Il padre: memoria della bontà dell’origine

José Noriega

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Pubblicato per la prima volta in Bollettino di Dottrina Sociale della Chiesa XVII (2021) 85-91. Riprodotto qui per gentile concessione dell’editore.

«Il denaro mi è stato dato ieri da Smerdiakov, l’assassino… Sono andato a casa sua prima che si impiccasse. È stato lui a uccidere mio padre e non mio fratello. Lui lo ha ucciso e io l’ho incitato… Chi non desidera la morte di suo padre?»[1].

Così risponde Ivan Karamazov al giudice. Dietro c’è la tragedia dello stesso Fëdor Dostoevskij davanti alla morte umiliante di suo padre per mano dei suoi servi. La sua morte era stata desiderata molte volte da Fëdor: non sopportava suo padre.

Altra è la storia di Telemaco, che risponde così al guardiano di porci Eumaeus che gli aveva appena narrato gli eccessi che si erano verificati a causa dell’assenza di suo padre Odisseo: «Molto triste è, ma lasciamolo anche se ci addolora; perché se tutto dovesse essere fatto a discrezione dei mortali, per prima cosa vorrei il ritorno del padre»[2].

Sono due visioni molto differenti – il desiderio della morte del padre e il desiderio del ritorno del padre – che corrispondono a due epoche molto diverse. Nella nostra, devastata dall’assenza del padre, non sta germogliando il desiderio del suo ritorno?

Ma che tipo di padre vogliamo vedere tornare: un padre “amico”, un soddisfacitore di bisogni, un esperto nella risoluzione dei problemi? Quello sarebbe un padre liquido, inconsistente, adattabile ai mutevoli desideri del bambino e della donna, un padre ridotto alle funzioni che svolge e, quindi, intercambiabile e dispensabile.

Papa Francesco ha evidenziato il tema della paternità riproponendo la figura di San Giuseppe. Non è forse un tentativo nostalgico di riabilitare una questione ormai perduta? Anche la proposta della paternità speciale di San Giuseppe, basata su una scelta, non annacqua la paternità basata sul “generare”?

Il confronto di San Giuseppe con la tragedia della paternità attuale può aiutarci a capire che tipo di padre stiamo aspettando: aspettiamo un padre che non abbia paura di accogliere il figlio, di dargli un nome, di aprirlo alla realtà, di crescere con lui, di accompagnarlo perché possa diventare padre di se stesso e degli altri. Questo padre vive una paternità “simbolica”: permette nel bambino l’alleanza con l’alterità, unendo origine e destino. Aspettiamo il ritorno di un padre come memoria di una buona origine, piena di speranza.

Per scoprirlo, sarà necessario fare due passi: (1) superare la paura di generare e (2) riconoscere qual è la sua missione e identità, attraverso le pratiche della paternità.

1. Superare la paura della paternità

«Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere Maria tua moglie, perché il bambino che è in lei viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio e tu gli porrai nome Gesù» (Mt 1,20-21). Qual era l’oggetto del dubbio di Giuseppe? Un’interpretazione immediata direbbe che Maria era l’oggetto del suo dubbio: cioè l’origine della sua gravidanza. Non essendo stato lui, lo sarebbe stato qualcun altro, e così avrebbe deciso di ripudiarla in segreto. Ma sarebbe giusto per Giuseppe dubitare della testimonianza di Maria? Tra loro avranno necessariamente parlato. Un’altra interpretazione propone che il contenuto del dubbio non ricada tanto su Maria quanto su Giuseppe stesso[3]. Cioè, Giuseppe, credendo alla testimonianza di Maria, dubita del proprio posto nella relazione con il Figlio di Maria. Essendo Dio intervenuto in un modo così importante, sorge in lui il santo timore: come porsi? Non vede il suo posto e decide di ritirarsi per non rovinare il piano di Dio. La paura di Giuseppe è la paura di essere il padre di un bambino che è al di sopra di lui, nel quale c’è una chiara azione di Dio.

La modernità ha risvegliato in sé un fantasma: la paura di essere padre. Non è semplicemente che i cambiamenti nel mondo del lavoro hanno favorito la rottura generazionale per indirizzare il capitale umano verso altri tipi di lavoro, o che fosse più conveniente avere famiglie con meno figli per affrontare il lavoro di entrambi i genitori, con le conseguenti difficoltà nel rapporto paterno-filiale. Il punto è che la rottura è stata giustificata teoreticamente sulla base del fantasma del padre castratore, per il quale il bambino era visto come l’oggetto che gli permetteva di perpetuarsi, di realizzare i propri progetti. «Non ci sono buoni padri, è la norma; non accusiamo gli uomini, ma il legame di paternità che è marcio. Non c’è niente di meglio che ‘fare figli’; d’altra parte, che iniquità averli! Se mio padre fosse vissuto, si sarebbe imposto nella mia vita e mi avrebbe schiacciato. Per fortuna è morto giovane», scrisse Jean Paul Sartre[4].

Il figlio dei tempi moderni si vede come un figlio che è stato dominato da suo padre, che è caduto in declino, che è malato. Freud ha svelato il meccanismo profondo all’opera: “uccidere il padre” affinché il figlio possa essere se stesso. E ha mostrato come questo tentativo simbolico sia stato folle, perché il padre morto è diventato ancora più imponente di quello vivo: ha generato la coscienza della legge, della religione, della società. Fëdor Dostoeskij uccise suo padre nel desiderio, ma questi, da morto, tuttavia riuscì a generare senso di colpa e nevrosi, rendendo la sua vita impossibile[5].

Tutto questo, insieme a una crisi globale dell’autorità, ha fatto fare ai padri diversi passi indietro: in primo luogo, non assumendo la loro responsabilità nei confronti dei figli. Così il padre è diventato liquido, adattabile, anche evanescente, gassoso, fino ad evaporare: non c’è più, si è eclissato. Il risultato è chiaro: non è semplicemente che il padre è assente dalla vita dei figli, ma che i figli vivono in assenza del padre[6]. Ciò che è importante qui non è il fatto che molti padri non possono essere presenti nella vita dei loro figli, ma quei bambini possono essere ugualmente cresciuti con il riconoscimento simbolico della figura paterna. Il problema è quando il bambino non riconosce simbolicamente la figura paterna perché nella sua famiglia, nella sua scuola e nella società c’è un’assenza simbolica del padre.

E qual è il problema? I bambini, in una società senza padre, avranno gravi difficoltà a prendere decisioni e a diventare adulti, padri a loro volta[7]. L’assenza del padre fa sì che la vita diventi un progetto puramente personale[8]. È la società degli eterni adolescenti.

Il passo successivo è più duro: perché essere padre? Perché generare? Generare una vita è dannoso, sia per l’individuo che per il bene del pianeta: perché genera un essere insaziabile nel suo desiderio, che vivrà una vita frustrata, e che rovinerà l’ecosistema. Così, uno dei guru dell’antinatalismo, David Benatar, conclude: «è un dovere evitare la procreazione»[9].

Da una società senza padre siamo sulla via di una società senza figli.

Il padre post-moderno avrebbe bisogno di rileggere la storia di Abramo con suo figlio Isacco. Lì imparerà che, per diventare un vero padre, anche lui deve compiere un’operazione simbolica: “uccidere il figlio”, cioè uccidere l’idea di figlio che si è fatto, uccidere il suo progetto per assumere il figlio qual è[10].

E in questo, San Giuseppe ci mostra la strada. Perché l’importante non è come uno si veda in quanto padre, l’idea che abbia di suo figlio, se saprà fare il padre o no … ciò che è importante è riconoscere la radicale novità che ogni bambino porta, e come questa novità è radicata nel disegno di Dio per il bambino stesso. “Gli porrai nome”. Non si diventa padre semplicemente per un proprio progetto, ma si capisce che nella paternità si realizza un progetto divino che preserva la novità del bambino. Accettare questo progetto divino è uno dei nodi radicali della genitorialità, come dimostra il caso della paternità adottiva[11].

La paura di essere genitori svanisce quando comprendiamo che noi non siamo l’origine radicale del bambino: nella nostra origine si esprime un’altra Origine che è l’ultima garanzia della dignità e dell’idiosincrasia di ciascuno.

2. Riconoscere la nostra missione e identità del padre

Siamo abituati a valutare le cose per la funzione che svolgono. La paternità è stata vissuta con diverse funzioni nel corso della storia e nelle diverse civiltà. È quindi difficile valutare quale sia “la funzione” del padre, se per essa si intende un “fare” che è esclusivo di lui. Perché una funzione – come fare – può essere intercambiabile. Per questa strada si arriverebbe solo alla rivalità.

Una missione è più legata all’identità della persona, alla sua vocazione, al suo destino, e quindi ha un valore simbolico. San Giuseppe lo capì nelle brevi parole dell’angelo: “gli porrai nome”. Non si trattava del fatto, ma del significato: “porre nome” significava inserire il bambino nella propria linea genealogica, nella propria stirpe, nella propria tradizione e quindi assumere la responsabilità di ciò che questo significa.

Parlare della missione e dell’identità del padre è riconoscere l’”eccedenza di senso” che essa comporta, secondo l’idea di Ricoeur, perché non si esaurisce nella funzione, in ciò che appare. Il padre genera una vita insieme alla donna. Questo è il fatto. Ma quale vita genera? Che relazione ha la generazione con la pienezza umana? È vero, egli genera la vita di una persona, ma quella vita è originariamente e definitivamente legata alla sua, e in questa relazione entrambe cambieranno e diventeranno più di quello che sono. L’origine si apre, quindi, a un telos. Così la paternità è simbolica, non solo perché evoca, ma perché rende possibile una nuova pienezza: unisce al destino ultimo. «Il padre è molto più che padre»[12], che cos’è? Vediamolo attraverso le azioni e le pratiche essenziali della paternità: generare, porre nome, proteggere, educare.

Tre avvertenze essenziali emergono per poterle interpretare adeguatamente: la prima, evidente: queste azioni non sono fatte dal padre da solo, ma in relazione alla madre, e solo in questa relazione si può apprezzare ciò cui ciascuno contribuisce, perché ciascuno contribuisce a partire dalla provocazione della relazione. La seconda, non così evidente: queste azioni sono il più delle volte azioni indirette, oblique, quindi vengono comprese alla luce del frutto o dell’intenzione globale e non alla luce di ciò che intendono immediatamente. Quando si “intende” essere padre, allora si diventa il fantasma del padre. In terzo luogo, queste azioni implicano un progressivo conformarsi alla paternità. Non si nasce padre, lo si diventa col tempo, e lo si diventa nelle età della paternità, dispiegando così l’identità relazionale in modo più profondo.

Esaminiamo le pratiche in questione.

a. Generare

Giuseppe non dubitò del potere dello Spirito di generare il Figlio che Maria portava nel suo grembo. Il suo santo timore era di lasciare che Dio fosse e agisse come Dio. L’angelo gli ha mostrato come: accettando la chiamata divina. Ed è qui che l’uomo di oggi può essere aiutato a capire che nel generare si compie una vocazione divina.

L’azione di generare un uomo è un’azione molto singolare: perché si genera in un’azione comune, dell’uomo e della donna, mossi da un desiderio radicato nel corpo e nell’affetto, il cui scopo intenzionale non è “produrre un figlio”, ma donarsi reciprocamente nella sessualità. Il fatto che il bambino provenga o meno da tale azione non è più un “prodotto” della loro azione, ma un frutto, un dono che Dio fa nel dono reciproco, fecondando il dono con la creazione dell’anima che anima il suo corpo: quel bambino sarà della sostanza dei suoi genitori, ma anche immagine di Dio. Uno diventa padre per il dono alla donna, e per l’accettazione nel dono reciproco del dono che Dio fa.

Sì, è vero, ogni uomo e ogni donna che si consegnano sessualmente sanno che possono diventare genitori. Questa è la loro responsabilità procreativa. Capiscono che questo dono sessuale è molto più di un atto sessuale, perché li unisce al loro destino: essere una sola carne, potendo generare un figlio della loro stessa sostanza. All’origine della nostra vita, dunque, c’è la speranza di un uomo e di una donna che comprendono la bontà di ciò che fanno e di ciò che può venirne come frutto. E nell’abbracciarsi, abbracciano anche il bambino che potrebbe venire. Il piacere stesso che provano è la memoria originale della gioia del Creatore: “E Dio vide che era molto buono”.

Così capiamo perché Gabriel Marcel ha detto che all’origine della paternità c’è il “voto creativo”, che sarebbe come un “fiat” con cui “decido di mettere tutte le mie energie al servizio di questa possibilità” che Dio mi dà, alla maniera di una vocazione. La paternità cessa allora di essere solo la fine di un processo biologico e diventa un’azione umana, del tutto particolare, è vero, ma in cui la decisione dell’uomo è presente come un consenso a una vocazione divina. Ecco la ragione per cui il padre può cadere in ginocchio davanti al figlio appena nato, e lasciarlo essere se stesso senza pretendere di decidere cosa sarà nella vita[13].

L’uomo apprende la sua paternità attraverso la parola della donna. È a lei che dà credito su qualcosa di essenziale per se stesso. Quella espressione: “sono gravida”, non indica solo l’origine, ma anche il futuro: sono parole che aprono un futuro comune più ricco, più pieno. Il credito è a questa pienezza comune.

Ma il padre non dà questo credito solo alla donna, lo dà anche a Dio.

E questo è il credito che San Giuseppe diede a sua moglie e a Dio: quel Bambino, la cui origine era nell’azione dello Spirito e nel fiat di Maria, della sostanza di Dio e della sostanza di Maria, era un futuro ricco per loro e per l’umanità. La cosa sorprendente fu che Dio lo affidava a lui, alla sua fedele custodia. Ora Giuseppe comprende la sua vocazione e la sua missione. E può dare il suo voto creativo, il suo fiat, e accogliere sua moglie e il bambino, unendo il loro destino al suo.

È qui, nel voto creativo, che i tre momenti della generazione: il donarsi reciproco, il ricevere la notizia che si sta per diventare padre e l’abbracciare il proprio figlio appena nato, acquistano il loro significato simbolico. Questo voto prende la forma di un consenso ad una vocazione divina, promettente e carica di speranza.

b. Porre nome

Fu il primo lavoro di Adamo ed Eva: dare un nome a tutti gli animali. Con questo hanno espresso uno degli elementi dell’essere immagine di Dio: dominare la creazione, distinguere e separare i viventi.

Sulla persona umana il nome non si impone come sugli animali. Domina chi possiede. Possiede chi impone il nome. Ma noi uomini non ci possediamo: apparteniamo gli uni agli altri. Il figlio è dei genitori? Solo quanto i genitori appartengono al figlio. Riceviamo il nome perché colui che ci dà il nome ci accoglie nella sua stirpe e in questo modo può nascere un’appartenenza reciproca. Dire “tu sei mio figlio” può essere detto solo quando il figlio può dire a sua volta “tu sei mio padre”. Il fratello maggiore della parabola non lo sapeva, e suo padre dovette ricordarglielo: “Figlio, tutto ciò che è mio è tuo”.

Giuseppe dà un nome a Gesù. È un nome che ha ricevuto dall’angelo, pieno di storia: “Yahweh salva”. Indica l’identità stessa del Bambino. E con il nome va il suo cognome: bar Yosef, Gesù figlio di Giuseppe. In Israele, “porre nome” era l’essenza della paternità. Quindi San Giuseppe è, a tutti gli effetti, il padre di Gesù. E così entra nella sua stirpe, la stirpe di Davide, come colui che la porterà a compimento.

Cosa significa introdurre nella propria stirpe? Significa introdurre nella propria tradizione, in ciò che è stato ricevuto come la cifra del senso della vita. Per introdurvi, è necessario decidere di far partecipare il proprio figlio a ciò che significa essere parte di questa famiglia in questa società. È come un “voto familiare” che questo bambino, a causa di ciò che riceve, possa essere riconosciuto come un suo membro.

L’uomo di oggi genera, ma ha paura di assumersi la responsabilità di suo figlio, di porgli un nome e di introdurlo nella sua stirpe. La banalità dei nomi che i bambini ricevono oggi, non è forse un segno di questo? Sì, dietro c’è il complesso del padre castratore: non si vuole soffocare il bambino, imporre un destino. Lasciatelo scegliere da solo. Ma come può scegliere se non appartiene a una stirpe, se non ha ricevuto la cifra di una tradizione?

Era nella cerimonia della circoncisione che avveniva l’assegnazione del nome. Il membro sessuale maschile è circondato, infliggendo una ferita. Il padre è chiamato a infliggere una ferita al figlio, come ha giustamente sottolineato Claudio Risé[14]. Una ferita? Sì, perché il figlio vive in simbiosi con la madre, nel sogno di poter avere tutto. Il padre ferisce per liberare il bambino dalla smania di onnipotenza. Freud l’ha visto. Il complesso di Edipo indica il tentativo di accesso sessuale alla madre e ai suoi surrogati. Ciò che conta qui è che la madre è vista come colei che soddisfa i bisogni, colei in cui si ottiene l’appagamento. Con lei potrà vivere il “principio del piacere”. Un tale bambino verrebbe così soffocato. Essendo ferito, il bambino saprà di essere figlio di un padre che gli apre un nuovo spazio, un cammino, un futuro.

Qui sta l’autorità del padre: nel “far crescere il bambino”. L’etimologia di autorità, non è il verbo augeo? E non c’è crescita senza ferite.

Oggi il conferimento del nome avviene nel battesimo. È la prima domanda che il ministro fa: “Che nome avete scelto per vostro figlio?” Davanti alla Chiesa ha luogo l’atto con cui il padre riconosce il suo bambino, gli dà un nome e gli infligge una ferita. Come Giuseppe, qui riconoscerà che suo figlio è anche figlio di Dio. Come Abramo, rinuncerà al suo piano per accettare quello di Dio su di lui. Lì dovrà prendere forza per infliggere una ferita e per evitare la simbiosi. È la terza domanda del ministro: “Nel chiedere il battesimo, sapete che siete obbligati a educarlo nella fede?

c. Proteggere

La protezione offerta dal padre ai figli è una delle funzioni più evidenti oggi, anche se molto discussa. Sì, perché se oggi Nostro Signore raccontasse la parabola del figliol prodigo, cambierebbe la trama: non sarebbe il figlio minore a lasciare la casa, ma il padre, con sorpresa dei figli. Certo, a volte il padre se ne va perché non vede il suo posto in casa, e non pensa di indebolire la famiglia perché anche questa funzione di protezione è stata ormai assunta dalla madre.

La nostra difficoltà è capire di cosa sia custode il padre. Lo è, certo, della vita di fronte ai pericoli minacciosi. Ma questi pericoli non sono solo quelli che riguardano la vita e la salute. Sono anche i pericoli che mettono in gioco la speranza originaria, il voto creativo, la promessa di Dio ai figli.

Ed è qui che i genitori di oggi hanno più bisogno di chiarezza per discernere i pericoli che mettono in discussione il destino stesso dei loro figli. Non solo la chiarezza, ma il coraggio di abbandonare i luoghi a rischio, perdendo la propria comfort zone. Andare in Egitto non doveva essere semplice per Giuseppe.

Proteggere il bambino diventa allora difendere il suo destino. La situazione estrema fa svanire il fantasma del padre eviratore ed emerge il simbolo del padre capace di dare la vita per suo figlio[15]. Ecco il vero potere del padre: la sua capacità di dare la propria vita affinché il figlio viva e viva una vita piena[16]. Benigni con il suo film La vita è bella ci ha mostrato come la consegna del padre ha permesso al bambino di gridare: “abbiamo vinto!”, ed è per questo che il suo autore ha svelato alla fine: “questa è la storia del sacrificio di mio padre”[17].

d. Educare

Non sappiamo come sia stato l’intero processo educativo di Gesù. I pochi dettagli che abbiamo sono preziosi per delineare alcuni aspetti decisivi: la partecipazione della Sacra Famiglia ai riti liturgici, e il lavoro di Gesù, falegname come suo padre.

Il fatto è che “educare”, come “generare”, è un’azione indiretta, obliqua. Spaemann ha dimostrato che quando i genitori “cercano” di educare attraverso l’azione diretta, il più delle volte falliscono: il bambino si chiude e non riceve nulla. Mentre quando i genitori o gli educatori “fanno cose buone” con i loro figli, cose che di per sé hanno forza e significato, allora succede qualcosa di meraviglioso: un effetto, un frutto rimane nei bambini. Cosa? Cambiano, facendo proprio il modo di essere dei genitori[18].

Giuseppe introdusse suo figlio nei riti religiosi della famiglia e questo ebbe un effetto sul cuore di Gesù: aprire la sua preghiera al ritmo del popolo di Dio, partecipare così alla gratitudine e alla supplica di un popolo. Giuseppe introdusse suo figlio al suo lavoro di falegname, e questo ebbe un effetto sul cuore di suo figlio: assimilare lo stile di lavoro di suo padre, come un compiere la creazione del Padre per costruire una società dove si possa vivere come figli di Dio.

Questo fare cose buone con i bambini è un approfondimento della ferita della circoncisione. Perché queste “cose buone” sono cose per le quali il bambino non è ancora pronto. Sono al di là di lui. Potrebbe farsi male. La tentazione è quella di rimanere sotto il riparo della madre. E il padre deve correre un rischio, chiedere al bambino di fare qualcosa che non sa ancora fare, in cui forse fallirà a causa della sua mancanza di esperienza.

Il dipinto di Van Gogh “I primi passi” ne è un potente esempio. La madre porta la bambina a vedere il padre nel frutteto, tenendola per le braccia. E ora il padre, dopo aver posato la zappa, chiama la bambina e le apre le braccia perché venga da lui. Quella bambina potrebbe inciampare e farsi male. La madre deve accettare di lasciare andare il bambino affinché possa imparare a camminare. Il padre sostiene la madre, perché si mostra capace di resistere alle ferite della figlia. È in questa fiducia reciproca e nell’accettazione dei diversi ruoli che il bambino imparerà a camminare, avrà un nuovo spazio e potrà affrontare il futuro come un’avventura.

Sì, educare è introdurre nella realtà. Questo è l’approccio di Giussani[19]. Winter vedrebbe il padre come quella voce primitiva che ricorda ad ogni essere umano la presenza di un’alterità irriducibile che impedisce al bambino di pretendere di ridurre il mondo a se stesso: è il padre che impedisce il sogno narcisistico di pretendere che “io sono il mondo”[20]. È il padre che apre il bambino alla realtà.

Ma educare, è introdurre o tirare fuori ? L’etimologia si riferisce a educere, tirare fuori, tirare fuori dal bambino qualcosa che ha dentro. Cosa? Se si tratta di introdurre, tornerebbe il fantasma del padre ingiungente che introduce il bambino al proprio progetto. Se si tratta di tirare fuori, cosa si tira fuori? Un riconoscimento. Il figlio riconoscerà che i suoi desideri fanno riferimento a un desiderio radicale e che quello solo si compie dentro la legge; riconoscerà che il suo bene personale solo si compie nel bene comune, prima della famiglia e dopo della società, non come aggregazione di beni, ma come partecipazione a qualcosa di più grande. Quello più grande appare come un telos, dove la vita si fa piena.

Come mai? Freud sbagliava, il desiderio non è pulsione bruta. Ha un senso. E quel senso emerge negli amori che riceviamo. Perché il padre offre un amore nuovo al bambino che conforma la spinta naturale del desiderio e lo rivolge non alla soddisfazione ma a un rapporto reciproco: fidandosi il bambino agisce, e agendo riconosce la conformità di quel rapporto con il suo desiderio profondo. Il padre tira fuori dal dono del suo amore che ha offerto al figlio, e che permane in lui a modo di una presenza interiore[21]. Infatti, il desiderio nasce non da una facoltà, ma da un’esperienza passiva, dall’esperienza d’essere toccati, mossi, o commossi, da altri interessati a me. Il desiderio nasce dall’affetto»[22]. In questo modo, arricchito dall’amore e riconoscente della conformità del suo desiderio con la legge, il figlio potrà introdursi nella realtà umana. Quel figlio diventa padre di se stesso.

Benedetto XVI ha parlato di “emergenza educativa”. Si è perso il senso di ciò che è educare. Ed è stato lasciato nelle mani di “esperti”. San Giuseppe ci aiuta a riprendere il protagonismo educativo, perché educare è semplicemente fare cose buone con i nostri figli; seguire i riti religiosi, lavorare insieme, studiare con loro, andare insieme alla montagna, o di visita ai parenti, e tante altre cose. Sono pratiche comuni che, per la loro bontà e bellezza, hanno un effetto educativo.

Addirittura, le carenze dei genitori hanno anche il loro effetto educativo[23]. San Giuseppe ha avuto giorni in cui ha detto a se stesso: “Ho fallito”. Fu quando andarono al tempio perché Gesù potesse avere il rito con cui divenne un israelita a pieno titolo, un “figlio della legge”. Strano che il Bambino fosse rimasto nel tempio, da qui la lamentela di sua Madre: “Figlio, perché ci hai trattato così? Tuo padre ed io ti abbiamo cercato con angoscia”. Ma soprattutto strana la risposta di Gesù: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2,48-49). Con questo mostra qual è la questione radicale dell’adolescenza. Oggi è vista come un problema di identità, conseguenza del nuovo interesse sessuale. Non dubito che questo sia importante, ma ha bisogno di un quadro di riferimento più ampio per poterlo integrare. Nel rapporto tra “tuo padre”, Giuseppe, e “mio Padre”, Yahweh, si gioca il nodo decisivo dell’adolescenza: questo che tu mi dici o mi comandi, è così perché tu mi dici o mi comandi, o è così perché il Padre lo dice o lo comanda? C’è una verità sopra di te?

L’adolescenza è il momento in cui il bambino provoca ai genitori di mostrargli il fondamento di ciò che gli è insegnato. È il momento di rivolgere il figlio al Padre in quanto Origine ultima della loro paternità. Non è “la mia verità” ma “la verità”, radicata in Dio. È il momento in cui il padre deve rendere conto del voto creativo che è stato all’origine dell’esistenza di ogni bambino.

Così si capisce perché Gesù è ancora obbediente ai suoi genitori quando scende a Nazareth. Questa nuova maturità è radicata nella sua consapevolezza che è a suo Padre che obbedisce quando obbedisce ai suoi genitori.

Anni dopo poteva dire: “E non chiamate nessuno sulla terra vostro padre, perché avete un solo Padre, il Padre che è nei cieli” (Mt 23,9). Ciò che il Signore non vuole è che il padre sulla terra oscuri il Padre in cielo[24]. Al contrario, come egli stesso dice di sé: “chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9).

Gesù diventa il “Padre dei secoli futuri” (Is 9,6). Essendo il Figlio di Dio e di Maria, ha dato se stesso per la Chiesa, sua sposa, e il frutto della sua donazione sponsale è che il Padre lo rende padre, generando la sua vita in noi[25].

Quindi ci è chiaro: tutto il processo educativo è rivolto affinché il figlio diventi padre a sua volta.

Conclusione

Sì, da Karamazov a Telemaco, dal desiderio della morte del padre al desiderio del suo ritorno, dal fantasma del padre al padre simbolico. Ecco il processo in cui siamo coinvolti.

Non è la fatticità del padre, ma la sua figura simbolica: è questo che vogliamo ritorni. Un adattamento è necessario nel padre. Ma anche nel bambino. E nella società. E nella Chiesa. Vogliamo che ritorni il padre che dà un nome, colui che è la memoria della bontà dell’origine, quello che riconcilia il desiderio e la legge, l’origine e il destino.

Telemaco doveva riconoscere suo padre e Atena lo aiutò a farlo. Oggi San Giuseppe aiuta, mostrando che nell’origine c’è una vocazione divina. Quando il padre la accoglie, nelle sue pratiche di paternità mostrerà la speranza originaria, e quindi l’Origine ultima. Inoltre, queste pratiche lo renderanno più padre, in un processo di pienezza che allarga la sua vita e gli permette di traboccare di più in suo figlio.

  1. F. Dostoyesky, Los hermanos Karamazov, Edaf, Madrid 1991, XII, V, p. 716.

  2. Omero, Odisea, XVI-147.

  3. X. Leon-Dufour, “Le juste Joseph”, in NRT 81 (1959), pp. 225-231.

  4. J.P. Sartre, Les mots, Gallimard, Paris 1964, p. 11.

  5. S. Freud, “Dostoievski y el parricidio”, Obras completas, Tomo XXI, Amorrortu, Buenos Aires 1998, pp. 175-191.

  6. Cfr. J.P. Winter, El futuro del padre. ¿Reinventar su lugar?, Didaskalos, Madrid 2020.

  7. Cfr. A. Mitscherlich, Verso una società senza padre, Feltrinelli, Milano 1970; G. Mendel, La révolte contre le Père, Payot, Paris 1968.

  8. Cfr. G. Angelini, “Evaporazione del padre e sfinimento della cultura”, in Anthopotes 35 (2019), pp. 101-128.

  9. D. Benatar, Anti-natalism, in D. Benatar – D. Wasserman, Debating Procreation: Is it Wrong to Reproduce? Oxford University Press, Oxford 2015, pp. 85-100. Per la citazione, p. 112.

  10. Cfr. C. Granados, “Abraham: la génesis de un padre”, in Anthropotes 35 (2019), pp. 39-54.

  11. Cfr. A. Vanoni, “Adozione e paternitá adottiva”, in Anthropotes 12 (1996), pp. 327-336.

  12. Cfr. P. Ricoeur, “La paternité: du fantasme au symbole”, in Id., Le conflit des interprétations, Seuil, Paris 1969, pp. 458-486.

  13. G. Marcel, “Le voeu createur comme essence de la paternité”, in Homo viator, Aubier-Montaigne, Paris 1945, pp. 127-161, especialmente p. 153.

  14. Cfr. C. Risé, Il padre, l’assente innacettabile, San Paolo, Cinisello-Balsamo 2004, cap II.

  15. Ricoeur, cit., p. 458.

  16. Cfr. I. Serrada, “El padre: del fantasma al símbolo. La aportación de Paul Ricoeur”, in Anthropotes 35 (2019), pp. 79-99.

  17. Si veda l’interpretazione di Winter, cit., pp. 71-90.

  18. Cfr. R. Spaemann, “Educación para la realidad. Discurso con motivo del aniversario de un hospicio”, in Íd., Límites. Acerca de la dimensión ética del actuar, Eiunsa, Pamplona 2003, pp. 478-486.

  19. Cfr. L. Giussani, “Introduzione alla realtà totale”, Atti della Conferenza del 20 giugno 1985 a Milano, in “Quaderni di Tracce”, n. 2, febbraio 2006.

  20. Cfr. Winter, cit., pp. 133-134.

  21. Cfr. L. Melina, Cristo e il dinamismo dell’agire, PUL-Mursia, Roma 2001.

  22. Angelini, cit., 125

  23. Cfr. F. Hadjadj, To be a Father with Saint Joseph. A Little Guide for an Adventurer in Postmodern Times, Magnificat, New York 2021.

  24. Cfr. E. Vetö, “Divine Paternity and Human Paternity. Source without an Origin, Origin without a Source”, in Anthropotes 35 (2019) 15-37

  25. Cfr. J. Granados, “Priesthood: A Sacrament of the Father”, in Communio 36 (2009)

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José Noriega

José Noriega

Durante 18 anni José Noriega ha insegnato la Teologia morale speciale come Professore ordinario al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II, Roma, 2002-2019 Attualmente insegna Fundamental Moral Theology, al Seminario St. John Vianney di Denver, CO. Tra le sue pubblicazioni: Gli enigmi del piacere: cibo, desiderio e sessualità (2014) Il destino dell’eros. Prospettive di morale sessuale (2006) Con L. Melina e J.J. Pérez-Soba, Camminare nella luce dell’amore. I fondamenti della morale cristiana (2008) Con R. & I. Ecochard, ha editato Dizionario su sesso, amore e fecondità (2019).

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