Recensione: Giulio Meiattini: Amoris laetitia? I sacramenti ridotti a morale
Stefano Salucci
Intervento al V Incontro Sentieri della Verità, “Carità, luce per il cammino: virtù, sacramenti, Chiesa”, tenutosi a Roma dal dall’8 al 10 febbraio 2024.
Introduzione
Nel libro di Giulio Meiattini Amoris laetizia? I sacramenti ridotti a morale[1], il punto di domanda non si trova dopo il sottotitolo, ma dopo “Amoris laetitia”: come a dire che prima ancora di girare la copertina il lettore è informato che, per l’autore l’Esortazione in sé presenta un grande punto di domanda, una problematicità, e tale problematicità risiede nel fatto di aver ridotto a morale i sacramenti (e questa è la tesi di Meiattini).
Il testo, pubblicato ormai nel 2018, è articolato il 9 capitoli più una conclusione e un’appendice: nei primi l’Autore dà una sua esegesi del documento, mentre soprattutto nel quarto e quinto capitolo espone la sua tesi centrale, quella che dà il sottotitolo al testo, e che poi va declinando negli ultimi capitoli, che mettono in luce le conseguenze teologiche e pastorali di una certa impostazione del documento.
Recezione e interpretazione di Amoris laetitia
Una grande parte dell’analisi iniziale di Meiattini verte sulla recezione/interpretazione di AL: non sto ad esporre cose ormai ben conosciute a tutti. Ricordo solo che, dopo la pubblicazione di AL, accanto a letture prudenti e piuttosto equilibrate (Card. Vallini) e in continuità con il Magistero tradizionale (Card. Müller) ve ne furono altre decisamente più spinte (i vescovi tedeschi e quelli maltesi): ci fu anche chi respinse con decisione ogni forma di apertura che non fosse quella espressa in Familiaris consortio, come l’argentino Aguer, vescovo di La Plata e l’Arcivescovo di Philadelphia Chaput. Ma tra tutte le reazioni Meiattini dà un posto preminente (e direi necessariamente preminente) ai Criteri interpretativi per il capitolo VIII di Amoris laetitia dei vescovi argentini: tale documento, infatti, ha avuto l’onore di una risposta personale del Papa, che poi, da privata qual era in origine, è stata pubblicata assieme al Documento stesso sugli Acta Apostolicae Sedis, assumendo quindi un carattere di rilevanza del tutto particolare.
Cerco di andare per ordine richiamando i passi salienti di AL citati come problematici dal nostro Autore ed iniziando a darne un mio breve commento.
AL, 79: «Di fronte a situazioni difficili e a famiglie ferite, occorre sempre ricordare un principio generale: “Sappiano i pastori che, per amore della verità, sono obbligati a ben discernere le situazioni” (Familiaris consortio, 84). Il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi, e possono esistere fattori che limitano la capacità di decisione. Perciò, mentre va espressa con chiarezza la dottrina, sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione» (Relatio finalis 2015, 51).
Ci troviamo qui di fronte a una posizione che si può leggere in continuità con Familiaris consortio: il Papa sottolinea altrove un legame stretto tra corpo eucaristico e corpo coniugale, legame che dal primo riceve forza ed alimento per vivere nel quotidiano la realtà del secondo:
AL 318: «L’Eucaristia è il sacramento della Nuova Alleanza in cui si attualizza l’azione redentrice di Cristo (cfr. Lc 22,20). Così si notano i legami profondi che esistono tra la vita coniugale e l’Eucaristia. Il nutrimento dell’Eucaristia è forza e stimolo per vivere ogni giorno l’alleanza matrimoniale come “Chiesa domestica” (cfr. LG 11)».
Tuttavia, l’affermazione che richiede una particolare attenzione nella sua interpretazione è quella del n. 305, che descrive una situazione abbastanza diffusa oggi, vale a dire la non piena consapevolezza, da parte delle persone, della gravità morale della loro condizione: qui il Papa si spinge ad affermare che in tale condizione si possa anche arrivare a vivere in una condizione di grazia:
AL 305 : «A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa.[Nota 351] Il discernimento deve aiutare a trovare le strade possibili di risposta a Dio e di crescita attraverso i limiti. Credendo che tutto sia bianco o nero, a volte chiudiamo la via della grazia e della crescita e scoraggiamo percorsi di santificazione che danno gloria a Dio. Ricordiamo che “un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà” (EG 44). La pastorale concreta dei ministri e delle comunità non può mancare di fare propria questa realtà».
Osservo intanto che, se in tale condizione si chiede di fare un percorso di discernimento (immagino guidato da un sacerdote) è già problematico affermare che non si percepisca la gravità morale della propria condizione; secondariamente c’è da domandarsi se, postulato che la persona non comprenda tale gravità, in cosa dovrebbe consistere il discernimento e in cosa dovrebbe essere illuminato chi lo chiede. La stessa nota 351 parlando che rispetto a queste situazioni potrebbe essere dato “in certi casi” l’aiuto dei sacramenti, non aiuta a comprendere in quali altri casi non dovrebbe essere dato.
[Nota 351] «In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, “ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore” (Esort. ap. Evangelii gaudium [24 novembre 2013], 44: AAS 105 [2013], 1038). Ugualmente segnalo che l’Eucaristia “non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli” (ibid., 47: 1039)».
Cerchiamo di approfondire due aspetti di particolare rilevanza.
Il ruolo dei sacramenti: la Confessione
La nota 351 esplicita il ragionamento fatto nel corpo del testo: per quanto riguarda il primo punto della nota credo si possa affermare che, parlando dell’aiuto dei sacramenti, il Papa si riferisca a coloro che desiderano accostarsi alla Riconciliazione. Se è vero che chi vive in una situazione di unione non matrimoniale non può – di principio – ricevere l’assoluzione sacramentale, tuttavia non è neppure pensabile di “liquidare” la richiesta di colloquio di una persona divorziata dicendole che non è possibile accedere alla confessione. Al contrario tale occasione va colta come il momento più propizio per iniziare un cammino di accompagnamento e di discernimento di quella situazione particolare. Infatti, potrebbe darsi il caso che il penitente non abbia consapevolezza della gravità del suo stato e perciò non lo accusi come un peccato (e non dimentichiamo che la separazione tra foro interno e foro esterno va tenuta ben presente, secondo la praxis confessarii della Chiesa). Può anche accadere che il penitente abbia preso coscienza del suo stato e magari venga a dichiarare il suo proposito di vivere nella castità la nuova unione: come fare a sapere cosa dirà senza accogliere la sua richiesta di confessarsi? Pertanto, possiamo dire che una novità che emerge da questo testo è l’invito ad accogliere la richiesta di celebrazione della riconciliazione senza negarla a priori. Pertanto, siamo in un ambito del tutto attiguo a quello di FC.
Divorziati in nuova unione ed Eucaristia
Più delicata – ritengo – è l’interpretazione della seconda parte della nota, che fa riferimento alla comunione. Secondo alcuni il confessore dovrebbe poter giudicare in modo esatto lo stato soggettivo della coscienza del penitente e dare il consenso a ricevere l’Eucaristia. Io dissento – come Meiattini– da questa interpretazione, per motivi sostanzialmente analoghi, che dirò tra breve: per intanto dico che neppure le parole del Papa debbano essere necessariamente intese nel senso di affidare il giudizio sulle situazioni matrimoniali irregolari al solo sacerdote nel foro interno (cioè, il sacerdote che, alla fine dà il permesso di fare la comunione): piuttosto credo che intendano sottolineare il suo ruolo di accompagnatore del loro cammino. Tale cammino prevede anche la possibilità di ricevere dall’Eucaristia la forza per vivere insieme quella continenza perfetta che, se osservata, permette ai divorziati risposati, secondo le indicazioni di Familiaris consortio, di accedere ai sacramenti.
Tuttavia, in AL si trova, anche da questo punto di vista, un elemento problematico di ambivalenza, se non di ambiguità. Infatti, in un’altra nota, la n. 329, Francesco, riferendosi alle unioni per le quali oramai non è pensabile di proporre la strada della separazione (o perché vi sono figli o anche per altri seri motivi), riferendosi appunto all’Esortazione apostolica di Giovanni Paolo II dice:
Nota 329: «In queste situazioni, molti, conoscendo e accettando la possibilità di convivere “come fratello e sorella” che la Chiesa offre loro, rilevano che, se mancano alcune espressioni di intimità, “non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli” (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 51).
Rileviamo anzitutto che la frase del Concilio si riferisce, nel contesto originario, alle unioni matrimoniali: infatti nelle seconde unioni il problema della fedeltà non insiste tanto sulla situazione attuale quanto, piuttosto, sul precedente ed autentico matrimonio, la cui promessa di fedeltà fatta di fronte a Dio è stata infranta – appunto – dall’essersi riaccompagnati o risposati civilmente. Perché allora tale espressione è usata in riferimento alle nuove unioni? Credo che sia perché la mancanza di una intimità tra due persone legate affettivamente possa, alla lunga, andare a costituire un pericolo per la stabilità di tale coppia che, sebbene irregolare, è comunque moralmente necessario mantenere, in vista del bene dei figli o per un dovere di assistenza del nuovo partner. In tal senso l’aiuto dei sacramenti, e soprattutto della Comunione, è non solo possibile ma addirittura necessario.
D’altro canto, voglio anche osservare che il vivere da fratello e sorella non elimina la situazione oggettiva di peccato della nuova unione e il suo carattere di contro-testimonianza in ordine all’autentico disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia: inoltre occorre dire che l’unione sessuale non è l’unico aspetto connotante l’affettività coniugale. Vivere da fratello e sorella implicherebbe un’affettività vissuta autenticamente da fratello e sorella, che non è quella che, ordinariamente, vive una coppia: dunque c’è da chiedersi se chi vive un’unione irregolare possa con facilità giungere a compiere questa scelta radicale di dono di sé autentico e reciproco. Per esperienza di pastore posso affermare che resta possibile, anche in tale condizione, condurre un’esistenza autenticamente cristiana, nutrita dalla carità e orientata al dono di sé: tuttavia non è cosa a cui tutti facilmente pervengono, necessitando una vita di fede intensa e perseverante.
Anche a questo proposito, tuttavia, il Papa ha un’affermazione dai tratti ambivalenti:
«Davanti a quanti hanno difficoltà a vivere pienamente la legge divina, deve risuonare l’invito a percorrere la via caritatis. La carità fraterna è la prima legge dei cristiani (cfr. Gv 15,12; Gal 5,14)» (AL, 306).
Ora si deve capire in cosa consista questa difficoltà e in cosa la via della carità. Meiattini evidenzia come tutte queste oscillazioni non aiutano a comprendere fino in fondo il pensiero del Pontefice: o, almeno, si dovrebbe dire, non aiutavano. Infatti, la Lettera ai Vescovi argentini ha, di fatto, sgomberato il campo. «Adesso, se non altro, sappiamo quale sia stato l’intendimento del papa sulla questione discussa e dunque come vadano intesi certi passaggi ambigui del tribolato capitolo»[2].
La lettera ai Vescovi argentini
Su questo documento il testo di Meiattini si diffonde per tutto il secondo capitolo, con osservazioni puntuali che sintetizziamo: i primi tre punti non presentano problemi. Tra l’altro si afferma che «non è opportuno parlare di “permesso” per accedere ai sacramenti, ma di un processo di discernimento accompagnati da un pastore. Questo discernimento è “personale e pastorale” (AL 300)». Dal punto 4 in avanti emergono alcune criticità: si dice che «il cammino non finisce necessariamente nell’accesso ai sacramenti». Dunque, chiosa Meiattini, «l’accesso ai sacramenti ci può essere»[3]: ma con quali criteri? Quelli di FC o altri?
Quindi al punto 5 si parla di proposta riguardo all’impegno alla continenza: quando qui Meiattini afferma che il comandamento di non commettere adulterio è presentato dall’Esortazione come semplice proposta e che «non solo è facoltativa la continenza, ridotta da esigenza a proposta, ma è facoltativo anche per il sacerdote presentarla come tale» sia un po’ troppo tranchant. Infatti, anche se, come già sottolineato, tutta l’affettività di una coppia non sposata dovrebbe essere necessariamente quella da fratello e sorella, si deve dire comunque che un pastore pur proponendo l’unica via buona possibile, dovrebbe porsi sempre con la necessaria delicatezza, cosicché questa possa essere abbracciata dopo averne maturate le esigenze e nella libertà. Ma tra un senso debole di proposta (“vedi tu, puoi anche non farlo…”) alla prescrizione apodittica (“o segui questa via o sei fuori…”) mi pare possano esserci diversi passaggi più sfumati e pastoralmente appropriati che, senza nulla togliere alla verità della dottrina, non manchino della debita carità.
Ma la critica che Meiattini muove soprattutto ai vescovi argentini è quella di rigettare la via del foro interno (quella auspicata dal Card. Vallini): personalmente mi pare che neppure questa via sarebbe così facilmente praticabile. Dovrebbe essere il sacerdote a “dare il permesso” di fare la comunione: ma in base a quali evidenze? Infatti, di ciò che il fedele gli riferisce egli ignora gli aspetti pubblici e anche molti altri, che pure potrebbero essere importanti per la valutazione. In ogni caso condivido appieno la sottolineatura che la seguente affermazione dei vescovi presenti un carattere ambiguo:
«Può essere opportuno che un eventuale accesso ai sacramenti si realizzi in modo riservato, soprattutto quando si possano ipotizzare situazioni di disaccordo. Ma allo stesso tempo non bisogna smettere di accompagnare la comunità per aiutarla a crescere in spirito di comprensione e di accoglienza, badando bene a non creare confusioni a proposito dell’insegnamento della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio. La comunità è strumento di una misericordia che è “immeritata, incondizionata e gratuita” (297)».
Adesso sembra che sia la comunità che dev’essere abituata a non scandalizzarsi più! Comunque, vorrei dire, per esperienza maturata “sul campo”, che questa preoccupazione è stata ormai da tempo ampiamente superata dalla realtà dei fatti, visto che la comunità cristiana non si scandalizza neppure per situazioni ben più disordinate di una unione irregolare tra un uomo e una donna. In ogni caso non si può non osservare che, se nel 2018 (anno di uscita del libro) l’impressione di trovarsi davanti a una “porta socchiusa”[4] pronta a spalancarsi alla prima folata di vento, era solo un’ipotesi, oggi, con l’uscita di Fiducia supplicans, essa è del tutto confermata.
Peccato e fragilità
Anche la scelta di parlare non di peccato ma di fragilità è sfumata di ambiguità: infatti, nota Meiattini «le fragilità e le imperfezioni sono condizioni che appartengono alla creaturalità della condizione umana in quanto tale, nella sua collocazione intramondana e nella sua dimensione storico-creaturale perfettibile. Non così il peccato […] che è la perdita parziale o totale della bontà»[5]: pertanto se usiamo il lemma fragilità come sinonimo di peccato il titolo indica un’operazione indebita, in quanto mentre la fragilità può essere integrata, il peccato no.
Peccato e grazia: una falsa lettura di San Tommaso
Un altro punto su cui l’autore punta il faro è l’interpretazione che AL fa del pensiero di Tommaso d’Aquino: tutto parte dalla prospettiva di valorizzare quelle attenuanti che possono ridurre la responsabilità soggettiva della persona in situazione irregolare. Per far questo AL 301 afferma che
«La Chiesa possiede una solida riflessione circa i condizionamenti e le circostanze attenuanti. Per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante. […]
Già san Tommaso d’Aquino riconosceva che qualcuno può avere la grazia e la carità, ma senza poter esercitare bene qualcuna delle virtù, in modo che anche possedendo tutte le virtù morali infuse, non manifesta con chiarezza l’esistenza di qualcuna di esse, perché l’agire esterno di questa virtù trova difficoltà: “Si dice che alcuni santi non hanno certe virtù, date le difficoltà che provano negli atti di esse, […] sebbene essi abbiano l’abito di tutte le virtù”».
Meiattini osserva che in questo articolo (STh I-II, q.65, a.3, ad 2um) Tommaso vuol mostrare come chi possiede la carità ha anche tutte le altre virtù: l’Angelico, in questa risposta, argomenta per spiegare come mai si faccia fatica e non sia sempre piacevole esercitare queste virtù, anche vivendo senza peccato mortale o anche in una condizione di santità. Non parla certo di chi vive in una condizione di peccato grave abituale…
Imputabilità morale o verità sacramentale?
Qui emerge la tesi di fondo sostenuta dall’Autore: poggiandosi tutto sulla dimensione morale, ci si concentra su ciò che può non rendere imputabile una condizione oggettivamente disordinata (ma forse soggettivamente non percepita come tale) anziché innestarsi sulla radice sacramentale. Inoltre, si ignora quanto affermato con chiarezza da Veritatis splendor n. 63:
«Il male commesso a causa di una ignoranza invincibile, o di un errore di giudizio non colpevole, può non essere imputabile alla persona che lo compie; ma anche in tal caso esso non cessa di essere un male, un disordine in relazione alla verità sul bene. Inoltre, il bene non riconosciuto non contribuisce alla crescita morale della persona che lo compie: esso non la perfeziona e non giova a disporla al bene supremo»[6].
Meiettini enuncia così il cuore della sua tesi:
«Il “metodo” morale del discernimento basato sul rapporto fra norma e attenuanti soggettive è del tutto insufficiente a corrispondere alle esigenze di un’etica fondata sul liturgico-sacramentale. La quale, nello specifico dell’agire relativo al sacramento del matrimonio, non è mai riducibile al solo foro interno né a un’etica della responsabilità soggettiva del bilanciamento tra norma e attenuanti»[7].
In altre parole, nel sacramentale, parlando di segno visibile di una grazia invisibile, c’è, per così dire, un’eccedenza rispetto alla mera questione della imputabilità morale: nei sacramenti, infatti, la grazia invisibile si rende, in certo modo, visibile. Dunque, per la verità ed il rispetto del segno non è sufficiente l’insistenza sul solo aspetto soggettivo legato al foro interno, ma è necessario recuperare l’oggettività dell’azione sacramentale, pur tenendo dentro anche gli elementi soggettivi[8]. Detto altrimenti: c’è da mantenere stabile la tensione della polarità soggettivo-oggettivo che, in quanto polare, non è mai riducibile solo ad uno dei due elementi[9].
Un altro aspetto non irrilevante riguarda l’oggetto del discernimento: e infatti il sacramento è una realtà che riguarda entrambi coniugi, non uno soltanto. Ha ben ragione, dunque, Meiettini quando si chiede «come potrebbe un sacerdote operare con discernimento avendo a che fare con uno solo dei due coniugi? E questi, come ben si sa, vivono il loro cammino sempre in un contesto familiare più ampio»[10]. Questa difficoltà nasce da un approccio meramente soggettivo che non lascia a posto a «una morale personalistico dialogica e intersoggettiva»[11].
Lo stesso potremmo dire dell’approccio sacramentale: oggi osserviamo che sempre più il matrimonio è considerato un affare privato, intimo, ed ha perso quasi ogni rilevanza pubblica. Di conseguenza anche la realtà sacramentale è percepita come un qualcosa che riguarda solo la coscienza dei singoli sposi ma che non ha a che fare, o ne ha poco, con la dimensione ecclesiale. Ma il matrimonio ha necessariamente una dimensione pubblica, non può essere vissuto semplicemente come qualcosa che riguarda il foro interno: come si può pensare dunque che ciò che riguarda un suo aspetto fondamentale, vale a dire la sua dissoluzione, possa essere risolto nel solo foro interno? Se anche i processi di nullità matrimoniale non possono fare a meno del foro esterno (e anche la recente riforma di Papa Francesco ha tenuto fermo questo punto), come lo può un processo di discernimento? Meiattini fa notare come il Sinodo sulla famiglia del 2015 aveva indicato, per risolvere la questione dell’accesso ai sacramenti dei divorziati risposati l’introduzione di un cammino penitenziale pubblico, e solo 13 circuli minores avevano proposto il foro interno[12]: con tutte le difficoltà che comunque quella via avrebbe potuto presentare, essa almeno avrebbe rispettato maggiormente una tradizione antica della Chiesa e, soprattutto, la dimensione pubblica del sacramento.
Facciamo un altro esempio: se due coniugi divorziati risposati si impegnano a vivere come fratello e sorella possono ricevere l’assoluzione sacramentale: se anche la comunione non viene ricevuta pubblicamente ciò è un fatto, per così dire, accidentale. Infatti, sarebbe sempre possibile spiegare, a chi lo chiedesse loro, questa situazione: infatti la realtà soggettiva di quelle persone non contraddice l’oggettivo simbolismo sacramentale. Ma se un soggetto non si pone in quest’ottica veritativa che va a far coincidere realtà soggettiva e oggettiva, l’assoluzione in foro interno va a contrastare con un comportamento che la contraddice totalmente (vale a dire la non rinuncia ad una vita relazionale di tipo coniugale). Anche qui una certa dimensione morale soffoca, per così dire, la necessità scritta nel sacramentale[13]. Si è andati, in altre parole, a rovesciare il rapporto sacramento/etica: anziché far scaturire la seconda dal primo si è dato la predominanza alla seconda:
«Se il soggetto non rispetta le esigenze morali (fedeltà e indissolubilità) iscritte realmente e simbolicamente nel matrimonio (la norma concreta), e dunque vive in una condizione oggettiva di adulterio, può forse conservare una qualche comunione con Dio, per circostanze soggettive attenuanti (e la libertà di azione della grazia va sempre preservata), ma di questa grazia invisibile, vissuta nella contraddizione simbolica col sacramento, non può ottenere un riconoscimento simbolico sacramentale dalla e davanti alla Chiesa»[14].
L’indissolubilità: solo una norma generale?
Un altro problema messo in luce da Meiattini riguarda la concezione dell’indissolubilità che è vista come «una norma generale che, man mano che scende nel particolare può avere applicazioni che sfuggono alle larghe maglie della sua universalità»[15]. Senza scendere nei particolari diciamo che questa idea è mutuata da un’ulteriore incomprensione, e una conseguente cattiva interpretazione, di un altro testo di San Tommaso, vale a dire STh I-II, q. 94, a. 4. Ora è chiaro che in questo articolo Tommaso non parla della lex nova ma della legge naturale e dunque è improprio attribuire all’Angelico un certo pensiero quando, invece, egli si trova su posizioni del tutto opposte, come si evince leggendo una delle sue Quaestiones quodlibetales:
«Vi sono alcune azioni umane che hanno una deformità annessa inseparabilmente, come la fornicazione, l’adulterio, e altre cose di questo genere, che non possono essere compiute moralmente bene in alcun modo»[16].
Perciò fare un parallelismo tra legge evangelica e legge naturale costituisce uno slittamento epistemologico indebito, perché la legge evangelica sulla fedeltà matrimoniale data da Gesù «non può essere considerata semplicemente una “fonte di ispirazione” per un processo personale di decisione ma un’esigenza intrinsecamente inscritta nel matrimonio sacramentale che statuisce un nuovo essere concreto (una caro)»[17]. Infatti, l’indissolubilità non è affatto una norma generale ma rappresenta piuttosto un concretum simbolico-sacramentale: così, se postuliamo l’inesistenza di atti intrinsecamente cattivi finiamo anche per dissolvere il legame simbolico del sacramento/norma. Infatti, se esso si può sciogliere in determinate circostanze significa che si può sciogliere in via di principio: quindi è un modo per dire – sostiene Meiattini – che il soggettivo interiore prevale sull’oggettivo-sacramentale e dunque evaporano i criteri esterni richiesti dalla sacramentalità stessa[18].
Potremmo ancora dire che questa via assomiglia paurosamente al principio luterano del «sub-contrario, ovvero che l’agire della grazia possa anche manifestarsi sotto sembianze che la contraddicono»[19]: ora se è vero che le opere buone non garantiscono la presenza della grazia divina (che le precede) possiamo forse dire il contrario, cioè che neppure le opere cattive la escludono[20]?
Il punto è questo: il metodo pastorale non viene più visto come iscritto nel sacramento ma viene dedotto da criteri del tutto soggettivi: per Meiattini l’impostazione di AL è quella di far prevalere il bisogno pragmatico del pastorale su ogni esigenza teologica e teologale[21].
Il rapporto tra fede e sacramenti
L’autore conclude gettando un’ultima pietra nello stagno: forse l’idea che basti il battesimo come requisito per la validità del matrimonio, non basta più. Sappiamo, nota Meiattini, che la cresima è la nuova “estrema unzione”, con la quale ci si congeda dalla Chiesa[22]: a fronte di un paventato massimalismo della morale viviamo un pauroso minimalismo sacramentale che non ci fa ben sperare. Se l’Autore avesse scritto questo volume solo un paio d’anni più tardi avrebbe trovato nel documento della Commissione Teologica Internazionale La reciprocità tra fede e sacramenti nell’economia sacramentale[23] un appoggio di un certo peso per questa sua critica.
Come ebbi a sottolineare in un saggio di alcuni anni fa è vero che
«un’accentuazione troppo “oggettiva” della fede assomiglia fin troppo ad un neo-luteranesimo cambiato di segno dove al posto di un estremo soggettivismo (l’individuo e la sua propria fede) si cade in una oggettivazione della fede assunta come conditio sine qua non per l’accesso ai sacramenti. […]
Tuttavia, si deve anche osservare che
«se è da rifiutare in modo assoluto il sola fide luterano non possiamo cadere in un suppostamente cattolico solis sacramentis. Al contrario la Chiesa ha l’alto dovere di porre le persone nella condizione di celebrare degli autentici sacramenti, dove per autentici si deve intendere non solo validi, bensì anche fruttuosi[24]».
Pertanto, in quest’ottica diciamo, con Meiattini, che riprendere in mano i criteri di accesso all’iniziazione cristiana equivale a riprendere l’iniziativa, cosicché a una morale a basso contenuto sacramentale cessi di corrispondere una sacramentaria a basso contenuto morale[25].
[1] G.Meiattini, Amoris laetitia? I sacramenti ridotti a morale, La fontana di Siloe, Torino 2018.
[2] Meiattini, Amoris laetitia?, cit., 33.
[3] Ivi, 38.
[4] Cfr. ivi, 45.
[5] Cfr. ivi, 49-50.
[6] Ivi, 56-57.
[7] Ivi, 69.
[8] Cfr. ivi, 69-71.
[9] Cfr. ivi, 72.
[10] Ivi, 77.
[11] Ivi.
[12] Ivi, 84.
[13] Cfr. Ivi, 91.
[14] Ivi, 92-93.
[15] Ivi, 95.
[16] Quaestiones quodlibetales IX, q.7, a.2, co., cit. in Meiattini, Amoris Laetitia?, cit., 101.
[17] Ivi, 104.
[18] Ivi, 112.
[19] Ivi, 114.
[20] Cfr. Ivi.
[21] Cfr. Ivi, 128.
[22] Cfr. Ivi, 158.
[23] Commissione Teologica Internazionale La reciprocità tra fede e sacramenti nell’economia sacramentale, LEV, Città del Vaticano 2020.
[24] S. Salucci, Fede e sacramenti nel Controversiis christianae fidei di San Roberto Bellarmino. Analisi di alcuni testi e riflessioni per l’attuale dibattito, in A.Diriart – S.Salucci (a cura di), Fides . foedus. La fede e il sacramento del matrimonio, Cantagalli, Siena 2014, 89-122, 116.
[25] Cfr. Ivi, 160-161.
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