, che per il cristiano assume la forma dello stare sotto la croce al modo di Maria, delle altre donne e di Giovanni, memore dell’evento pasquale, in cui la vita vince sulla morte.
Il compito di cura della vita è dei singoli ma anche della società, in quanto il diritto alla vita è base degli altri diritti. È quanto presuppongono le moderne democrazie liberali, secondo cui lo stato ha il compito di tutelare la vita dell’individuo dalla minaccia altrui (contrattualismo hobbesiano) e è limitato dai diritti fondamentali dell’uomo (costituzionalismo lockiano)[28]. In tal senso, il diritto a disporre della propria vita, per essere rettamente inteso, non va tradotto in pronunciamenti giuridici favorevoli al suicidio assistito e all’eutanasia, come fanno la legge 219/2017, la sentenza 242/2019 e la richiesta di referendum abrogativo volto a legalizzare l’eutanasia, ma va colto come dovere di farsene carico responsabilmente. È quanto insegna la Lettera Samaritanus bonus: «Sono gravemente ingiuste le leggi che legalizzano l’eutanasia o quelle che giustificano il suicidio e l’aiuto allo stesso. Tali leggi colpiscono il fondamento dell’ordine giuridico: il diritto alla vita, che sostiene ogni altro diritto, compreso l’esercizio della libertà umana … Una società merita la qualifica di “civile” se la solidarietà è fattivamente praticata e salvaguardata come fondamento della convivenza»[29].
-
A. Rodríguez Luño, «Cittadini degni del vangelo» (Fil 1,27). Saggi di etica politica, Edusc, Roma 2005, 69. ↑
-
N. Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Edizioni di Comunità, Milano 1965, 124 e 192. ↑
-
Cf Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Evangelium vitae 68-74, (25.03.1995) (EV XIV, 1206-1445). ↑
-
Cf L. Melina, Coscienza e prudenza. La ricostruzione del soggetto morale cristiano, Cantagalli, Siena 2018, 140-144. La legge civile, che pure può tollerare qualche disordine morale, non può mai sancirlo positivamente. È quanto suggerisce la distinzione tra tolleranza, che è la rinuncia a reprimere quanto, se proibito, provocherebbe un danno più grave, depenalizzazione, che è la rinuncia a comminare pene per ciò che è qualificato come criminoso, e legalizzazione, che è il riconoscimento legale della liceità di alcuni atti. Se è sempre illecito legiferare contro la legge morale, può essere lecito tollerare o depenalizzare determinati atti immorali, purché non ledano i diritti fondamentali della persona, come quello alla vita. Per quanto riguarda la depenalizzazione, diverso è il caso di una legge che, pur comminando una determinata pena per un certo reato, lascia al giudice la discrezionalità di verificarne l’applicazione al singolo caso. ↑
-
Cf Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Evangelium vitae 73, (25.03.1995) (EV XIV, 1206-1445). J. Joblin – R. Tremblay (a cura di), I cattolici e la società pluralista. Il caso delle “leggi imperfette”, ESD, Bologna 1996. ↑
-
Rodríguez Luño, «Cittadini degni del vangelo» (Fil 1,27). Saggi di etica politica, cit., 110 «La sfera politica e religiosa sono connesse a causa delle ‘ragioni di coscienza’». ↑
-
Cf Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Evangelium vitae 29 e 91, cit. ↑
-
A. Scola, Milano e il futuro dell’Europa, Centro Ambrosiano, Milano 2016, 46-47 «Se tutti i beni vanno promossi, nei limiti del possibile, ce ne sono alcuni prioritari perché condizione di tutti gli altri, cosicché promuovendo-difendendo i primi in realtà è già avviata la promozione-difesa dei secondi … Tra questi primari, il bene della vita umana e il corrispondente diritto alla vita, dal concepimento al suo termine naturale, sono condizione di possibilità di tutti gli altri beni e di ogni altro diritto. Ogni uomo è persona e se ci si spende per assicurargli beni come il lavoro, la libertà, l’accoglienza, la pace, ecc. non dovremmo a maggior ragione spenderci con insistenza e primariamente per il bene della vita?». ↑
-
Cf S. Menard, Intervista a L. Bellaspiga, Sylvie, il cancro e le bugie sull’eutanasia, Avvenire, giovedì 14 ottobre 2021. ↑
-
Cf Centro Studi Livatino, Appello di giuristi sulla proposta di legge riguardante le dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari, 20 Febbraio 2017. ↑
-
Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera Samaritanus bonus V, 2 e 3, (22.09.2020) «Nell’imminenza di una morte inevitabile è lecito rinunciare a trattamenti che procurerebbero solo un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi … La rinuncia a tali trattamenti, che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, può anche voler dire il rispetto della volontà del morente, espressa nelle cosiddette dichiarazioni anticipate di trattamento, escludendo però ogni atto di natura eutanasica o suicidaria […] Una cura di base dovuta a ogni uomo è quella di somministrare gli alimenti e i liquidi necessari al mantenimento dell’omeostasi del corpo. Quando il fornire sostanze nutrienti e liquidi fisiologici non risulta di alcun giovamento al paziente, perché il suo organismo non è più in grado di assorbirli o metabolizzarli, la loro somministrazione va sospesa. In caso contrario, la privazione di questi supporti diviene ingiusta. Alimentazione e idratazione non costituiscono una terapia medica in senso proprio, in quanto non contrastano le cause di un processo patologico in atto nel corpo del paziente, ma rappresentano una cura dovuta alla persona del paziente, un’attenzione clinica e umana primaria e ineludibile. L’obbligatorietà di questa cura del malato attraverso un’appropriata idratazione e nutrizione può esigere in taluni casi l’uso di una via di somministrazione artificiale, a condizione che essa non risulti dannosa per il malato o provochi sofferenze inaccettabili per il paziente». ↑
-
https://www.meetingrimini.org/eventi-totale/la-vita-un-mistero/ ↑
-
R. Guardini, Il diritto alla vita prima della nascita, Morcelliana, Brescia 2005, 16. ↑
-
Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Evangelium vitae 65, cit. ↑
-
La sedazione profonda, che consiste nella somministrazione di farmaci a effetto sedativo in dosi adatte a ridurre o sopprimere la coscienza di un paziente, nella misura in cui è necessario per contrastare i sintomi refrattari alle cure (dolore, difficoltà respiratorie, agitazione), è giustificata dal principio terapeutico o di totalità, secondo cui è lecito intervenire su una parte per tutelare l’organismo. Nelle cure palliative rientra anche la terapia del dolore, che consiste nella somministrazione di farmaci mirata a ridurre o bloccare il dolore. L’utilizzo di questi farmaci, che possono avere effetti nocivi (sonnolenza, costipazione, mal di stomaco) collaterali (praeter intentionem) rispetto alla finalità buona perseguita, è giustificata dal principio del duplice effetto, secondo cui l’azione con due effetti, uno buono e l’altro cattivo, è moralmente lecita quando è in sé buona o indifferente, è volta all’effetto buono e non a quello cattivo, ottiene l’effetto buono non tramite quello cattivo, ha una ragione proporzionata. ↑
-
Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera Samaritanus bonus V, 2, cit. ↑
-
Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera Samaritanus bonus V, 3, cit. ↑
-
Cf E. Furton, The Moral Obligation of Nutrition and Hydration in the Tradition and Magisterium of the Catholic Church, «Ethics & Medics» 78/4 (2011), 381-400. ↑
-
Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Evangelium vitae 65, cit. ↑
-
G. M. Flick, Intervista a M. Iasevoli, Caos giuridico in vista. Flick «Eutanasia, un referendum ambiguo», Avvenire, 21 agosto 2021. ↑
-
L. Violante, Referendum sull’eutanasia, il limite tra fine vita e diritti, Repubblica, 24 agosto 2021. ↑
-
Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis Splendor 86, (6.08.1993) (EV XIII, 2532-2829). ↑
-
R. Spaemann, Personen. Versuche über den Unterschied zwischen ‘etwas’ und ‘jemand’, Klett-Cotta, Stuttgart 1996. ↑
-
G. Leopardi, “A Silvia” vv. 36-39 e 60-61, in Id., Canti, Loescher Editore, Torino 1991, 168-170. ↑
-
Sofocle, Edipo Re 1294-1295. ↑
-
U. Veronesi, Da bambino avevo un sogno, Mondadori, Milano 2002, 119. ↑
-
M.-A. Bruno et al., A survey on self-assessed well-being in a cohort of chronic locked-in syndrome patients: happy majority, miserable minority, «British Medical Journal» 1 (2011), e000039. ↑
-
M. Rhonheimer, Etica della procreazione, PUL-Mursia, Roma 2000, 244 «L’utilitarismo del calcolo hobbesiano – e a fortiori di quello lockiano, o di atri simili – non può relativizzare il diritto alla vita di ogni singolo uomo; anzi, lo presuppone come diritto pre-politico». ↑
-
Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera Samaritanus bonus V, 1, cit. ↑
Condividi questo articolo
Chi siamo
Il Veritas Amoris Project mette al centro la verità dell’amore come chiave di comprensione del mistero di Dio, dell’uomo e del mondo e come approccio pastorale integrale e fecondo.