Testimoniare la fede al capezzale di un bambino morente
Luigi Zucaro
Il ruolo del cappellano nell’accompagnamento alle famiglie che perdono un figlio in ospedale
Innanzitutto una premessa: quello che sto per dire nasce dalla nostra esperienza di Cappellani all’Ospedale Pediatrico “Bambino Gesù” e va quindi brevemente circostanziato.
Il nostro è un ospedale dove purtroppo muoiono circa cento/centoventi bambini l’anno, quasi la metà pazienti onco-ematologici. Per il resto si tratta di pazienti per definizione ad alta complessità, con disabilità gravi o con malattie rare. Tra questi una buona parte sono pazienti in età neonatale, che spesso sono stati già presi in carico “nella pancia della mamma”. Si tratta comunque in tutti i casi di percorsi, sul piano sociale, familiare e, potremmo dire, esistenziale con un elevato contenuto di sofferenza.
Quando un genitore si trova ad affrontare situazioni del genere la sua persona viene coinvolta e messa alla prova in tutte le sue dimensioni, fisica, psichica e spirituale.
Sul piano fisico questi genitori a volte addirittura si ammalano, ma comunque sempre ne risentono pesantemente. Sul piano psichico sperimentano condizioni di stress, ansia e depressione sono ampiamente documentate[1]. Sul piano spirituale di solito la persona chiama a raccolta tutte le risorse che ha a disposizione per provare a contrastare la situazione in atto.
In questo scenario, noi come cappellani abbiamo il compito di accompagnare queste famiglie[2]. Si tratta ovviamente di un mondo prevalentemente cattolico, tuttavia, essendo un Ospedale di respiro europeo e internazionale, spesso siamo chiamati a tendere una mano anche a cristiani non cattolici, mussulmani, o persino non credenti. In questo panorama ho avuto modo di riscontrare che alcuni modi di interpretare la relazione che abbiamo con Dio sono abbastanza comuni.
Una sensazione che, per esempio, molti genitori hanno, a prescindere dal credo, è che la malattia del figlio sia in qualche modo legata ad una propria colpa, idea evidentemente ancestrale, che persino il libro dell’Esodo attesta: «Sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione» (Es 20, 5).
Allora proviamo a partire proprio da qui, dal senso che ciascuno di noi cerca di dare alla sofferenza. Sembra che quasi non possiamo fare a meno di interpretarla come punizione di una colpa. Ma quando sono i bambini a soffrire? Che colpa hanno loro?
«Passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?”» (Gv 9, 1). Se la sofferenza è la punizione di una colpa, se Dio è “giusto giudice”, come ripete all’infinito la Scrittura, che un bambino debba soffrire ci scandalizza profondamente. Scandalizza tutti, cristiani e non cristiani, confligge con l’idea stessa di un Dio buono.
Camus farà dire al dott. Rieux, nel romanzo La Peste: «Non potrò mai credere in Dio finché vedrò un bambino morire così». Non a caso si tratta di un medico, infatti i destinatari dell’azione pastorale non sono solo i pazienti e i loro familiari, ma anche il personale ospedaliero, che di fronte allo scenario quotidiano che gli si offre, va incontro alla stessa crisi di fede, se non di più.
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Allora quale può essere il ruolo dell’assistente spirituale, in un luogo di questo genere, dove i bambini soffrono e muoiono?[3] Certamente si possono fare molte cose, essere solidali, accompagnare su un piano umano, risolvere problemi pratici, insomma farsi compagni di viaggio. Questo è necessario, è una premessa fondamentale e va fatto. Ma spesso, e peraltro a prescindere dalla religione ci si sente porre una domanda: “Perché se Dio è buono, ed è onnipotente, permette che i bambini soffrano?”.
A volte ci si può sentire investiti di un compito arduo: provare a difendere Dio dall’accusa di essere ingiusto (quella che una volta si chiamava “teodicea”).
Questa è una domanda a cui molti filosofi e teologi hanno provato a rispondere in tutte le epoche senza trovare risposta. Probabilmente il motivo è che si tratta di una domanda mal posta, tuttavia questo non è un motivo sufficiente per tacere. Spesso si sente dire da sacerdoti che hanno a che fare con grandi sofferenze: “In questi casi la migliore risposta è il silenzio”. Se certamente condivido che bisogna avere la sensibilità per capire quando parlare e quando tacere, la difficoltà nel saper porgere una parola sapiente, di fede a chi cerca risposte nella sofferenza estrema non può essere risolta esimendosi dal compito. Ma allora cosa dovremmo fare? Mandare negli ospedali come cappellani solo teologi di alto profilo? A parte che non ce li abbiamo, probabilmente non è quello che serve alla gente.
Il problema delle persone, e soprattutto le persone religiose, è che spesso non hanno fatto una reale esperienza di Dio, un incontro. Se più o meno credi in Dio, ma non lo hai mai incontrato “faccia a faccia” come dice Giobbe (Gb 42) succede che ti crei un Dio a tua immagine, cosa paradossale, se consideriamo che al contrario siamo noi ad essere creati a sua immagine (Gn 1, 26). Ciò è molto deleterio perché chi ha questa visione finisce col proiettare su Dio aspettative errate. Forse è per questo che i comandamenti ci intimano di non farci “immagine alcuna” di Dio (Es 20, 4).
Spesso questo accade ai cosiddetti “credenti non praticanti” oggi molto diffusi tra i battezzati cattolici anche in Italia. Il fenomeno crescente di credenti che rinunciano a una reale appartenenza alla comunità è stato messo a fuoco, ad esempio, da Roof e McKinney nel contesto americano; già negli anni ottanta essi coniarono per questo tipo di persone l’espressione “believers not belongers”[4]. Credere in Dio ma voler vivere la fede solo a livello intimo, individuale, basandosi solo sulle proprie convinzioni personali è ormai fenomeno diffuso in tutto il mondo cattolico[5].
Quando un cristiano che vive la propria fede in questo modo si trova ad affrontare la malattia e la morte di un figlio, quasi sempre giunge ad una conclusione: Dio, che avrebbe potuto, e non solo, dovuto, proteggere mio figlio dalla malattia e dalla morte, si è girato dall’altra parte; questa idea causa una sofferenza aggiuntiva, rabbia delusione, senso di profonda ingiustizia.
Come può aiutare in questo un rappresentante religioso, un assistente spirituale? La soluzione probabilmente non è dell’ordine della “spiegazione”, ma piuttosto della testimonianza. Una testimonianza capace di incoraggiare a fare un’esperienza. A questo proposito si conferma in pieno ciò che papa Paolo VI già vedeva chiaramente cinquant’anni fa: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni»[6].
Da questo presupposto, a mio avviso, derivano le caratteristiche del buon cappellano in contesti del genere: prima di tutto un uomo di fede, che abbia fatto un’esperienza di Dio nella propria sofferenza. Potremmo dire un “risorto-dentro”, uno che, ancora una volta come Giobbe, possa dire: «Prima ti conoscevo solo per sentito dire, ora ti ho visto faccia a faccia» (Gb 42). Uno che sappia annunciare, certo sostenuto da uno Spirito che avrà cura di alimentare continuamente, che persino lì dove c’è l’assurdo per l’uomo – la sofferenza dell’innocente – c’è Dio. Che c’è la possibilità di sperimentare la Vita nella morte. Una Vita che non ci appartiene, che non è una risorsa che troviamo nascosta dentro di noi, come dicono alcune filosofie, ma una forma di Vita che ha una sorgente altrove, che dobbiamo chiedere e ricevere, che è sovrabbondante rispetto a qualsiasi evento umano, anche il più difficile da affrontare.
«Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva». (…) «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4).
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Ed è proprio confidando in questo potere che Dio ha di parlare a ogni uomo e di ridare vita con la sua Parola, che ci siamo messi da un po’ di anni in un’avventura umanamente impossibile: annunciare Cristo ai genitori che hanno perso i loro figli. Una missione che nasce infondo da una forma di ostinazione. In ultima analisi è questo che ci accomuna nell’equipe con cui cerchiamo di portare avanti questo gruppo, l’ostinazione di credere che se Dio c’è, allora c’è per tutti e dovunque, che il suo potere non può avere un raggio limitato, per quanto ampio, ma deve essere infinito, deve poter toccare e far risuscitare il cuore di ogni essere umano, anche quello di una mamma che ha perso il suo bambino.
Così nasce il gruppo “Tenuto per mano”[7], dove da dieci anni si incontrano famiglie che hanno perso i loro figli, pregano insieme, celebrano la messa, mangiano insieme, piangono, ridono, ascoltano storie. Ai nostri incontri invitiamo sempre qualcuno che ha vissuto qualcosa di simile a loro, che ha sofferto e soffre come loro, ma che ha scoperto di avere qualcuno accanto a sé, uno “Spirito datore di Vita”. Questi genitori a cui chiediamo di dare la loro testimonianza non spiegano niente, non insegnano un metodo per elaborare il lutto, ma semplicemente raccontano una storia, dove c’è la presenza di Dio; si mostrano come uno che dovrebbe essere morto e invece è vivo.
«Egli disse loro: “Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate”» (Lc 24, 38).
Per Paolo VI, dicevamo, questa generazione non ha bisogno di maestri ma di testimoni. In realtà credo che questo valga non solo per questa generazione, ma tutte le generazioni. Se qualche volta il messaggio evangelico è stato efficace, lo è stato perché era incarnato in una persona concreta. Speriamo che negli ospedali ci siano sempre cappellani disposti a lasciarsi trasformare in alter Christus: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20).
Ma a ben pensarci, questo non vale solo per i cappellani, per i preti o le suore, ma per tutti i cristiani. Sarebbe bello un mondo dove ci fossero tanti “poveri cristi”, che fanno presente a chi soffre che la morte è vinta.
«Se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e … quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini. Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. … E come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo (1 Cor 15, 17-22).
[1] Miles M, Carter MC, Riddle I, Hennessey J, Eberly TW, The pediatric intensive care unit environment as a source of stress for parents. Matern Child Nurs J. 1989 Fall;18(3):199-206. Jay SS, Youngblut JM, Parent stress associated with pediatric critical care nursing: linking research and practice. AACN Clin Issues Crit Care Nurs. 1991 May;2(2):276-84.
[2] Donohue PK, Norvell M, Boss RD, Shepard J, Frank K, Patron C, Crowe TY. Hospital Chaplains: Through the Eyes of Parents of Hospitalized Children. J Palliat Med. 2017 Dec;20(12):1352-1358. doi: 10.1089/jpm.2016.0547. Epub 2017 Jun 26.
[3] Taylor PB, Gideon, Crisis counseling following the death of a baby. MD.J Reprod Med. 1980 May;24(5):208-11.
[4] W. Clarke roof, W. Mckinney “Denominational America and the New Religious Pluralism”, Annals of American Academy of Political and Social Science, 1985.
[5] P. Antes, “Religione sì, Chiesa no! La religiosità nella Germania di oggi”, Religioni e società XXXIV, 94, Fabrizio Serra Ed., 2019.
[6] Paolo VI, esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, “L’impegno di annunciare il Vangelo”, 41, 1975, citando un suo discorso al Consiglio dei laici dell’ottobre 1974.
[7] www.tenutopermano.it
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