Il primato del Logos in discussione

Livio Melina

Featured Image: Illustrator unknown, from: Sophie Woods, World Stories for Children, Ainsworth & Co., Chicago 1916. Source: Wikimedia, PD-Old-100.

Relazione presentata al terzo seminario del Veritas Amoris Project “Sentieri della verità” tenutosi a Roma il 10 febbraio 2022.

Da qualche anno, soprattutto nelle università degli Stati Uniti, ma poi anche in America Latina e in Europa, si è diffuso un movimento che va sotto il nome di “cancel culture” ed anche di “stay woke”: statue di personaggi storici che vengono abbattute, strade ed edifici che perdono il loro nome antico e vengono ridedicate, università che rivedono il loro piano di studi e i loro dipartimenti, rifiutando autori classici greci, latini e cristiani, da Omero ad Aristotele, da Dante a Shakespeare.

Si tratta di un movimento che esprime odio verso l’Occidente nelle sue radici giudaico-cristiane ed elleniche, e che manifesta l’intenzione di fare “tabula rasa” della tradizione culturale europea per ripartire da zero. La cultura occidentale sarebbe all’origine di pregiudizi e diseguaglianze, di ingiustizie e menzogne, non solo da correggere e purificare, ma da rimuovere completamente.

Il filosofo francese Rémi Brague, lo scorso 21 settembre 2021, ha dedicato al fenomeno un’importante conferenza presso il Centro Culturale Rosetum di Milano, mostrando come l’attuale movimento non sia qualcosa di totalmente inedito nella vicenda storica europea, ma in fondo ripeta un’idea secentesca di Descartes e riproduca la nozione di “distruzione creativa” del pensatore austriaco Joseph Schumpeter (†1950), che la attribuisce allo spirito stesso della società capitalista, la quale ha periodicamente bisogno di fare piazza pulita del passato per ricominciare da capo.

Al riguardo Brague ammette come necessaria una permanente purificazione, ma osserva che si pone qui il problema cruciale del rapporto con la propria storia, in una alternativa radicale: condannare o condonare? Egli cita la sentenza che Goethe mette in bocca a Mefistofele: “Alles was entsteht ist wert, dass es zugrunde geht”: “tutto ciò che esiste è colpevole e merita di scomparire”.

Tuttavia da parte sua Brague osserva che la vera creazione non interrompe mai il legame col passato.

I. Cancel culture e “Chiesa in uscita”

La questione ha un riflesso imponente anche all’interno della Chiesa. Recentemente papa Francesco, in occasione dell’Udienza al Corpo Diplomatico dello scorso 10 gennaio 2022, ha condannato apertamente la cancel culture, definendola con parole forti e chiare: «una forma di colonizzazione ideologica che non lascia spazio alla libertà di espressione»; una colonizzazione che «invade tanti ambiti e istituzioni pubbliche», «quella cancel culture, che finisce, in nome della protezione delle diversità, per cancellare il senso di ogni identità, con il rischio di far tacere le posizioni che difendono un’idea rispettosa ed equilibrata della varie sensibilità». La cancel culture sfocia così in «un pensiero unico pericoloso, costretto a rinnegare la storia, o peggio ancora a riscriverla in base a categorie contemporanee, mentre ogni situazione storica va interpretata secondo l’ermeneutica dell’epoca, non secondo l’ermeneutica di oggi».

In effetti il tema del rapporto col proprio passato, con la tradizione, ed in particolare con quella tradizione che ha le sue radici nell’Occidente e nell’Europa, è al cuore della crisi attuale del cristianesimo ed anche del problema teologico contemporaneo.

Nel giugno del 2004, un anno prima di essere eletto al soglio pontificio, il cardinale Joseph Ratzinger scriveva la prefazione alla riedizione di un suo scritto giovanile del 1959, la prolusione inaugurale della sua cattedra all’Università di Bonn. In essa affermava che la questione del rapporto con la propria storia e concretamente la questione dell’incontro tra pensiero greco e fede biblica, tra Atene e Gerusalemme, era questione cruciale: «Oggi, in un momento in cui il cristianesimo, uscendo dal mondo occidentale, vuole inserirsi in altri ambienti culturali, [questa è] una problematica massimamente urgente»[1]. Era il 2004 e già il cardinale Ratzinger parlava di “cristianesimo in uscita”.

La formula “Chiesa in uscita” sarebbe stata poi codificata da papa Francesco nella Evangelii gaudium (n. 20), che chiedeva di distinguere l’essenziale dalla forme secondarie, la sostanza dalla formule espressive, ed anche nel kerygma di separare l’annuncio dalle questioni di contorno. E ciò, occorreva farlo con audacia.

Nell’udienza generale del 23 giugno 2021, il pontefice argentino invitò ancora una volta a diffidare dai rigidi, che si sentono «custodi della verità» e la identificano «con certe forme del passato», per cui «la soluzione alle crisi odierne» sarebbe «ritornare indietro per non perdere la genuinità della fede».

Francesco sembra riprendere qui il programma di “aggiornamento” indicato da papa Giovanni XXIII all’incipiente Concilio Vaticano II, nella storica allocuzione dell’11 ottobre 1962 Gaudet Mater Ecclesia. In effetti, una Chiesa che vuole essere “in uscita” e che intende liberarsi dal peso della tradizione e affrancarsi da un suo passato, che sente ingombrante, non può che identificare nei “rigidi”, nei “conservatori”, nei tradizionalisti il suo principale nemico.

Incontriamo così la necessità di confrontarci con un progetto che investì il cristianesimo ed anche specificamente la Chiesa cattolica negli anni dell’immediato post-Concilio e che la riguarda tuttora: il progetto della “de-ellenizzazione” del cristianesimo. Una Chiesa davvero in uscita dovrebbe anche “de-occidentalizzarsi”, mettendo finalmente da parte le formule, in cui la fede è stata espressa e codificata, ma anche forse imprigionata, per ormai 2000 anni.

Ora proprio tale questione della “de-ellenizzazione”, con le altre problematiche connesse, fu sentita come questione decisiva dal prof. Joseph Ratzinger fin dagli inizi della sua attività di ricerca teologica e di docenza. Nella prefazione del giugno 2004, cui abbiamo fatto cenno, egli vi riconosce “il filo conduttore del suo pensiero” che offre una chiave di lettura di tutta la sua riflessione teologica, volta costantemente a “ritrovare il Centro” (Wiederauffinden der Mitte).

Sulla scorta di tale indicazione ermeneutica possiamo anche noi delineare un arco che va dalla sua prolusione del giugno 1959, tenuta alla università di Bonn col titolo “Il Dio della fede e il Dio dei teologi”[2], al famoso discorso, che ormai come papa tenne il 12 settembre 2006 all’Università di Regensburg col titolo “Fede, ragione e università”, a cui però volle dare valore simbolico di lectio academica, che concludeva idealmente il suo magistero teologico universitario. Nella prefazione del 2004 egli cita però, insieme col la sua opera Introduzione al cristianesimo del 1968, anche e soprattutto la conferenza sulla “Verità del cristianesimo” tenuta a Parigi, alla Sorbona, nel 1999[3].

Ecco perché ritengo molto illuminante per noi, per la problematica che ci occupa in questo terzo seminario dei “Sentieri della verità”, dedicato alla messa in discussione del primato del Logos, rileggere questi testi di un Maestro come Joseph Ratzinger. Lo farò proponendovi tre passi successivi:

1. L’incontro tra pensiero greco e fede biblica. Ci chiederemo se questo incontro appartiene all’essenza del cristianesimo oppure se è stato un “disastroso equivoco” da cui finalmente liberarci, come vorrebbe una versione teologica della cancel culture.

2. Al di sotto del problema storico, sta però il problema teorico e metodologico del rapporto tra fede e ragione. Ci chiederemo dunque: quale tipo di razionalità è adatto alla fede cristiana?

3. Infine affronteremo la questione cruciale: il tema della verità nella religione. E ci domanderemo se il cristianesimo può pretendere di essere vero: possiamo rivendicare la verità al cristianesimo o invece dobbiamo rinunciare a questa pretesa, mettendo da parte definitivamente la questione della verità, quando parliamo di religione?

In questa mia relazione, vorrei appena accennare, in modo non solo semplice, ma addirittura schematico, alle piste suggerite da Joseph Ratzinger, nell’affrontare queste tre tematiche, appoggiandomi in ciascuna delle tre scansioni rispettivamente sulle tre prolusioni di Bonn del 1959, di Regensburg nel 2006 e di Parigi nel 1999.

II. L’incontro tra fede biblica e pensiero greco: la questione della “de-ellenizzazione”

Fu Blaise Pascal ad offrire lo spunto originario, ed anche il titolo, alla prolusione del giovane professore Ratzinger all’Università di Bonn nel 1959, con il famoso foglietto, noto come Mémorial, trovato cucito nella sua giacca dopo la sua morte. In esso il pensatore francese riportava l’esperienza fondamentale della sua conversione avvenuta nella notte tra il 23 e il 24 novembre 1654, con queste parole: «Fuoco: Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e degli scienziati». Era la memoria dell’incontro col Dio vivente testimoniato dalla Sacra Scrittura e non con quello dei morti pensieri speculativi.

Il tema del rapporto tra fede biblica e pensiero greco fu poi formalizzato dialetticamente dal teologo protestante Emil Brunner, il quale definì un “equivoco totale e disastroso” quello che contrassegnò il pensiero dei Padri della Chiesa e della Scolastica Medioevale, che identificarono il Dio vivente, che si era rivelato a Mosè nel roveto ardente, con la definizione ontologica del pensiero greco “Io sono Colui che è”[4].

La rivelazione del Nome ineffabile diventò così una definizione di essenza; il Nome diventò un concetto. Mentre il Nome è una realtà del tutto singolare e serve a stabilire un rapporto (è “chiamabile”, anrufbar), invece il concetto si riferisce ad una classe universale di elementi, che “comprende” con la presa razionale del pensiero. Con ciò, dice Brunner, viene completamente travisata la rivelazione biblica.

L’idea di analogia entis, che viene così stabilita nella tradizione scolastica, sarebbe “l’equivoco disastroso e fatale” della ellenizzazione del cristianesimo. Tale equivoco sarebbe per la verità già iniziato prima del cristianesimo, con la traduzione greca della Bibbia dei LXX, la quale rende l’ebraico “aehjaeh asăer aejae” con “έγώ είμι ό ών”; al posto della forma attiva del verbo ripetuta due volte nell’espressione ebraica, viene usato nella traduzione dei LXX un participio presente. L’“Io sono” diventa “Colui che è”, un’essenza metafisica. Il Nome, rivelatosi per essere interlocutore di un dialogo, viene ridotto ad una definizione concettuale, ad un oggetto comprensibile da parte della ragione metafisica.

La richiesta di “de-ellenizzazione” del cristianesimo si sarebbe verificata in tre ondate successive nella storia del cristianesimo occidentale:

1. In primo luogo con la Riforma luterana del XVI secolo, con il principio della “sola Scriptura”, che vuole liberare la Parola di Dio dalla metafisica aristotelica e più in generale, greca.

2. La teologia liberale del XIX e XX secolo, iniziata da Adolf von Harnack. Qui è l’esegesi storico-critica che vuole liberare il messaggio originario dalle formule dogmatiche, mediante una autolimitazione della ragione, che per essere davvero “scientifica” rinuncia alla speculazione metafisica.

3. Infine l’attuale teologia religionista di J. Hick, P. F. Knitter e R. Pannikar, che propone una de-culturalizzazione del cristianesimo, ed auspica un ritorno alle religioni pre-cristiane. La rinuncia al Logos coincide col primato dell’orto-prassi, riconosciuta come ciò che veramente conta nel cristianesimo. Le religioni non avrebbero dunque un valore conoscitivo e si equivarrebbero tutte; esse si incontrerebbero invece sul piano di un significato e di un impegno etico e politico.

Ratzinger, respingendo risolutamente la proposta di “de-ellenizzazione”, osserva che l’incontro tra ciò che è fede biblica in Dio e ciò che è greco, nel senso migliore della parola, cioè: la ricerca dell’Assoluto, è attiva e presente già all’interno della Sacra Scrittura. Non solo nella versione dei LXX di Esodo 3, ma anche nel Prologo del vangelo di Giovanni: “in principio era il Logos”, e nella stessa predicazione dell’apostolo Paolo (il discorso all’Areopago di Atti 17, ma anche tutto il suo epistolario).

Il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato nel Logos fatto carne e che come Logos ha agito e agisce, pieno di amore nei nostri confronti. Certo, l’amore “sorpassa” ogni conoscenza (Ef 3, 19) e permette di percepire più del semplice pensiero, ma tuttavia mai contraddice il Logos. Così vale l’affermazione di Manuele II Paleologo nel dialogo col musulmano, citato a Regensburg nel 2006: «Non agire con il Logos è contrario alla natura di Dio»[5].

III. Il rapporto tra fede e ragione

Arriviamo così alla domanda di carattere più metodologico: qual è il rapporto tra fede e ragione nel cristianesimo?

Ratzinger, sempre nella prolusione di Bonn del 1959, inizia a trattare la questione riportando i termini del confronto tra religione e filosofia, che Sant’Agostino istituì con la teoria di Marco Terenzio Varrone, uno stoico del I secolo avanti Cristo, che aveva distinto una triplice forma di teologia e di conseguenza di interpretazione della religione:

– la teologia mitica, propria dei poeti, che ha come contenuto le favole;

– la teologia civile dei popoli, che riguarda le cerimonie del culto pubblico;

– la teologia naturale dei filosofi, che riguarda la ricerca del principio assoluto della realtà.

A ben vedere, le prime due forme di religione non riguardano propriamente parlando direttamente Dio, ma piuttosto le istituzioni umane del politeismo, mentre solo la terza concerne Dio, benché lo faccia in termini non religiosi: riguarda infatti un Assoluto “non interpellabile” nella preghiera. I filosofi che pensano Dio non lo pregano come i poeti e i sacerdoti pagani. Anzi, la conoscenza filosofica avrebbe un effetto devastante sulle forme mitiche e civili della religione.

Ora Sant’Agostino, sulla scorta delle distinzioni di Terenzio Varrone, identifica l’interlocutore della fede cristiana non nelle due forme di religione mitica o civile, ma nella teologia naturale dei filosofi, in quella razionalità filosofica che va alla ricerca della verità e dell’Assoluto. La fede cristiana infatti non si basa sul mito o sulla politica, ma sulla conoscenza, sulla ricerca della verità e su questa base entra in dialogo con la cultura greca, come cominciò a fare in modo esemplare per primo San Paolo all’Areopago di Atene.

D’altra parte, dopo Sant’Agostino, lo stesso San Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae (I, q. 1, a. 1) elaborò un rapporto armonico tra fede e ragione. Per un verso il Dio della religione coincide col Dio dei filosofi. Invece il Dio della fede cristiana è distinto dal Dio dei filosofi: la Rivelazione aggiunse infatti qualcosa all’immagine di Dio, che la ragione non avrebbe potuto da sola raggiungere, senza tuttavia contraddire la ragione.

Nell’epoca moderna noi dobbiamo però fare i conti con un concetto nuovo di ragione, che fu elaborato come sintesi di platonismo e di empirismo, nel metodo galileiano come metodo della nuova scienza moderna. Per un verso presuppone la struttura matematica del reale, come sua razionalità intrinseca esprimibile in leggi necessarie, e per altro verso si serve dell’esperimento per scoprire queste leggi e per rendere in tal modo la natura utilizzabile agli scopi dell’uomo (scire est posse di Bacone – sapere è potere).

Così il problema di Dio viene metodicamente escluso dall’ambito proprio della ragione scientifica, oggettiva e pubblica, e viene confinato nell’ambito del soggettivo e del privato. È una situazione molto pericolosa per la cultura, perché in tal modo le domande più fondamentali della ragione umana non trovano più spazio nel sapere ufficiale e vengono quindi emarginate, e con ciò anche esposte alle minacciose patologie di una religione non più controllata dalla ragione.

Si tratta però solo di una tolleranza provvisoria nell’ambito del soggettivo, perché a ciò va aggiunto che la teoria evoluzionistica, elaborata nel XIX secolo, si è andata cristallizzando come strada per far sparire definitivamente la metafisica e rendere del tutto superflua l’ipotesi di Dio nella nuova visione scientifica del mondo. Il metodo positivistico ed empirista si impone quindi come esclusivo, totalizzante, e rende la dottrina evoluzionistica come la nuova “filosofia prima”, che ambisce a diventare spiegazione totale ed unica del reale, senza più nessuno spazio residuo lasciato alla religione.

A tutto questo Ratzinger risponde, proponendo di allargare l’orizzonte della ragione, oltre i limiti metodologici della razionalità scientifica. E lo fa mostrando l’intrinseca contraddittorietà di una ragione che finisce col negare se stessa, quando volesse affermare la priorità dell’irrazionale sul razionale e si pensasse solo come un prodotto casuale e secondario dell’evoluzione irrazionale della materia.

La sfida che il cristianesimo pone è quella del primato del Logos. “In principio erat Verbum”: è solo questa affermazione che corrisponde alla ragione e che la garantisce in tutte le sue espressioni, anche in quelle della scienza.

E, d’altra parte, il primato del Logos è anche il primato dell’amore creatore, che assicura che il senso dell’evoluzione non è la crudele vittoria del più forte, o del gene egoista (un ethos crudele), ma piuttosto l’amore del prossimo.

IV. Il cristianesimo come “religione vera”?

La scelta dei Padri della Chiesa, e in particolare di San Giustino martire e di Sant’Agostino, fu dunque quella di dialogare con i filosofi, e non con i poeti e con i politici, e quindi di rivendicare al cristianesimo il carattere di “religione vera”.

Oggi, invece, si preferisce impostare la questione diversamente. La rinuncia alla pretesa di verità nell’ambito della religione sembra esigita necessariamente dal dialogo tra le religioni e dalla tolleranza civile, all’interno di società pluralistiche.

La situazione sembra quella descritta dalla parabola buddhista dell’elefante e dei ciechi, che il cardinale Ratzinger citò all’inizio della sua conferenza alla Sorbona di Parigi nel 1999. «Una volta, un re dell’India del Nord riunì in un posto tutti gli abitanti ciechi della città. Poi davanti ai presenti fece passare un elefante. Lasciò che gli uni toccassero la testa e disse: “Un elefante è così”. Altri poterono toccare l’orecchio o la zanna, la proboscide, il dorso, la zampa, la parte posteriore, i peli della coda. Dopo di che il re chiese a ciascuno: “Com’è un elefante?”. E secondo la parte che avevano toccato, essi rispondevano: “E’ come un cesto intrecciato…”, “è come un vaso…”, “è come la bure di un aratro…”, “è come un magazzino…”, “è come un pilastro…”, “è come un mortaio…”, “è come una scopa…”. Allora – continua la parabola – si misero a discutere, urlando: “L’elefante è così”, “no, è così”, si scagliarono gli uni sugli altri e si presero a pugni, con gran divertimento del re»[6].

La disputa tra le varie religioni sembra, agli uomini di oggi, altrettanto ridicola e tragica, come questa disputa tra ciechi nati, tutti incapaci di vedere la realtà e con qualche impressione parziale di essa a disposizione. Così si è potuto ascoltare da un cardinale molto venerato l’affermazione sorprendente che “Dio non è cattolico”, e poi lo si è sentito ripetere addirittura dal vescovo di Roma. Ad essi rispose già con qualche anticipo il filosofo francese Jean Guitton: «Mi dispiace per gli altri, ma Dio è cattolico».

L’idea della pluralità delle religioni senza riferimento alla verità era stata espressa dal senatore romano Simmaco, del IV secolo. Precisamente nel 384 d.C., davanti all’imperatore Valentiniano, difese il paganesimo ormai moribondo e rivendicò la collocazione nel Senato romano della statua alla dea Vittoria, con queste parole: « È la medesima cosa quella che noi tutti veneriamo, una sola quella che noi pensiamo, contempliamo le stesse stelle, uno solo è il cielo che sta sopra di noi, è lo stesso il mondo che ci circonda: che cosa importano i diversi tipi di saggezza attraverso i quali ciascuno cerca la verità? Non si può arrivare a un mistero tanto grande attraverso un’unica via!»[7].

Molte vie dunque. E tutte rifletterebbero qualcosa del Tutto, senza che nessuna possa pretendere di riflettere il Tutto nella sua pienezza. Su ciò si basa la tolleranza, sul riconoscimento della comune ignoranza: una sinfonia polimorfa dell’eternamente inaccessibile. Ogni religione dovrebbe accettare di essere solo una parziale percezione di un Mistero, che non può afferrare; dovrebbe rinunciare alla pretesa di esprimere la verità e di poter chiamare gli altri a conversione. Naturalmente, infatti, se si perde la convinzione che il cristianesimo sia “religione vera”, allora perde anche di significato la missione, che viene identificata con un proselitismo irrispettoso della coscienza altrui.

E invece la convinzione profonda di Ratzinger è che la pretesa di verità sia irrinunciabile per il cristianesimo, così come la sua dimensione missionaria. Con San Giustino martire egli pensa che il cristianesimo sia la “vera filosofia”, non come semplice sistema di pensiero, o come disciplina accademica, ma come arte del ben vivere e del ben morire, basata sulla verità. Così la fusione tra razionalità e fede è intrinseca all’essenza stessa della fede cristiana.

Il legame con la metafisica permette poi di distinguere tra l’Essere di Dio (Esse ipsum subsistens) e quello della natura creata, cioè l’essere partecipato degli enti, separandoli infinitamente. L’Essere di Dio è intimamente presente all’essere partecipato della creatura, senza perdere la sua infinita trascendenza: “intimior intimo meo, superior summo meo”[8].

E, d’altra parte questo Dio trascendente si fa carne ed entra nella storia per salvare l’uomo, così che l’uomo può incontrarlo come il Dio vivente, che lo chiama perché lo ama. In tal modo queste due dimensioni, quella metafisica e quella storica, del cristianesimo, non sono tra loro contrastanti e dialetticamente opposte, ma dipendono l’una dall’altra, e insieme si appartengono.

Così il Dio dei filosofi non è più un Dio puramente filosofico, ma è il Dio vivente, che si china sulla storia dell’uomo per salvarlo.

In tal senso possiamo concludere dicendo che la verità di cui parla il cristianesimo è la verità dell’Amore (Veritas amoris), che si rivela come principio dell’Essere. Se il Logos non è ragione matematica, ma Amore Creatore e Redentore, allora il primato del Logos e il primato dell’Amore sono identici.

  1. Joseph Ratzinger, Il Dio della fede e il Dio dei filosofi. Un contributo al problema della theologia naturalis. Prolusione a Bonn. Nuova Edizione con postfazione di Massimo Epis, Marcianum Press, Venezia 2013.

  2. Ratzinger, Il Dio della fede e il Dio dei filosofi, cit.

  3. Questa conferenza è stata pubblicata in italiano nel volume Joseph Ratzinger, Fede – verità – tolleranza. IL cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, 170-192.

  4. Cfr. Emil Brunner, Die christliche Lehre von Gott, Zurigo 1953, 125.

  5. Manuele II Paleologo, Dialoghi con un musulmano. VII discussione, a cura di Th. Khoury, trad. F. Artioli, “Sources chrétiennes”, Ed. San Clemente – Ed. Studio Domenicano, Bologna 2007.

  6. Ratzinger, Fede – verità – tolleranza, cit., 170.

  7. Citato da Ratzinger, Fede – verità – tolleranza, cit., 185.

  8. Sant’Agostino, Confessioni, III, 6, 11.

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Livio Melina

Livio Melina è Teologo Moralista. Già Ordinario di Teologia morale (dal 1996 al 2019) presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia a Roma, di cui fu Preside dal 2006 al 2016. Vi ha fondato e diretto l’Area Internazionale di Ricerca in Teologia morale. Membro ordinario della Pontificia Accademia di Teologia, è stato Direttore scientifico della rivista "Anthropotes" e visiting Professor a Washington DC e a Melbourne. Ha tenuto e tiene corsi e conferenze in varie Università internazionali.

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