Recensione: S. Goertz – M. Striet, eds., Johannes Paul II. Vermächtnis und Hypothek eines Pontifikats, Freiburg i.Br. 2020 [Sull’eredità e l’ipoteca del Pontificato di Giovanni Paolo II]
Jarosław Merecki
L’anno del centenario della nascita di Giovanni Paolo II è stato una buona opportunità per riflettere su vari aspetti del suo pontificato, del suo significato per la storia, la politica, la vita della Chiesa, ma anche – e dal nostro punto di vista soprattutto – sul significato del suo insegnamento teologico e sulla sua eredità. Fra le diverse pubblicazioni – tante di carattere celebrativo, altre scritte dagli autori in sintonia con la visione teologica di Giovanni Paolo II – vale la pena riflettere sul libro pubblicato a cura di due teologi tedeschi, Stephan Goertz e Magnus Striet, e intitolato “Giovanni Paolo II. Eredità e ipoteca di un pontificato” (Johannes Paul II. Vermächtnis und Hypothek eines Pontifikates, Herder 2020) proprio perché gli autori di questa raccolta (tutti i testi sono di autori tedeschi) vedono la dimensione teologica del pontificato di Giovanni Paolo II piuttosto in una luce critica e negativa – proprio come un’ipoteca pesante per la Chiesa. È senz’altro interessante conoscere e sottoporre ad analisi critica anche i loro argomenti.
Come ho detto, il tenore di quasi tutti i saggi che la raccolta contiene (tranne uno) è critico. Già nella prefazione al libro i suoi curatori spiegano in che senso intendono l’ingombrante ipoteca lasciata alla Chiesa dal Papa polacco. Essa consiste nella pretesa della verità assoluta (absoluter Wahrheitsanspruch) nell’insegnamento morale della Chiesa in una società pluralista. Una tale pretesa rende la Chiesa troppo rigida di fronte agli sviluppi della cultura moderna (come esempi gli autori citano la relazione uomo-donna, la resistenza contro la sempre più crescente liberalizzazione in tema di difesa legale della vita) e in definitiva porta la Chiesa alla perdita del suo ruolo sociale, marginalizzandola.
Verso la fine della loro introduzione i curatori formulano allora il postulato, secondo cui, per evitare la perdita di rilevanza della Chiesa nel mondo contemporaneo e per riacquistare la libertà della teologia (presumibilmente persa o almeno in larga misura limitata durante il pontificato di Giovanni Paolo II – come si sostiene nella prefazione), bisogna prendere le distanze da questo ingombrante pontificato.
Lasciamo da parte l’ampio contributo di Daniel Deckers intitolato “Il papa che agiva globalmente”, non perché non tocchi temi importanti (l’autore parla p. es. della crisi legata agli abusi sessuali) e non perché non meriti una serrata critica, ma perché esso non tratta degli argomenti filosofici e teologici.
Più interessante è per noi il secondo contributo in cui Magnus Striet parla della fine di un’epoca nel Magistero della Chiesa. È interessante notare dove l’autore identifichi il nocciolo del problema. La modernità ha messo nel suo centro la libertà della coscienza e l’autonomia della ragione. Secondo l’autore, il vero filosofo della modernità è Immanuel Kant. Con lui si deve abbandonare il vecchio concetto della legge naturale, che era radicato nella metafisica o nella religione, e optare per la legge della ragione (Umstellung von Natur- auf Vernuftrecht) che si realizza nella sua autonomia rispetto alle istanze esterne. Naturalmente così è molto difficile, anzi impossibile, parlare dell’autorità della Chiesa per quanto riguarda le questioni morali (a dire il vero è molto difficile anche parlare dell’autorità del Vangelo e di Gesù stesso, dato che queste sono sempre istanze esterne alla coscienza autonoma dell’individuo). Così, non a caso, nel titolo del suo contributo Striet parla della fine di un’epoca nel Magistero (das Ende einer Lehramtsepoche). Nell’ottica proposta dall’autore sarebbe però più giusto parlare della fine del Magistero come tale, dato che, con la concezione della coscienza che egli propone, ogni autorità nelle questioni morali appare come prepotenza, istanza che minaccia l’autonomia della ragione e della coscienza. Perciò non sorprende che l’autore veda il Magistero piuttosto come strumento che serve al consolidamento del potere romano (die Stabilisierung der römischen Machtansprüche).
Uno degli esempi del processo di passaggio dalla legge naturale alla legge della ragione è per l’autore la morale sessuale e più generalmente il modo in cui si intendono la relazione uomo-donna, il matrimonio e la famiglia. Non sorprende il fatto che qui l’autore segua la mentalità occidentale media (o dei media) per quanto riguarda l’approvazione dell’omosessualità, il sesso prematrimoniale o la contraccezione, anche se egli stesso constata che i fatti non possiedono di per sé forza normativa. La sua argomentazione rimane però proprio sul piano dei fatti (persino la maggioranza dei cattolici pensa così – dice Striet) e neppure una volta si riferisce alla rivelazione o alla tradizione della Chiesa.
L’autore giustamente sostiene che nel confronto tra la sua posizione e quella di Wojtyła – che egli, non si sa perché, chiama “teologo morale”, anche se parla dei suoi scritti filosofici – abbiamo a che fare con due tipi di pensiero eterogenei. Striet identifica questa eterogeneità nella contrapposizione fra Wojtyła e Kant (e naturalmente si schiera con Kant). Secondo me, la differenziazione non è così netta. In primo luogo, Wojtyła critica, ma anche apprezza l’impostazione dell’etica di Kant che parte dall’imperativo categorico. Infatti, la sua norma personalistica non è altro che una riformulazione della formula di Kant. In secondo luogo, Kant stesso sarebbe contrario – e infatti era contrario, come possiamo leggere nei suoi scritti – a tutta la visione della morale sessuale proposta da Striet. Allora, forse la divisione non è così chiara come vorrebbe l’autore tedesco?
In ultima analisi – e l’autore ne è consapevole – il nocciolo del problema sta nella relazione fra libertà e verità. Per Striet l’autodeterminazione autonoma consiste nel definire la propria verità che viene sanzionata da Dio (das Recht auf autonome Selbstbestimmung, die gewürdigt werden will und Gott selbst diesem Recht entspricht). Per Wojtyła la libertà consiste invece nell’autonoma ricerca della verità che però è oggettiva, nella sua esistenza non dipende dalle decisioni della libertà. Vale la pena ricordare che nelle sue analisi teologiche Joseph Ratzinger ha mostrato che la tesi dell’esistenza della verità oggettiva è parte integrante della fede in Dio Creatore.
Il saggio seguente – dell’altro curatore del libro Stephan Goertz – è intitolato “‘Libertà? Quale libertà?’ La strana lotta di Giovanni Paolo II per la dignità della persona”. La prima parte del titolo riprende le parole dello stesso Giovanni Paolo II, pronunciate in Polonia, a Włocławek, quando il papa, partendo dal testo scritto della sua omelia, ha riflettuto sul senso della libertà ponendo la domanda sul criterio di ciò che è autenticamente europeo. In quell’occasione il pontefice disse: “Libertà? Quale libertà? La libertà di togliere la vita ad un bambino non ancora nato?”. Per un teologo cristiano questo criterio negativo della libertà non dovrebbe essere controverso. Perché allora la lotta di Giovanni Paolo II appare all’autore come strana? Lo spiega già il primo punto del suo saggio dal titolo eloquente: “Per e contro gli uomini – un papa della contraddizione”. In che cosa consiste questa contraddizione? Prima di tutto è la contraddizione di cui parla il Vangelo e di cui ha parlato Karol Wojtyła nei suoi esercizi spirituali al papa Paolo VI – la Chiesa come segno di contraddizione. L’autore cita come esempio di questa contraddizione l’enciclica Evangelium vitae e la sua contrapposizione fra la “cultura della vita” e la “cultura della morte”. Da ciò che scrive non sembra, però, che consideri questa contraddizione come giustificata (la vede nella chiave dell’interpretazione religiosa della politica e dell’interpretazione politica della religione), piuttosto la presenta come esempio dell’opposizione del Papa al concetto moderno di autonomia e sviluppa questa idea nel secondo punto. Qui generalmente troviamo le stesse idee che abbiamo già visto nel saggio precedente. Il papa ha combattuto per la dignità della persona al tempo del comunismo in Polonia, però si opponeva alla libertà della persona come autodeterminazione, così come essa è intesa in Occidente (detto per inciso: vale la pena ricordare che Wojtyła analizza il concetto di autodeterminazione – e lo apprezza – nel suo libro Persona e atto; il concetto appare anche nelle catechesi sull’amore umano di Giovanni Paolo II). Sorprendente, per un teologo cattolico, è però il giudizio critico sull’affermazione di Giovanni Paolo II che soltanto Cristo è in verità Redemptor hominis (Nur Christus ist in Wahrheit Redemptor hominis). Come conseguenza – secondo l’autore – Giovanni Paolo II ha sempre rigettato la possibilità di un umanesimo ateo (il che non corrisponde alla verità storica perché per Wojtyła l’etica ha la sua base nell’esperienza morale che non è confessionale).
Ma questo giudizio spiega il perché del titolo del secondo punto del suo testo: “La Chiesa cattolica come contenitore della verità”. Questo titolo è inteso in senso piuttosto polemico (se non ironico). Perché la Chiesa può intendere se stessa come contenitore della verità? Attraverso il dogma dell’infallibilità nelle questioni della fede e della morale che – secondo l’autore – significa che in definitiva è la gerarchia a decidere come bisogna intendere il messaggio cristiano e di queste decisioni la gerarchia non deve rendere conto davanti ad alcuna istanza esterna alla Chiesa. Essa appare allora come un’istituzione piuttosto autoritaria che con Giovanni Paolo II cerca di formulare “una dottrina morale possibilmente definitiva” (eine möglichst endgültige Morallehre). Una tale dottrina deve essere accettata e seguita senza eccezioni; la vocazione di un fedele non è l’autonomia, ma la sottomissione. Così – sempre secondo l’autore – il Papa chiede: “Si può obbedire Dio senza rispettare in ogni circostanza in precetti presentati dal Magistero?” (Kann man Gott gehorchen ohne die vom Lehramt der Kirche vorgelegten Gebote “unter allen Umständen zu respektieren” [VS 4]). A questo punto un lettore attento rimane un po’ sorpreso. Davvero la Veritatis splendor, a cui si riferisce qui l’autore, insegna che tutti i precetti insegnati dalla Chiesa valgono senza eccezioni? Guardiamo che cosa dice il punto della Veritatis splendor citato dall’autore:
“È da rilevare, in special modo, la dissonanza tra la risposta tradizionale della Chiesa e alcune posizioni teologiche, diffuse anche in Seminari e Facoltà teologiche, circa questioni della massima importanza per la Chiesa e la vita di fede dei cristiani, nonché per la stessa convivenza umana. In particolare ci si chiede: i comandamenti di Dio, che sono scritti nel cuore dell’uomo e fanno parte dell’Alleanza, hanno davvero la capacità di illuminare le scelte quotidiane delle singole persone e delle società intere? È possibile obbedire a Dio e quindi amare Dio e il prossimo, senza rispettare in tutte le circostanze questi comandamenti?” (VS 4).
È chiaro che qui non si tratta dei precetti della Chiesa ma dei comandamenti di Dio la cui validità è messa in questione da alcune posizioni teologiche.
Secondo me qui sta il nocciolo del problema. Per il teologo tedesco i comandamenti, e più generalmente la visione della realtà in cui Dio è il primo legislatore, non costituiscono il punto di riferimento privilegiato del suo discorso. Si tratta piuttosto di evitare – come dice – l’isolamento culturale che si produce attraverso l’opposizione all’idea moderna di autonomia. È proprio ciò di cui è accusato Giovanni Paolo II, che ha guidato la Chiesa attraverso la soglia del terzo millennio con il pesante fardello dell’inflessibile visione teonoma del mondo (mit dem schwerem Gepäck eines festgefügten theonomen Weltbildes). Ci si chiede però: Questo è il capo di accusa da parte di un teologo? Avere la visione del mondo in cui Dio è il primo legislatore è indegno dell’uomo moderno? O forse abbiamo a che fare qui con una teologia che in realtà è anti-teistica? Comunque sia, alla fine del suo testo l’autore formula il compito davanti al quale si trova la Chiesa dopo il pontificato di Giovanni Paolo II: emanciparsi dalle verità definitive che sono state definite dal pontefice (però – la verità, se è verità, vale indipendentemente da chi l’ha definita; le leggi di Newton non dipendono certo da chi le ha formulate). Così soltanto, con una tale libertà emancipata, la Chiesa potrà essere veramente contemporanea. Ma mi domando: questa Chiesa sarà ancora la Chiesa di Gesù Cristo? È significativo che ciò che in tedesco si chiama “la rilevanza per il sistema” è per l’autore più importante della fedeltà all’insegnamento del Vangelo e alla tradizione (probabilmente considerata obsoleta nel mondo moderno). È anche significativo che nella discussione delle questioni come matrimonio, relazione uomo-donna, sessualità non troviamo alcun riferimento alle fonti della rivelazione che comunque dicono qualcosa a proposito. Nella visione del mondo dell’autore probabilmente anche questo è obsoleto.
Il seguente testo, scritto dal teologo tedesco Eberhard Schockenhoff, recentemente scomparso, è dedicato alla teologia del corpo di Giovanni Paolo II. L’autore si chiede: Può questa teologia costituire la via d’uscita dai vicoli ciechi della morale sessuale insegnata dal Magistero? Schockenhoff apprezza il tentativo di Giovanni Paolo II di trovare – come dice – la via d’uscita dai vicoli ciechi della morale sessuale insegnata dal Magistero – però è convinto che in ultima analisi questo tentativo fallisca.
Secondo l’autore, l’enciclica Humanae vitae di Paolo VI commetteva ciò che nella letteratura filosofica si chiama “la fallacia naturalistica” – il passaggio logicamente ed eticamente illecito dall’essere al dover essere; parlando in termini generali, nell’enciclica la relazione persona-natura sarebbe interpretata in un modo sbagliato, privando la persona del diritto di decidere della sua natura nel sostenere che l’azione contraccettiva è “contro natura”. Non vogliamo entrare qui nella discussione se questo giudizio di Schockenhoff sull’enciclica di Paolo VI sia giustificato o meno (anche se è vero che molti autori non lo condividono). Tuttavia, secondo lui, nella sua teologia del corpo Giovanni Paolo II ha tentato di dare un’altra giustificazione alla norma dell’enciclica Humanae vitae, mettendola nel contesto dell’etica personalistica. Qui naturalmente possiamo essere d’accordo con Schockenhoff; in realtà nella sua teologia del corpo Giovanni Paolo II ha tentato di approfondire personalisticamente l’insegnamento di Paolo VI. Più difficile è concordare con la sua opinione secondo cui la distinzione fra corpo (Leib) e organismo (Körper) non ha alcuna importanza nella visione della persona di Wojtyła (questo giudizio è ribadito di nuovo nel punto 4 del suo testo, dove parla della limitata ricezione delle ricerche fenomenologiche sul corpo in Giovanni Paolo II). Chi ha letto il libro Persona e atto sa che la distinzione tra “essere corpo” e “possedere il corpo” è fondamentale nella concezione di persona sviluppata lì da Wojtyła. Schockenhoff ha invece ragione quando afferma che per Giovanni Paolo II la sessualità non è soltanto qualcosa di biologico, di naturale, ma tocca lo stesso nocciolo della persona come tale (Schockenhoff cita qui l’esortazione Familiaris consortio).
Quali sono le applicazioni concrete della visione della sessualità sviluppata da Giovanni Paolo II? Schockenhoff ne parla al punto 3 del suo testo. La prima conseguenza presa in esame è il divieto delle relazioni sessuali prematrimoniali. Secondo l’autore questo divieto è troppo rigido, rigoristico, non prende in considerazione le diverse situazioni in cui le persone vivono. Qui Schockenhoff contrappone l’atteggiamento di Giovanni Paolo II a quello “molto più sensibile”, caratterizzato da profonda empatia di papa Francesco, che nell’esortazione Amoris laetitia, non menzionando i divieti del Catechismo e di Giovanni Paolo II (così Schockenhoff), dice che nel caso delle convivenze “si tratta di accoglierle e accompagnarle con pazienza e delicatezza” (AL 294). Non mi pare che da questa frase di Francesco si possa dedurre la giustificazione morale del sesso prematrimoniale, ma il suggerimento di Schockenhoff è proprio questo.
La seconda conseguenza riguarda il divieto della contraccezione. L’autore ammette che Giovanni Paolo II non può essere accusato di aver commesso l’errore naturalistico, ma, secondo Schockenhoff, il Papa commette un altro errore che egli chiama “attualistico”. Esso consisterebbe nel sostenere l’“identificazione della persona con ogni suo singolo atto”. Chi ha letto il libro Persona e atto sa – e lo segnala già il titolo – che la distinzione, e non l’identificazione, tra la persona e suoi atti è per Wojtyła fondamentale. Il problema non sta qui, ma nel senso degli atti che le persone compiono. Questo senso non può essere arbitrariamente deciso dagli interessati e per Wojtyła ciò riguarda proprio la vita sessuale. Schockenhoff sposta invece il giudizio morale dal significato dell’atto al modo in cui l’atto è compiuto. Se è compiuto “seriamente, con senso di responsabilità”, l’atto è buono. Il modo in cui l’atto è vissuto è più importante del suo contenuto.
La terza conseguenza della teologia del corpo si riferisce all’antropologia dei sessi. Secondo l’autore essa è troppo rigida nella sua distinzione fra uomo e donna e non prende in considerazione i risultati della ricerca scientifica contemporanea secondo cui ci sono persone che non possono essere classificate secondo questa bipolarità. Anche in questo caso l’antropologia di Giovanni Paolo II sarebbe troppo rigida. Possiamo però osservare che l’esistenza di situazioni oggettivamente difficili, di confine, non deve di per sé cancellare la bipolarità uomo-donna. Ci possono essere delle persone che per qualche motivo hanno difficoltà nell’identificazione sessuale, ma ciò non toglie che esse si muovano ugualmente all’interno della bipolarità uomo-donna.
I due testi conclusivi del libro riguardano la teologia della liberazione (non compresa da Giovanni Paolo II – sostiene l’autore, Gerhard Kruip) e il ruolo del Papa polacco nel dialogo fra le religioni (qui l’autrice, Johanna Rahner, apprezza il ruolo di Giovanni Paolo II).
Cosa si può dire a mo’ di conclusione? Dal punto di vista filosofico abbiamo a che fare con lo scontro fra due “essenze filosofiche” (per dirla con Augusto Del Noce), la cui disputa dura dall’inizio della riflessione filosofica fino ad oggi. Sempre ci sono nuovi “Protagora” che sostengono che l’uomo è la misura di ogni cosa, e nuovi “Platone” che indicano le verità eterne, quelle la cui esistenza non dipende dalle decisioni umane. Nella filosofia questa disputa durerà sino alle fine del mondo (anche se ciò non significa che non ci siano migliori argomenti a favore della posizione di Platone). Altra è invece la situazione nella teologia. Chi crede in Dio creatore difficilmente può sostenere che ciò non porti con sé alcuna conseguenza per l’agire umano. Credere in Dio Creatore significa proprio adottare la visione del mondo in cui l’uomo è soltanto “il secondo creatore”, che deve rispettare la prima creazione che è di Dio. Difendere la visione della libertà e dell’autonomia umana in cui è l’uomo a decidere della sua verità (l’uomo come misura di ciò che è e non è – secondo il detto dei sofisti) vuol dire difendere la posizione anti-teistica in teologia.
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