La persona rinasce, essa non è da riformare

Stanisław Grygiel

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Conferenza originariamente tenuta in inglese con il titolo “A Person Is Reborn. A Person Is Not Reformed”. Essa è stata presentata come parte delle “JP2 Lectures” promosse dal “St. John Paul II Institute of Culture” della Pontificia Università di San Tommaso d’Aquino (Angelicum), Roma, il 9 giugno 2022.

Una visione profetica della storia, presente nei testi e soprattutto nella vita di San Giovanni Paolo II, ci conduce al Principio della storia dell’amore che la persona umana diventa, orientata nell’atto della creazione verso un’altra persona e infine verso il Dio vivente. Il Dio vivente si presenta a Mosè come il Dio di ogni singolo essere umano: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe” (Es 3,6). Dio, dunque, non è un concetto. Egli opera “fino ad ora” (Gv 5,17) nella e con la sua Parola, che è “il centro dell’universo e della storia” (Redemptor hominis, 1). Dio “fino ad ora” con la Sua Parola dice creativamente ciascuna persona.

San Giovanni Paolo II vedeva l’uomo e l’universo alla luce dell’esperienza morale della persona umana e alla luce del lavoro creativo di Dio, raccontato nel Libro della Genesi e nel prologo del vangelo di San Giovanni. Per un uomo che si affida al lavoro di Dio, cioè al proprio essere “dono di Dio” (Gv 4,10), l’universo e la storia della persona umana diventano una realtà comprensibile e sensata. La sua verità si raggiunge lungo un cammino segnato dall’esperienza morale della propria esistenza nell’universo e dal dono dalla fede, dalla speranza e dall’amore che legano l’uomo alla Verità che gli si rivela. È la via della libertà. La verità e la via della libertà che ad essa conduce sono un dono dell’Amore che è Dio. Di questo evento di verità e di libertà S. Agostino dice: Non intratur in veritatem nisi per caritatem.[1]

La bellezza della verità, nella quale si riflette la Bellezza dell’Amore del Dio creante, chiama l’uomo a rendere giustizia all’incessante accadere dell’“universo e della storia” dal nulla. L’uomo può renderla solo con l’amore che egli deve diventare. L’uomo che si unisce all’Amore che lo crea diventa giusto, cioè buono e bello. Platone chiama tale uomo “amico della saggezza” (filo-sofos), amico della verità.

Amici della sapienza, filosofi, profeti e poeti, coltivano la terra dell’umanità in ogni uomo per i semi salvifici della Parola del Dio vivente. Proprio per questo l’ateismo moderno ha paura degli “amici della saggezza” e fa sì che i suoi seguaci distruggano la cultura umana (la parola “cultura” deriva dal verbo latino colo, –ere, cultum – coltivo la terra). Distruggendo la cultura, i seguaci dell’ateismo fuorviano nel deserto morale della civilizzazione razionalista e tecnica, dove deridono, coprono di sputi e persino uccidono i testimoni della Verità che coltivano “l’universo e la storia” per il Futuro annunciato dal loro profetico lavoro. La modernità atea crea un “mondo nuovo”, a brave new world (Aldous Huxley), da frammenti selezionati in cui ha spezzato la persona umana. Fa un errore che i logici chiamano pars pro toto. Usa la ragione che, svincolata dal “dono” della verità con calcoli incastonati in un errore antropologico che chiude l’uomo nella propria immanenza, cancella in lui la memoria del Principio e della Fine. Lo allontana dall’esperienza di Mosè, per il quale sul monte Oreb una voce dal roveto ardente dice: “IO SONO”. IO SONO presente a te, e il luogo al quale ti avvicini, avvicinandoti a Me, è così sacro che devi toglierti i “sandali” dai piedi (cfr. Es 3,5) per non sporcarlo. L’“Io sono” di ogni persona umana arde dell’“IO SONO” personale del Dio vivente. Perciò nessuna persona può essere avvicinata con le scarpe. È quanto affermano l’enciclica Humanae vitae di San Paolo VI e l’antropologia adeguata di San Giovanni Paolo II. La modernità non vuole nemmeno sentire parlare del “SONO” di Dio e del “sono” dell’uomo. Essa fa di tutto per collocare la società nel comodo possedere frammenti del mondo che passa. La modernità atea non crea la cultura, perché non sa e non vuole mettere le ali alle parole e alle azioni umane così da farle non solo trasmettere i concetti spazio-temporali ma anche da farle indicare la Trascendenza, accanto alla quale i “puri” concetti sono come la cera accanto al diamante.

La ragione moderna spegne i roveti ardenti delle persone che ardono d’amore ed elimina Mosè dalla vita sociale. Ascrive tutte le persone all’arbitrio del Faraone, persuadendole che questa adscriptio e il servilismo che essa comporta sono l’unica libertà dell’uomo e che essa è libertà assoluta. Coloro che avvicinandosi ad un’altra persona si tolgono rispettosamente le scarpe, sono accusati di essere scortesi, con conseguente ostracismo e morte civile. L’età moderna non tollera persone che hanno il coraggio di essere testimoni-martiri (martirium) della Verità, che non è una delle tante verità, e del Bene, che non è uno dei tanti beni.

Agli uomini che perdono la memoria del Principio e della Fine e, di conseguenza, distruggono la memoria dell’identità assegnata loro per il lavoro, facilmente vengono imposte identità artificiali attraverso le quali non scorre il dono dell’”acqua viva” (Gv 4,10). Non affidati alla primordiale Parola dell’Amore, nella quale e per la quale Dio li chiama dal nulla a un’esistenza orientata all’amore, non sapendo quindi chi siano, muoiono spiritualmente, non sapendo cosa fare nella vita. Non ne vedono il senso. Non entrano in una nuova vita attraverso la porta dell’amore. Cercando dei surrogati sia per l’amore che per la verità, invecchiano spiritualmente invece di rinascere. Stanno costantemente riformando la loro vecchiaia, ma nessuna riforma ringiovanirà coloro che sono già morti spiritualmente in modo non essere più in grado di unirsi agli altri. I morti non vedono la realtà. In loro non avviene l’intuizione (intuitio) che significa non un sentimento o una premonizione di qualcosa che può accadere, ma entrare in un’altra persona presente con un atto d’amore[2]. In un tale incontro, le persone diventano epifanie della verità che avviene in loro così che esse rinascono a nuova vita. Perciò oserei anche modificare un po’ le parole di Sant’Agostino e dire: non intuitur veritatem nisi per caritatem, cioè solo la carità apre gli occhi a vedere e a leggere la verità.

Non c’è da meravigliarsi del fatto che la modernità sia ostile agli incontri. Essa ha paura delle persone che si uniscono nel loro intimo nella diligente contemplazione della verità. La loro contemplazione non permette ai padroni del mondo di dominare la società. La solitudine della monade leibniziana, priva di finestre, e quindi in grado di trattenere gli occhi umani, rivela la tragedia di persone che non sanno nemmeno che le pareti di questa monade hanno l’altra faccia. Le persone sole non chiamano nessuno perché loro stesse non sentono alcuna chiamata. La storia delle loro vite è un caos, perché nessuno la sta dirigendo verso il “centro” trascendente.

Per le persone chiuse nei propri pensieri da una mancanza di amore, qualsiasi cosa vogliano calcolare può funzionare come un “centro” dell’ordine, ma solo per un momento, dopo di che il caos si approfondisce. L’ordine sorge infatti dove le persone mandate ad altre persone lavorano e trovano in loro il “centro” del loro mondo e della loro storia. Una società in cui non ci sono persone inviate ad altre persone sta andando in pezzi. Chi abbandona la missione con cui dovrebbe andare verso gli altri rompe il legame con la realtà, e questo finisce nella miseria della solitudine metafisica in cui non sente Dio che lo chiama ad entrare sotto il suo tetto divino. La banalità e la noia dell’assoluta libertà delle persone a nessuno inviate, persone trasformate in fasci di reazioni agli stimoli esterni, rendono la loro vita un inferno. L’inferno s’identifica con la vita di coloro che dopo essersi staccati dalla realtà hanno tradito se stessi e le altre persone.

Un uomo metafisicamente solo è paralizzato dalla paura del potere economico e politico di chi lo vede solo come uno strumento per il proprio successo. Paradossalmente, un uomo paralizzato dalla paura funge da testimone (martys, -yros) del potere politico ed economico e non della verità dell’amore, della bontà e della loro bellezza. È stato e sarà difficile testimoniare la verità perché la sua vittoria deve ancora venire. La verità è un Futuro eterno, sovrapolitico e sovraeconomico per il quale si deve lavorare nel tempo che si estende tra il Principio e la Fine. Nel dramma “Cleopatra e Cesare” di C. K. Norwid, Cesare dice a Cleopatra:

Non è facile diventare come dei!…

Lo sforzo è grande, perché è quotidiano[3].

Chi quotidianamente si sforza di “diventare come dei”, cioè si preoccupa di compiere la missione con cui è inviato agli altri, non cammina opportunisticamente nel buio per il mondo. Egli arde della Parola della verità e della bontà. La sua consapevolezza e responsabilità non permettono ai “maestri” di questo mondo di sdraiarsi comodamente nelle loro poltrone. Purtroppo la sua testimonianza resa alla verità e alla bontà attira su di lui pietre mortali lanciate dagli scagnozzi della menzogna e dell’odio.

Gli scagnozzi della menzogna e dell’odio non sono all’altezza della dignità personale che rivela pensieri e cuori plasmati dall’amore. Non affascinati dalla bellezza della verità e del bene, non si fidano delle loro conseguenze. Non tornano al Principio della loro bellezza, quindi non rinascono. Distruggono l’identità assegnata loro per il lavoro, quindi distruggono la loro natura (il termine natura deriva dal verbo nascor, natum, io nasco ed indica il futuro compimento dell’essenza della persona umana, naturus, -a, -um). La loro vita, non essendo epifania dell’amore e della verità, non ha senso perché non mira alla Fine in cui il Principio si compia. Chiusi negli attimi che passano, cercano invano di fermarli. Le loro case costruite su questi momenti staccati dalla Tradizione della verità che si rivela continuamente nell’amore cadono a pezzi. La loro economia ha perso la sua connessione con il contenuto delle parole greche oikos, casa, nómos, terra di famiglia, e nomós, il dovere e il diritto di pascolare il proprio gregge (nomeúo) su di essa. Di conseguenza, la loro economia non è più un’oikonomia nella quale economia e politica fanno parte dell’etica. Un “magnifico mondo nuovo” creato sulla base degli interessi friabili come sabbia nella clessidra del tempo provoca paura nei cittadini “beneducati”. Gli scagnozzi della menzogna soffocano questa paura con un allegro battere sui tamburi della libertà assoluta, che inizia e finisce in emozioni non radicate nella Tradizione di credere nella Parola del Dio vivente, e quindi non radicate anche nella speranza, che nella Parola del Dio vivente è il Futuro del continuum di questa Tradizione. Gli scagnozzi della negazione della verità cadono nel caos dei numeri con i quali cogito-volo impone la forma al concetto astratto della materia prima (materia prima) segnata soltanto con i valori quantitativi (quantitate signata). La mancanza dell’amore costringe gli uomini a vivere nel formalismo del metro e della bilancia. Il formalismo foggia gli uomini solitari.

La bellezza della verità e del bene accade e si rivela in coloro che sono presenti gli uni agli altri. La loro bellezza è un dono, gratia. La vita delle persone tra le quali avviene la verità racconta la storia del compimento della bellezza della grazia della verità in esse, gratia veritatis. Le persone, dimorando nella gratia, diventano belle di bellezza della verità e del bene, cioè piene della grazia e della gratitudine, gratiosae et gratae. I primi tre capitoli del Libro della Genesi raccontano l’Inizio della storia dell’uomo che diventa bello e grazioso. La chiave per comprendere questa storia si trova nelle parole: “Dio creò l’uomo a sua immagine /…/ creò l’uomo e la donna” (Gen 1,27). Questa verità la troviamo anche nella nostra esperienza morale dell’uomo, cioè della storia dell’amore che unisce l’uomo e la donna in “una sola carne” (Gen 2,24). Dio stesso si compiace di questa bellezza e di questo bene della storia che è l’uomo (cfr. Gen 1,31), creativamente vedendo in lui “l’immagine e la somiglianza” della Sua Bellezza e Gloria.

Dimora della persona è un’altra persona. Le persone la costruiscono sulla base della bellezza dell’amore, che le chiama al lavoro per “risorgere”[4]. La persona risorge nell’altra persona. Finché la menzogna separa le persone l’una dall’altra, non avranno nessuno in cui vivere e iniziare una nuova vita. Gli uomini senzatetto non “risorgono”, perché non hanno in chi “risorgere”.

La modernità fa di tutto per rendere le persone senzatetto. Quindi distrugge le fondamenta delle loro case, distrugge l’incontro primordiale e personale tra uomo e donna. Li disgusta con l’oikonomia ricevuta dell’amore e della legge e promuove l’economia del conflitto e dell’illegalità. Le moderne narrazioni sull’uomo lo lasciano in un completo abbandono nel vuoto in cui il desiderio del cuore umano di essere più bello e non di avere di più si rivela stupido. Nel vuoto l’uomo, non avendo nulla a cui tornare e a cosa mirare, non rinasce. Nel vuoto egli non può che riformare il vuoto, cioè orientare il proprio tempo in una qualsiasi direzione, perché il tempo in cui non c’è l’eternità, cioè il Principio e la Fine, può scorrere dovunque si voglia. Oserò modificare il detto teologico ecclesia est semper reformanda e dirò: ecclesia est semper renascenda. La Chiesa non è mai da riformare, poiché essa non è mai un vuoto di persona. La Chiesa sempre deve rinascere. Occorre dire lo stesso del matrimonio, della famiglia e della nazione. Heidegger avrebbe detto che si riforma il modo di strutturare il nostro fare tecnico (das Gestell der Gegenständen), mentre non si riforma la libertà, cioè la fede, la speranza e l’amore che l’uomo diventa, dimorando nella comunione delle persone.

L’età moderna, tagliando l’uomo dall’atto della creazione dell’“universo e della storia” ad opera di Dio nella Sua Parola, lo ha tagliato anche fuori dalla domanda ateniese sulla verità e sul suo compimento nella stessa Parola inchiodata alla croce sul Golgota in Gerusalemme. Lasciato con il ricordo mutilato della questione ateniese sulla verità e la fede che lo collega alla Parola di Verità crocifissa, l’uomo è come un uccello le cui ali sono state spezzate. Demoralizzato dalla modernità, l’uomo non ha la forza di elevarsi al di sopra di sé e dell’universo. La vecchiaia spirituale lo priva del suo potere di creare la cultura. Perciò egli lavora con il sudore della sua fronte nel maggese chiuso ai semi, nei quali ad-viene il Futuro, cioè il regno della verità. Il profeta Isaia piange in modo straziante la giovinezza d’aquila perduta dell’uomo moderno (cfr. Is 40,31).

***

San Giovanni Paolo II si rese conto che la tragedia culturale, causata dall’espulsione della metafisica, della mistica e della poesia dalla vita delle società e della Chiesa, avrebbe influito sulle sorti del dono della fede, della speranza e dell’amore nelle persone. Avrebbe influito, in primo luogo, sulla sorte di questo dono che è l’uomo all’uomo. Di conseguenza, avrebbe distrutto la società. San Giovanni Paolo II guardava con dolore orante le persone la cui volontà, distaccata dagli eventi dell’“universo e della storia” come ens, verum, bonum et pulchrum, non riuscì a proteggerle dall’oggettivazione, sottoponendole al potere distruttivo del tempo e al desiderio di trovarvi un posto confortevole per se stesse. Id quod corrumpit et corrumpitur saeculum dicitur, dice lo storico romano. Ho cominciato a comprendere l’imminente tragedia della cultura e della fede causata dalle persone corrotte dal tempo tagliato fuori dall’eternità e da interessi elevati a dignità di valori supremi, una sera d’autunno del 1958 quando, alla richiesta di essere ammesso al seminario di dottorato in filosofia, ho sentito dal professor Mons. Karol Wojtyła queste parole: “Trattiamoci con Sartre perché la sua filosofia ci aiuterà a capire l’imminente secolarizzazione della società. La sua visione di libertà assoluta colpirà il marxismo, ma poi colpirà noi”. Ho ascoltato il giovane vescovo e non mi pento di questa decisione. La negazione di Sartre dell’atto di creare il mondo e l’uomo da parte di Dio, la negazione della verità, del bene e della bellezza, mi ha paradossalmente aiutato a ritrovare in me la storia del Libro della Genesi sulla creazione di Adamo ed Eva, sulla loro caduta originaria e sulla speranza che la storia si concluda non con una sconfitta ma con una vittoria sulla croce e nel sepolcro vuoto. Grazie a questa conversazione serale, vedo meglio chi sono e chi dovrei essere. Questi primi tre capitoli del Libro della Genesi sono a tal punto iscritti “nell’universo e nella storia” che chi non conosce questi capitoli, o non vuole conoscerli, definisce e ridefinisce invano l’uomo, perché non legge la chiamata all’amore incisa in lui.

In Principio, “in quel tempo” (in illo tempore), nel tempo mitico, cioè nel tempo sempre presente, Adamo ed Eva formano “un solo corpo” nel cui mutuo amore si riflette l’Amore di Dio, facendolo amore puro. Vedono la Sua presenza creante in ogni cosa. Anche il fruscio degli alberi e i fulmini che cadono dal cielo portano loro l’eterna Parola di Verità che dona loro la Vita e indica la Via. Tutti gli alberi del giardino dove loro si trovano “in quel tempo” sono al posto giusto, perché tutti indicano quell’unico albero “che è in mezzo al giardino” (Gen 3,2-3). Adamo ed Eva possono mangiare il frutto di tutti gli alberi tranne di quello “in mezzo al giardino”. In altre parole, non possono fare altro che una cosa: non possono agire come se fossero i creatori dell’“universo e della storia” dell’amore.

Nel Principio Dio, creando l’uomo come uomo rivolto alla donna e come donna rivolta all’uomo (cfr. Gen 1,26-27), lo crea come comunità personale orientata a Dio. L’uomo matura alla grazia della deificazione maturando alla grazia qual è un’altra persona presente per lui qui e ora. Nessuno farà di sé Dio con la propria ingegnosità. La storia d’amore di due persone nell’universo racconta la loro domanda sempre più profonda sulla loro identità. Una pone la domanda all’altra: chi sei tu e chi sono io? Nella storia di questa domanda, la donna è il definiens di questo definiendum che è l’uomo, e viceversa l’uomo è il definiens del definiendum che è la donna. Nella storia della questione che li unisce in uno, cioè nella storia del loro amore, si rivela la verità personale dell’uomo, che è “immagine e somiglianza” della Verità delle Persone in Dio. Il dono che è la verità “dell’immagine e della somiglianza” tra l’uomo e Dio fa nascere le comunità personali negli uomini, fa nascere allora la società. La grazia e la verità hanno un carattere comunionale. Bisogna porre domande sulla grazia e pregare che essa sia concessa. Non molto tempo fa in alcuni paesi, come la Polonia o l’Ungheria, un uomo si inginocchiava davanti a una donna quando le chiedeva la mano. Mais où sont les neiges d’antan?[5]

La bellezza dell’amore che trasforma una persona disinteressatamente presente ad un’altra persona in una persona piena di grazia (gratia plenus), entusiasma gli altri e li chiama al lavoro per risorgere. Con il lavoro contemplativo, la persona risponde alla chiamata della bellezza dell’altro. L’amore risponde all’amore. Nella bellezza l’amore genera amore. La storia dell’amore che chiama e dell’amore che risponde è una storia di responsabilità che risiede in ogni essere umano. Il paradigma antropologico di questa responsabilità è la responsabilità dell’uomo verso una donna e della donna verso un uomo.

La storia dell’amore e della responsabilità non può essere descritta scientificamente, perché gratia amoris non si identifica con la prassi umana. Succede in essa, ma la supera infinitamente. Non c’è da stupirsi, quindi, che il matrimonio e la famiglia non siano compresi da coloro che li considerano problemi risolvibili scientificamente e politicamente. Sono compresi solo da coloro che li vedono alla luce del mistero delle Persone divine, il cui Amore, operando “fino ad ora” (Gv 5,17), è “il centro dell’universo e della storia”.

La storia dell’amore e la sua verità affidata all’uomo per il lavoro accadono e si rivelano nello spazio della differenza ontologica che paradossalmente lega l’uomo al Creatore e nello spazio della differenza sessuale che altrettanto paradossalmente lega l’uomo e la donna in “una sola carne” (Gen 2,21-24). In questi due ambiti dell’atto di creazione si realizza l’amore e la libertà dell’uomo e nasce la società delle persone. Gli scienziati, in quanto tali, non hanno nulla di significativo da dire né sull’amore, né sulla libertà, perché essi ammirano la “bellezza” dei principi e delle teorie che definiscono, oppure descrivono il funzionamento della materia, e non invece la bellezza dell’amore in cui questa libertà si rivela e si realizza. La bellezza dell’amore e della libertà non si identifica con nessun oggetto, quindi non puoi comprare e corrompere una bella persona. La bellezza è un bastione della libertà.

La negazione del dono sia nello spazio della differenza ontologica sia in quello della differenza sessuale, suggerita dal “serpente”: “Come Dio, conoscerete il bene e il male” se controllate l’albero “che è in mezzo al giardino” (cfr. Gen 3,3-5). Il serpente aveva trattenuto gli occhi di Adamo ed Eva. Non vedendo la verità del dono, essi cominciarono a ridefinire sia l’amore che li univa a Dio, sia l’amore che li univa in “una sola carne”. La ridefinizione del matrimonio e della famiglia incastonate nel nulla in cui si muove la libertà assoluta deve costantemente negarsi. Infatti, ogni nuova definizione dell’amore costituisce l’alienazione dalla quale l’uomo deve uscire, perché è ciò che richiede la logica della libertà assoluta.

Le persone che ridefiniscono sfacciatamente il mistero del “dono di Dio” nello spazio della differenza ontologica sulla base dell’induzione che permette di tirare conclusioni dalle esperienze sociologicamente descritte e calcolate nello spazio della differenza sessuale, ridefiniscono anche la loro coscienza ardente della Parola del Dio vivente. Lasciano entrare in loro l’Antiparola, che impedisce loro di voler essere più grandi dell’universo e più grandi di se stessi. Oggi l’Antiparola, chiamata da Vladimir Solov’ëv Anticristo, negando la Parola del Dio vivente, distrugge la cultura negli uomini, così che invece di diventare belle persone, essi diventano cittadini “beneducati” dello Stato, obbedienti ai suoi amministratori.

***

San Giovanni Paolo II ha inteso la sollecitudine pastorale per l’uomo come un parlare alla sua coscienza con la testimonianza resa alla Parola, che è Cristo, Principio e Fine, “centro dell’universo e della storia”. Non ridefiniva né la Parola del Dio vivente né questa parola che è la persona umana, perché non è per nulla possibile definirle. Avvicinandosi a quest’uomo concreto, egli viveva il suo corpo nella bellezza che lo entusiasmava a lavorare per la risurrezione nell’altra persona e alla fine in Dio. La wojtyliana esperienza induttiva dell’uomo è mistico-poetica. Per lui la bellezza del corpo umano è un’apertura attraverso la quale scorre la luce della Trascendenza, rendendolo bello. È in questo bagliore della bellezza del corpo che si rivela la bellezza della verità e del bene della persona umana. La loro bellezza è un “dono di Dio” a cui non è possibile pensare né in termini di pura induzione né in termini di pura deduzione. L’uomo si inginocchia davanti alla bellezza e davanti alla verità della persona umana ed è solo così che alla sua luce conosce contemplativamente “l’universo e la storia”.

San Giovanni Paolo II nutriva la convinzione che solo le persone inginocchiate davanti a Dio Lo aiuteranno a salvare la Chiesa e la società dal liberalismo etico e culturale, che oggi si unisce al marxismo diffondente nel mondo l’opinione che la prassi controlli l’albero che è “in mezzo al giardino” in modo da decidere della verità e del bene. Ciò porta inevitabilmente al fatto che nella vita degli Stati e nella vita della Chiesa la voce decisiva sarà la volontà dei capi, non la verità e il suo ordine. San Giovanni Paolo II sapeva che per aver ricordato la verità sull’albero “che è in mezzo al giardino”, sarebbe stato perseguitato una volta che si fossero rimossi i freni che non permettevano di criticarlo durante la sua vita. Oggi comprendo meglio le parole brevi e chiare che ha pronunciato durante uno dei nostri colloqui sul tema della catechesi sulla teologia del corpo, che per molti era difficile da comprendere e accettare: “Questo deve essere detto a prescindere dal tempo e dal luogo”. Non sono sorpreso che i governanti di questo mondo stiano combattendo ferocemente contro la visione dell’uomo di San Giovanni Paolo II. Mi stupisco invece perché tanti pastori ed arcipastori nella Chiesa fanno con loro un’alleanza contro la sua adeguata antropologia pastorale, contraria alla distruzione della cultura che prepara l’uomo ad accogliere il dono della fede, della speranza e dell’amore che orientano l’uomo alla verità e al bene. Ho persino paura di cercare una risposta a questa domanda. Alcuni di loro affermano di voler entrare nella povertà culturale moderna di tanti uomini attraverso la loro porta per poi uscirne attraverso la propria, ma non ne escono, perché non hanno dove andare. Creano, allora, una nuova strada verso “una nuova, magnifica Chiesa” (a new brave Church) che non conosce la croce piantata sul Golgota.

San Giovanni Paolo II si avvicinava all’uomo come Mosè si avvicinava al roveto ardente sul monte Oreb. In tutte le persone vedeva qualcuno che ardeva di Dio, anche quando queste persone non si rendevano conto di ardere di Lui. Si avvicinava a ciascuno con un inchino davanti a lui ed entrava scalzo in casa sua, perché sapeva che stava entrando in una terra santa. Entrava nelle famiglie degli altri come si entra nel tempio (templum) per contemplare il fuoco dell’Amore che è Dio. Il verbo con-templor, -ari e il sostantivo con-templatio parlano di tale unione con un’altra persona nel tempio dell’amore. La contemplazione così intesa resiste agli attacchi del maligno che sa che distruggerà l’uomo se distruggerà il matrimonio e la famiglia, i primi monasteri della verità e della libertà, nei quali si vive responsabilmente dinanzi alla bellezza che li rivela. Il maligno deve colpire i monasteri della contemplazione, se vuole avere successo nella lotta contro l’uomo. Deve fare tutto il possibile per distruggere in lui la libertà, che è la devozione disinteressata di una persona alla bellezza non oggettiva della verità e della bontà che si verificano tra lei e l’altra persona.

Con coraggiosa contemplazione e diligente attesa del giudizio finale su “l’universo e la storia” da parte di Colui che ne è il “centro”, l’uomo dà una degna risposta alla Bellezza di Dio, che solo può strappare l’umanità dalla bocca del mostro tecnico che si nutre dell’errore antropologico, elevando questo o quel frammento “dell’universo e della storia” al rango del loro Principio e Fine escatologici. “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8). Gesù non chiede se troverà sulla terra i giusti che Abramo cercava senza trovarli per salvare Sodoma e Gomorra. Gesù si chiede qualcosa più fondamentale. Egli si chiede se, quando verrà all’uomo nel suo ultimo momento, troverà in lui il dono della fede, della speranza e dell’amore, e il dono della ragione. Si chiede se troverà nelle persone le ali d’aquila, che ad esse ricordano la loro origine divina (cfr. At 17,18) e senza le quali non si alzeranno e non torneranno alla loro casa familiare. La modernità non è favorevole al dimorare nei monasteri contemplativi matrimoniali e familiari. Aiuta invece il maligno a spezzare le ali d’aquila della fede e della ragione negli uomini, e ciò che ne rimane egli ricopre di stracci, spesso molto decorativi, che sia gli “schiavi” che i “padroni” ostentano nella dialettica del sospetto e della menzogna. Il cattivo inonda la società di aneddoti sociologici e psicologici raccontati da esistenzialisti atei che in una certa misura non mentono quando dicono che l’uomo è ciò che non è e non è ciò che egli è. È vero che ognuno vuole essere più di quello che è, ma molti vengono sconfitti dall’erroneo presupposto che l’Altro che l’uomo desidera non sia che una proiezione di coscienza o, nel linguaggio di Feuerbach, di una lacrima umana. La “storia” dell’uomo ridotta alla “storia” delle lacrime appiattisce l’etica in un’ontologia di lacrimosa compassione e lacrimosa benevolenza. Questo tipo di etica non mostra all’uomo la via della salvezza.

Solo una coraggiosa contemplazione che unisce le persone nel loro sacro interiore può raddrizzare la moderna comprensione dell’“universo e della storia”, ricurva verso il nulla metafisico. “Come inizi, così finisci”, mi dicevano nella mia infanzia i vecchi del villaggio da cui provengo. Oggi sento nelle loro parole l’eco della domanda di Cristo: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8).

  1. Sant’Agostino, Contra Faustum, 41, 32, 18.

  2. Il verbo latino intueor, intueri, intuitum significa entrare nell’interno di qualcuno, fissarlo con gli occhi, esserne testimone contemplativo.

  3. C. K. Norwid, „Kleopatra i Cezar”, Akt I, w: „Pisma wszystkie”, t.5, PIW Warszawa 1971, s. 54.

  4. C. K. Norwid, „Promethidion – Bogumił”, w: “Pisma wszystkie”, t. 3, PIW Warszawa 1971, s. 440.

  5. Cfr. François Villon, “Ballade des dames du temps jadis”.

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Stanisław Grygiel

Stanisław Grygiel

Stanisław Grygiel (1934-2023) è stato Docente emerito di Antropologia filosofica al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II a Roma. Dal 2004 al 2022 è stato Direttore della Cattedra Karol Wojtyła presso il medesimo Istituto. Nato in Polonia, negli anni ’60 ha proseguito il dottorato in filosofia presso l’Università Cattolica di Lublino sotto la direzione di Karol Wojtyła. Negli anni 1963-1980 è stato direttore del mensile Znak di Cracovia, e negli anni 1970-1980 è stato docente di filosofia alla Pontificia Accademia Teologica di Cracovia. È co-fondatore del trimestrale Il Nuovo Areopago, di cui è stato caporedattore fino al 2002. Dal 1980 viveva a Roma.

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