Una pastorale evangelizzatrice e la verità dell’amore
Luis Granados
“Perché il mio popolo ha commesso due iniquità: essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che non tengono l’acqua”[1]. Le parole del profeta Geremia ci invitano a considerare la crisi della pastorale evangelizzatrice della Chiesa a partire dall’esortazione divina a tornare all’origine, alla sorgente. Come ha sottolineato Papa Francesco, urge operare una vera conversione pastorale e missionaria[2]. Per poter offrire una valutazione accurata (2) e una proposta intelligente di rinnovamento (3), occorre considerare innanzitutto la cura pastorale di Cristo, il Buon Pastore (1). Solo contemplando e ascoltando le opere e le parole di Gesù possiamo comprendere la profondità della crisi e offrire un cammino di rinnovamento. Trarremo ispirazione dal dialogo di Gesù con la Samaritana. In esso vedremo come soltanto una pastorale evangelizzatrice plasmata sulla verità dell’amore permetta di far sì che la grazia di Cristo illumini e trasformi il cuore umano e la società.
1. Il modello della conversione pastorale: Gesù e la Samaritana
Qual è stata la prospettiva della pastorale di Gesù nei confronti della Samaritana? Il Signore “rivolse una parola al suo desiderio di amore vero, per liberarla da tutto ciò che oscurava la sua vita e guidarla alla gioia piena del Vangelo”[3]. In questo passo chiave del Vangelo di Giovanni, la verità dell’amore viene presentata come un elemento imprescindibile e come il filo conduttore dell’opera di Gesù.
In primo luogo, l’evangelista ci dice che Gesù “doveva attraversare la Samaria”. Non era costretto a farlo. Se “doveva attraversarla”, era perché voleva avvicinarsi al cuore della Samaritana. La presenza di Gesù al pozzo testimonia la priorità della grazia. Tutta la pastorale inizia con l’iniziativa di Dio che cerca attivamente l’essere umano. Così, il Creatore supera l’infinita distanza che lo separa dalla creatura. L’itinerario divino passa attraverso l’incarnazione del Signore e culmina nel cammino nella sua umanità, fino ad arrivare, stanco e assetato, a Sicàr.
Gesù si avvicina alla Samaritana partendo dalla vulnerabilità, non finta ma autentica. Ha sete, è stanco e non ha un secchio con cui attingere acqua. La priorità divina si realizza attraverso la povertà di mezzi e la fragilità. La sorgente si avvicina al pozzo, ma lo fa essendo “assetata”, ovvero mettendosi al nostro livello[4]. La sua fragilità è una provocazione. Così, a partire dall’esperienza comune del bisogno, la donna può aprirsi gradualmente al dialogo e alla conversione.
La pastorale di Gesù inizia presso il pozzo, simbolo del desiderio e della contingenza umana; nelle Sacre Scritture, questo è il luogo degli incontri e degli smarrimenti, degli amori e dei nuovi inizi. “Ritroviamo continuamente i Patriarchi che cercano di scavare dei pozzi”[5]. La storia della salvezza inizia sempre accanto al pozzo[6]. Se usciamo dai pozzi e percorriamo tutta la Scrittura alla loro ricerca, arriviamo ai Vangeli e troviamo il pozzo di Sicàr, dove il nostro Salvatore si riposò[7].
Il momento dell’incontro con la Samaritana è rilevante. Infatti, Cristo si avvicina al pozzo in un momento in cui nessuno ci sarebbe andato. L’ora sesta (mezzogiorno) non era il momento più appropriato per attingere acqua. Era l’ora del caldo opprimente, della solitudine e della disperazione. Questo è invece il momento giusto (il kairos) scelto da Gesù per sanare i desideri della donna.
L’iniziativa divina non si ferma qui. Oltre a rendersi presente, sarà Gesù a iniziare la conversazione, rompendo così il muro invisibile che lo separava dalla donna. “Dammi da bere”. Rivolgendosi a lei, Gesù la provoca e l’interpella in modo personale e diretto. Non rimane in attesa, perché è mosso dal desiderio divino: che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità[8].
“Come mai tu, che sei Giudeo…” La Samaritana esprime sorpresa per la richiesta. Questa situazione riflette l’ostilità moderna e postmoderna nei confronti del Vangelo. Di fronte a questo, Gesù non si offende né si spazientisce. Non la rimprovera, ma le dà tempo, perché, come sottolinea Sant’Agostino, la donna non era ancora oggetto di istruzione, ma di compassione. Aveva bisogno di compiere il suo cammino. La pastorale è il tempo della pazienza divina. Di fronte all’ostilità della donna, Gesù non si arrende, ma rafforza il suo invito. “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice…”
Arriviamo così a un secondo momento, quello della promessa. Partendo da un’iniziativa vulnerabile, Gesù la invita ad approfondire la sua esperienza della sete. Desidera condurla dal pozzo di Giacobbe alla fonte del suo cuore, dalla moltitudine di desideri al Desiderio che li sottende tutti, dalla sua umanità ferita e dispersa all’amore di Dio che guarisce la sua insoddisfazione endemica. Cristo le parlerà del dono di Dio che le permetterà di uscire dal circolo vizioso che si instaura tra un desiderio inesauribile e una soddisfazione sempre provvisoria.
Nel cuore della Samaritana si risveglia la curiosità e con essa una seconda obiezione. Non avendo nulla con cui attingere acqua, da dove attingerà quest’acqua viva? “Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe?” La donna esprime la sua perplessità e si apre al ricordo dell’origine del pozzo da cui beve ogni giorno. Si chiede se sia possibile trovare un’origine più radicale, un’acqua che non deluda. Si apre così alla possibilità di un miracolo, di un nuovo inizio nella sua vita. Gesù non placa la sete fisica della donna, ma la invita a camminare e ad alzarsi. Risveglierà in lei il desiderio di salvezza, celato nei suoi molti desideri. A poco a poco sarà salvata dai suoi desideri e risveglierà in lei il desiderio di salvezza.
La paziente pedagogia di Cristo accompagna la donna dal pozzo alla fonte, dai suoi bisogni al dono di sé, dall’eros all’agape. Questa purificazione del desiderio è accompagnata da una promessa: un’acqua che soddisfa per sempre. Gesù riesce così a generare in lei una richiesta sorprendente, anche se ancora confusa e imperfetta: “dammi di quest’acqua”. La donna è incuriosita da Gesù, ma continua a rimanere nel circolo dei suoi desideri immediati. Non vuole tornare al pozzo per prendere l’acqua. Non vuole rimanere in superficie, ma non sa neanche in che modo procedere.
A questo punto, il dialogo prende una piega inaspettata: “Va’ a chiamare tuo marito”. Colui che prima chiedeva l’acqua, ora ordina alla donna di portare suo marito, la sua famiglia. Chiama in causa la Samaritana nel contesto delle sue relazioni. Questa parola di Gesù non è uno sgarbo o un tentativo di cambiare argomento, ma entra nella logica specifica della terapia e della salvezza dei desideri. La conversazione con Cristo non rimane all’esterno, ma entra nella vita della famiglia e trasforma le relazioni più intime. L’acqua dello Spirito può agire solo sulla persona nella sua totalità, guarendo il cuore e tutti i legami che la costituiscono. Il riferimento al marito non manifesta un legalismo farisaico da parte di Gesù, ma è la logica conseguenza del dialogo. La donna, che ha accettato di iniziare un cammino, ora esprime la sua fragile solitudine: “Non ho marito”.
Qui arriviamo al momento chiave della conversione e della purificazione. Gesù illumina la situazione: “hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero”. Il Signore loda la sua confessione di umiltà e la confronta con la verità delle sue relazioni. La pastorale di oggi è tentata di correggere il Vangelo e di considerare versioni più accettabili di questo dialogo: sarebbe sembrato meglio se Gesù avesse detto: “Non essere così dura con te stessa. Se lo ami, va bene così. Tutti abbiamo il diritto di ricostruire la nostra vita. Continua a vivere come stai facendo. In fondo, i tuoi precedenti mariti non li amavi più. E se l’amore finisce, anche l’impegno viene meno. Fai quello che ti dice la tua coscienza. Non occorre che cambi la tua vita”. La pastorale di Gesù è la pastorale della verità dell’amore, ossia di una misericordia autentica che illumina la situazione della donna e la chiama alla conversione, senza falsificare la sua situazione e senza edulcorarla. Non la invita a “discernere” o a giustificarsi. Non la accusa, ma chiama amorevolmente le cose con il loro nome: “Hai detto la verità. Non hai cercato scuse. Hai riconosciuto che hai bisogno di un Salvatore per guarire le ferite delle tue relazioni. Cristo, lo sposo, viene per illuminare, guarire e far fiorire la tua vita”.
A questo punto, la Samaritana chiede la vera adorazione. Il cambiamento di vita proposto da Gesù non è possibile senza la presenza di Dio e il rapporto con Lui. Non dipende più dal luogo – il tempio di Gerusalemme o il Monte Garizim – ma si realizzerà nello Spirito e nella verità.
Poi arrivano i discepoli, interrompendo la conversazione, ma forse anche provocando la donna nel suo percorso verso la fede. La donna appena convertita lascia la brocca e scappa verso il villaggio. La brocca, fino ad allora indispensabile per dissetarsi, viene abbandonata. La Samaritana ha trovato la perla e venderà tutto. Diventerà una missionaria per Cristo. Il pozzo e la brocca non sono più necessari: la donna è diventata una fonte. Non è tutto chiaro per lei, ma ha ricevuto abbastanza luce per lasciare il pozzo e correre al villaggio. Grazie al suo apostolato, i Samaritani si avvicineranno a Gesù e crederanno in Lui e, in questo modo, la fede stessa della donna sarà rafforzata.
“Mi ha detto tutto quello che ho fatto”. Nell’evangelizzare i suoi vicini, la Samaritana mostra che l’opera di Gesù tocca la vita della persona, a partire dall’unità di fede e vita, e dall’integrazione di verità, misericordia e libertà. La Chiesa, esperta in umanità, segue la via del suo maestro, senza giustificare né accusare, ma chiamando alla conversione e alla verità dell’amore[9].
2. Diagnosi dell’attuale pastorale
Alla luce dello stile pastorale inaugurato da Gesù Cristo, possiamo esaminare la situazione attuale della Chiesa. Nella Samaritana riconosciamo l’individuo post-moderno che considera la Chiesa con indifferenza e ostilità. Dopo il fallimento del progetto moderno di costruire un mondo come se Dio non esistesse, l’uomo contemporaneo ha ridotto le sue pretese. Potremmo dire che il postmoderno vive “come se l’uomo non esistesse”. L’eclissi di Dio porta inevitabilmente al degrado dell’umano. L’abbandono di Dio, sorgente di acqua viva, porta a scavare cisterne screpolate che non possono contenere l’acqua e generano disperazione e un proliferare di passioni tristi[10]. Lo dimostra la stanchezza della Samaritana, che vive isolata, immersa in relazioni liquide, senza legami né fedeltà. Nei suoi cinque mariti, Sant’Agostino vede il simbolo di un’esistenza racchiusa nei cinque sensi, senza apertura alla trascendenza a cui questi mirano.
Eppure l’uomo che ha rifiutato Dio non può placare la nostalgia e la sete inestinguibile del suo cuore. Anche nelle sue negazioni si scopre il dolore per la patria perduta: “Dicono che non hanno sete; dicono che non è una sorgente; dicono che non è acqua, dicono che non è l’idea che essi si sono fatti dì una sorgente e dell’acqua; dicono che l’acqua non esiste…”[11].
La pastorale attuale deve tenere conto del fatto che l’abbandono di Dio ha portato alla perdita dell’idea dell’identità e dell’eccellenza umana. Il soggetto morale non solo è cambiato: in un certo senso, è scomparso. Non è più generato nelle relazioni familiari e sociali. Questa tragedia è legata al naufragio della morale contemporanea messo in evidenza da MacIntyre. Dopo la tempesta moderna, sono rimasti frammenti della nave, concetti (legge, virtù, forza…) separati tra loro e che nessuno sa come collegare. Il problema non è più solo l’immoralità, la mancanza di coerenza o persino il relativismo corrosivo. Siamo di fronte a una vera e propria crisi del soggetto morale[12]. L’uomo è guidato da una ragione emotiva e utilitaristica. È necessario ricostruire il soggetto morale a partire dalle sue fondamenta, dalla guarigione dei desideri e delle relazioni. Questo è esattamente il percorso che Gesù inizierà con la Samaritana.
Tuttavia, la nostra diagnosi della pastorale evangelizzatrice non può fermarsi qui. Dobbiamo considerare qualcosa di ancora più serio e profondo. A causa del suo carattere contagioso e invasivo, questa crisi del soggetto morale non è rimasta fuori dalle porte della Chiesa. Il circolo vizioso dell’emotivismo e dell’utilitarismo dell’ambiente circostante vi è entrato, permeando le sue azioni e la sua visione pastorale. Secondo questo approccio, la missione della Chiesa sarebbe quella di generare emozioni religiose che si connettano con l’uomo di oggi, e di offrire programmi e iniziative che intrattengano e favoriscano i sentimenti religiosi. Ma, come le cisterne screpolate, queste proposte non sono in grado di trattenere l’acqua e sono soddisfacenti solo per un breve periodo di tempo. Inoltre, i criteri utilitaristici prevalgono quando si considerano le strategie catechetiche e sacramentali, confondendo il successo e l’efficienza con il frutto.
Da questo punto di vista, l’obiettivo della pastorale si riduce all’offerta di conforto spirituale e di intrattenimento. Tutto, anche la preghiera e i sacramenti, sarà giudicato attraverso il filtro delle emozioni, in base al sentimento generato nella persona. Sempre da questa prospettiva, potremmo dire che ciò che conta non è l’esistenza di Dio o la nostra amicizia con Cristo nella vita quotidiana, ma piuttosto che la persona Lo sperimenti e Lo senta[13].
“Come ti senti?” Non troviamo questa domanda nel dialogo di Gesù con la Samaritana. Come abbiamo visto, Gesù diventa veramente vicino e misericordioso invitando la donna ad alzarsi e ad uscire dal circolo vizioso delle sue emozioni e sentimenti superficiali. Si siede vicino al pozzo e si rende vulnerabile con l’intenzione di liberare la donna dalle catene dell’emotivismo e dell’utilitarismo, da una vita senza Dio e senza umanità. Una pastorale puramente emotiva, invece, va al pozzo dei desideri umani senza la sorgente dell’acqua viva di Cristo. Offrirà sempre lo stesso: emozioni religiose più o meno intense che non possono saziare il cuore.
Fatta questa diagnosi generale, possiamo ora valutare alcune manifestazioni o sintomi della crisi. In primo luogo, dobbiamo considerare la mancanza di chiarezza nel telos, lo scopo della pastorale. Sembra che la Chiesa esista per consolare, generare emozioni positive e aiutare i fedeli a sentirsi bene. Quando si predica Cristo, lo si fa partendo da una prospettiva filantropica di autenticità, non da una chiamata alla conversione personale. Si cerca di placare le coscienze[14].
In secondo luogo, senza chiarezza di intenti, il progetto pastorale perde ogni unità[15]. Si spendono molte risorse, tempo, denaro e talenti per organizzare molteplici attività che portano a una frammentazione della pastorale e dell’attivismo. Tutto questo rafforza una prospettiva consumistica in cui il credente viene in Chiesa per ricevere un prodotto religioso che lo soddisfi. L’azione pastorale è quindi atomizzata e divisa. Si preferisce essere occupati piuttosto che affrontare i problemi reali. Questa moltiplicazione delle azioni pastorali spesso porta ad un aumento eccessivo della burocrazia nel lavoro pastorale, che tende a diventare meccanico e non personale. Si moltiplicano i comitati, le riunioni, le programmazioni, i sinodi, i moduli e la documentazione, ma si trascura la freschezza dell’incontro personale che Romano Guardini descriveva quando parlava della trasmissione della fede come di una candela che accende un’altra candela.
In terzo luogo, a causa di questa mancanza di telos e di unità, la pastorale restringe drasticamente il suo orizzonte e non è in grado di distinguere l’importante dall’urgente. L’attenzione si concentra quindi sulla risoluzione di problemi a breve termine, che tende ad essere superficiale e poco significativa. La formazione di una persona richiede anni e molti incontri che spesso non sono urgenti, ma molto importanti. Di conseguenza, la pastorale tende ad essere più reattiva che proattiva. Invece di prendere l’iniziativa e sviluppare la preparazione remota e la prevenzione, si limita a gestire l’immediato e passa il tempo a rispondere a problemi che devono essere risolti. Questo genera una percezione negativa della Chiesa, che arriva sempre in ritardo e dice sempre di no. A questo proposito, San Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Papa Francesco hanno tutti concordato sulla necessità di proclamare la bellezza della vocazione in Cristo.
Per evitare la percezione negativa della Chiesa, la tentazione di compiacere il mondo e di ridurre le esigenze della vocazione cristiana è grande. Per essere più in sintonia con la società, sarebbe sufficiente mettere a tacere alcune verità che sono “sgradevoli” per il mondo (come l’esistenza di azioni intrinsecamente cattive, come la contraccezione o l’aborto). Questo però sarebbe un tradimento della sua missione divina. “Ma se il sale diventa insipido, con cosa la si salerà?”.
La situazione è peggiorata dalla resistenza e dalla difficoltà di riconoscere la piena gravità della situazione. Tutti i membri della Chiesa respirano costantemente l’emotivismo utilitaristico attuale. La gravità della situazione deve essere riconosciuta con serenità e speranza. Viviamo in tempi simili a quelli degli apostoli, con la novità di vivere dopo Cristo, ma senza Cristo[16]. Il futuro della Chiesa, come ha sottolineato Benedetto XVI, risiede nelle minoranze creative, piccole comunità con una forte identità e un potente zelo missionario. Esse agiranno come lievito nella pasta, come sale della terra e luce del mondo[17].
3. La pastorale a partire dalla verità dell’amore
Possiamo ora tornare al dialogo di Gesù con la Samaritana per fare luce sulla diagnosi della pastorale di oggi. Tutto inizia con l’iniziativa vulnerabile divina. Alla base della trasformazione non c’è “una decisione etica o una grande idea” bensì l’incontro con Gesù Cristo, che interpella e conferisce alla vita “un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”[18]. In questo dialogo impariamo a conoscere Cristo (come ebreo, Signore, profeta e forse Messia) e a conoscere noi stessi.
L’incontro con Cristo è allo stesso tempo rivelazione dell’amore di Dio e della propria vocazione. La Samaritana era un enigma per se stessa. Voleva dissetarsi. Non poteva vivere senza amore, ma non era capace di un amore bello e vero[19]. Non poteva nemmeno capire se stessa, perché l’amore non le era stato rivelato. Nell’incontro con Cristo, il Verbo incarnato, i suoi misteri e la sua vocazione si rivelarono ai suoi occhi[20]. Ricevette l’amore incondizionato del Maestro e comprese la sua chiamata al dono sincero di sé, cioè alla verità dell’amore. Così arrivò a capire che l’essere umano, “sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso, non [può] ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé”[21].
Come sottolinea San Paolo VI nell’Evangelii nuntiandi, charta magna della teologia pastorale, la base, il centro e il culmine dell’evangelizzazione è la “chiara proclamazione che, in Gesù Cristo […] la salvezza è offerta ad ogni uomo”[22]. Questa salvezza non è solo la meravigliosa purificazione dal peccato e la guarigione della ferita di Adamo, ma anche e soprattutto la vera divinizzazione attraverso l’amicizia con Dio. È la salvezza dell’amore, dei desideri e delle relazioni personali di origine, di dono e di destino. La pastorale cristiana presenta Cristo come colui che, senza accusare, interpella il cuore umano e cerca la guarigione e la crescita dei desideri. Egli è il maestro della carità, come spiega San Massimo il Confessore: “Molti hanno detto molto sull’amore, ma pure, se lo cercate, lo troverete solamente fra i discepoli di Cristo. Perché essi soli imparano dal vero Amore quell’Amore del quale è detto: «anche se ho il dono della profezia e capisco tutti i misteri e possiedo tutta la scienza… se non ho l’amore… non mi servirà a nulla» (1 Cor. 13, 2-3)”[23].
3.1. Recuperare il telos: formare Cristo
Assumendo la prospettiva della verità dell’amore, possiamo capire che la conversione pastorale di oggi richiede innanzitutto di recuperare il fine, il telos a cui si ispira. La Chiesa non è fatta per intrattenere o per generare emozioni spirituali nei fedeli. Ciò di cui ha bisogno non è di creare comitati o strutture, o di cambiare l’atteggiamento, le regole o il programma adottato in parrocchia, ma di recuperare il telos. Come dirà San Paolo, la costituzione della Chiesa e dei suoi vari ministeri (apostoli, profeti, evangelisti, pastori e dottori) mira al perfezionamento dei santi e all’edificazione del corpo di Cristo[24]. L’obiettivo di tutta la pastorale è la formazione di Cristo nel cuore del credente mediante l’opera dello Spirito Santo in collaborazione con la libertà umana. Lo scopo è far sì che tutti arrivino “all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo”[25]. La predicazione, la celebrazione dei sacramenti e tutta la catechesi tendono alla trasformazione in Cristo, alla divinizzazione della persona. “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me”[26].
Questo fine, che unifica tutta l’azione pastorale, giunge a noi come un dono. Tutto scaturisce da esso e tutto è orientato ad esso. La chiarezza del fine permette di superare la frammentazione della pastorale e l’eccessiva burocrazia. Questo è possibile solo quando la luce dell’amore di Cristo guida l’azione della Chiesa. L’amore divino, che muove il sole e le stelle, avvia il dinamismo missionario a tutti i suoi livelli[27].
Il fine della pastorale evangelizzatrice è il telos perseguito da Dio fin dalla creazione del mondo: la nostra divinizzazione ad opera dello Spirito Santo. Pertanto, la Chiesa è chiamata a collaborare con Dio nella nostra trasformazione in Cristo. Da argilla a uomo e da uomo a Dio. Questa collaborazione richiede la predicazione esplicita del nome, della dottrina, della vita, delle promesse, del regno e del mistero di Gesù di Nazareth, il figlio di Dio[28]. La formazione di Cristo nel cuore richiede di conoscerlo internamente, di avere a che fare con Lui e di penetrare il suo mistero a poco a poco.
Attraverso questa predicazione e il contatto frequente, i fedeli prendono parte alle virtù di Cristo. L’opera dello Spirito nella carne è la guarigione dei desideri attraverso un percorso di purificazione e ascensione: dall’eros all’agape. Pertanto, non ci sarà una vera evangelizzazione basata sull’ignoranza dei desideri, né sulla loro semplice soddisfazione o negazione. Come quella di Cristo, la pastorale ecclesiale cerca la salvezza dei desideri attraverso il loro approfondimento e la loro crescita. Lo Spirito allarga il cuore dei fedeli e li introduce a una nuova misura di amore[29].
Questo allargamento del cuore non avviene senza dolore e sofferenza. “Il discepolo di Gesù non va in chiesa solo per osservare un precetto, per sentirsi a posto con un Dio che poi non deve ‘disturbare’ troppo”[30]. Cristo non si limita a consolare, ma riesce a provocare, grazie all’esperienza della bellezza. La Sua presenza influisce su tutte le dimensioni dell’esistenza e introduce una nuova visione del mondo e della vita (relazioni, lavoro, sessualità, corpo, alimentazione, studio, tempo libero …).
Affinché la pastorale possa adempiere alla sua missione di formare Cristo nel fedele, è necessario che sia affrontata a partire dalla verità dell’amore. Se il compito dell’evangelizzazione fosse quello di intrattenere, accontentare, emozionare o risolvere problemi legalistici di coscienza, allora altri approcci potrebbero funzionare meglio. Ma se si tratta di formare Cristo, allora è fondamentale seguire il percorso scelto da Cristo con la Samaritana. Nell’incontro con Dio, si rivela l’amore pieno che precede, trasforma e ispira. Senza la verità dell’amore, il Vangelo non raggiunge il suo obiettivo, non tocca il cuore delle persone e si perpetua la separazione tra fede e vita. Una fede che non cambia le relazioni e il modo di vedere il mondo e di vivere nel corpo è sterile e irrilevante, e tradisce lo stile misericordioso di Cristo. Non apre ad un futuro nuovo, ma rimane per sempre nel pozzo.
3.2. Una pastorale della famiglia alla radice
“Va’ a chiamare tuo marito e poi ritorna qui”. Per essere fedele al Maestro, la pastorale ecclesiale considera la persona come una rete di relazioni, non come un individuo isolato o una mera coscienza. Le relazioni personali costituiscono la persona in quanto figlia, moglie, madre… E tutte queste relazioni devono essere alimentate e curate. Gesù non ha messo in discussione la coscienza o le emozioni, ma i legami personali. Ha affrontato la sfida del rinnovamento (“architettura divina”) di tutte le relazioni umane[31].
Davanti a una pastorale emotivista, veleno che impedisce la conversione pastorale, la Chiesa si concentra sulle relazioni che fanno uscire le persone dal loro isolamento. Il luogo in cui si generano e si coltivano questi legami è la famiglia. Se l’incontro con il Cristo vivente dà inizio alla formazione del soggetto cristiano, la vita familiare si offre come quell’ambiente in cui esso può crescere. Nella Chiesa domestica si impara a ricevere e ad essere grati, ad interpretare gli affetti, ad educarli nel tempo, a promettere e a mantenere la parola data e a donarsi nel dono di sé. Il soggetto familiare è il contesto in cui avviene la trasformazione e la rigenerazione del soggetto emotivo utilitaristico[32].
Comprendiamo così che la pastorale familiare non è uno dei tanti settori in cui opera la Chiesa. Di fronte a una pastorale frammentata in molteplici ambiti, la famiglia si presenta come il luogo dell’unità. Da essa è possibile raggiungere tutti gli ambiti e le età della persona (malattia, vecchiaia, gioventù, infanzia, povertà, fame, studi…). Quando la famiglia è al centro, la pastorale cessa di essere settoriale e diventa integrale. Pertanto, la pastorale parrocchiale sarà una pastorale familiare, o non sarà ciò che è chiamata ad essere nella sua pienezza[33]. Senza la Chiesa domestica non è possibile evangelizzare. Essa è il soggetto attivo ed essenziale della nuova evangelizzazione. È la via della Chiesa, lo spazio umano del nostro incontro con Cristo[34].
La missione della Chiesa, quindi, è quella di rafforzare la famiglia nella sua identità e missione. Per questo motivo, la pastorale della Chiesa deve essere una “pastorale del vincolo”, della promessa. Papa Francesco ha deplorato che la Chiesa non faccia abbastanza per rafforzare i matrimoni e aiutarli a superare le difficoltà e ad educare i figli. “La pastorale prematrimoniale e la pastorale matrimoniale devono essere prima di tutto una pastorale del vincolo, dove si apportino elementi che aiutino sia a maturare l’amore sia a superare i momenti duri”[35]. La spiritualità del matrimonio deve essere anche “una spiritualità del vincolo, abitato dall’amore divino”[36]. Per rafforzare il matrimonio e la famiglia nella loro vocazione, la Chiesa deve concentrarsi sulla bellezza della vocazione all’amore coniugale, che culmina nella carità coniugale. È questo “il modo proprio e specifico con cui gli sposi partecipano e sono chiamati a vivere la carità stessa di Cristo che si dona sulla Croce”[37].
3.3. Conversione e gradualità
“Hai detto bene «non ho marito» infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito” (Gv 4, 17-18). Seguendo le orme del Signore, l’evangelizzazione pastorale inizia con l’invito alla conversione e pone la persona davanti alla verità dei suoi amori e delle sue relazioni. La salvezza passa per il riconoscimento della propria storia e per il nuovo inizio offerto da Gesù Cristo. Non esiste una situazione personale così drammatica ( si pensi alla Samaritana e ai suoi ripetuti divorzi) da impedire la possibilità di un nuovo inizio.
La chiamata alla conversione avviene all’interno di un paziente itinerario pedagogico che è proprio della legge della gradualità. Gesù Cristo si adatta alla situazione del suo pubblico. Alcune volte dice semplicemente: “Convertitevi e credete”. Altre volte, come con la Samaritana, agisce gradualmente, generando fiducia, suscitando curiosità e apertura, fino ad arrivare alla chiamata alla conversione e all’invito a credere in Lui e a seguirlo. In tutti i casi, Gesù offre un percorso di speranza e sollecitazione, di verità dell’amore.
Di conversione non si parla spesso nella pastorale di oggi. Eppure, tutti gli sforzi di evangelizzazione devono essere indirizzati verso di essa, intesa come un autentico cambiamento di mentalità e di vita. Non si tratta solo di generare sentimenti positivi e consolazione. La predicazione di Gesù, ispiratrice di tutta l’azione della Chiesa, non portava pace, ma guerra e spada. È vero, Gesù ha guarito e consolato molti, offrendo la sua presenza e il suo incoraggiamento[38], ma la sua predicazione era un fuoco che imponeva di riconsiderare la propria vita. Così fu per la Samaritana, per Zaccheo, per il giovane ricco o per i due di Emmaus, che furono corretti e provocati dal maestro. “Credere che siamo buoni solo perché «proviamo dei sentimenti» è un tremendo inganno”[39]; anche pensare di evangelizzare bene solo perché le persone si commuovono lo è. Gesù Cristo non ci ha chiamati a provare emozioni, ma ad agire: “vieni e seguimi”;”Và a chiamare tuo marito”; “Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina”…
La conversione è l’inizio della trasformazione in Cristo. È sempre una morte e una resurrezione: l’io cessa di essere un soggetto autonomo e diventa una nuova creatura intimamente unita a Cristo, il cui ambiente è la Chiesa, il Suo corpo[40]. Se la crisi attuale deriva dalla perdita del soggetto morale, ridotto a emozioni e utilità, l’incontro con Cristo è la nascita del soggetto cristiano. Partecipando al mistero pasquale del Signore, il fedele progredisce nell’itinerario di purificazione e di crescita nell’amore, camminando nei suoi desideri (eros) verso il vero amore (agape)[41].
Come vediamo nel dialogo con la Samaritana, la conversione non è un ideale romantico o un messaggio irraggiungibile che genera risentimento. Piuttosto, è un dono da abbracciare con forza e sofferenza[42]. “Se tu conoscessi il dono di Dio”. Questo cambiamento di mente e di cuore è possibile perché Cristo ha veramente redento l’uomo[43]. Non si tratta semplicemente di una decisione umana, ma di una vocazione divina che richiede una risposta libera[44]. In questo modo, la vera libertà non deriverà dall’indipendenza assoluta e dall’indeterminazione di fronte a molte opzioni, ma sarà una risposta a un dono che ci precede.
A questo punto, occorre sottolineare che la conversione non è un evento isolato nella vita umana. La legge della gradualità implica la necessità di un cammino progressivo in cui la persona si trova in uno stato di conversione (status conversionis) permanente, in una costante riforma del cuore e in un’incessante uscita da se stessa. L’insistenza su questo aspetto non scaturisce da un’ossessione per il peccato. Al contrario, la fonte costante della conversione è la conoscenza autentica del Signore come Dio di misericordia e amore[45]. La conversione non è solo un atto interiore momentaneo, ma anche una disposizione stabile che trasforma l’intera visione del mondo e della storia. Lo stupore di fronte all’amore divino ci permette di vivere in statu conversionis, che “è questo stato che traccia la più profonda componente del pellegrinaggio di ogni uomo sulla terra in stato di viandante”[46].
Il dialogo con la Samaritana ci mostra che l’offerta di perdono e la chiamata alla conversione non conoscono limiti di tempo o di spazio. Dopo cinque divorzi, la Samaritana diventerà discepola e missionaria di Gesù nella sua città. C’è sempre un futuro attraverso la conversione e il pentimento. Tuttavia, questo rinnovamento avviene per mezzo della verità dell’amore e del pentimento. Il peccato e il vizio devono essere riconosciuti e confessati per poter essere guariti. In questo senso, è necessario insistere sul fatto che essere “pastorale” non significa abbassare le pretese, evitare di affrontare i problemi o falsificare la verità del Vangelo. Il vero missionario segue l’esempio di Cristo, il Buon Pastore. A volte, come è successo a Sant’Agostino, Dio agisce con una misericordia “severa” e medicinale[47]: “se s’infligge un castigo in virtù della carità, non se ne vada dal cuore la mitezza. Chi è più umano d’un medico che porta i ferri da chirurgo? Uno che deve subire un’amputazione piange, ma viene operato; uno che deve subire una bruciatura piange, ma quell’intervento si compie. Questa non è crudeltà, non si deve chiamare affatto crudeltà del medico. Egli incrudelisce contro una piaga affinché sia guarito l’uomo”[48].
Comprendiamo quindi che questa pedagogia paziente e misericordiosa non ha nulla a che fare con quello che alcuni autori hanno definito la “gradualità della legge”. Questa teoria, proposta nel corso del XX secolo, è sorprendentemente tornata in auge negli ultimi anni, senza però fornire nuove argomentazioni. Ha già dimostrato in passato la sua carenza teologica e la sua sterilità pastorale[49]. Secondo questa teoria teologica, la legge di Dio andrebbe adattata alla situazione personale e alle possibilità concrete di ogni individuo. Poiché si presume che sia impossibile adempiere alla legge divina, si propone di stabilire dei gradi nella sua richiesta e applicazione (gradualità), anche nel caso di atti intrinsecamente cattivi (precetti divini negativi). Così, ad esempio, nel caso dell’Humanae Vitae, l’applicazione dipenderà dalla coscienza di ciascun individuo. In alcuni casi, il ricorso alla contraccezione sarà ritenuto necessario e persino positivo per il matrimonio.
Di fronte a questa falsificazione del Vangelo, il Cardinale Lustiger sottolineava già il modo in cui il termine “gradualità” dovrebbe essere inteso, evitando sia il pelagianesimo che il relativismo. La pedagogia divina consiste nella storia di una vera nascita alla vita divina attraverso lo Spirito. L’esclusione della gradualità dalla legge è la condizione di possibilità di una legge evangelica della gradualità. Solo se manteniamo il carattere obbligatorio dei comandamenti, possiamo offrire una pedagogia dell’accompagnamento, basata sul potere della grazia e della conversione[50]. Tutto deve iniziare con la conversione, che è la morte al peccato. Non c’è gradualità tra la morte e la vita, tra un cadavere e un corpo vivente. Solo da questa premessa è possibile offrire il percorso graduale di crescita nella virtù e di ricezione del dono di Dio. Cambiare la legge di Dio e ridefinire ciò che è bene e ciò che è male sarebbe una falsa misericordia: un atto legalistico che renderebbe la pastorale inutile e persino impossibile[51].
La posta in gioco non è una semplice questione terminologica (gradualità della legge o legge della gradualità), ma una questione essenziale. La legge di Cristo e le esigenze morali del cristiano dipendono dalla fragilità umana o dalla grazia divina? Chi determina le reali possibilità dell’uomo – la sua debolezza o la potenza di Cristo? La risposta di Agostino è chiara: “La legge è stata data perché invocassimo la grazia; e la grazia è stata data perché potessimo osservare la legge”[52]. Il criterio dell’alleanza con Dio non è la fragilità dell’uomo, ma l’infinita misericordia di Dio.
Questo chiarimento ci permette di mostrare il senso in cui l’azione della Chiesa è chiamata ad essere pastorale della misericordia. Di fronte alle falsificazioni odierne, la misericordia si presenta come la pienezza della giustizia e la manifestazione più luminosa della verità di Dio[53]. La misericordia va oltre la mera compassione e la tolleranza del male. Chi tollera non elimina il male, non lo guarisce e quindi non offre un futuro di speranza alla persona. Ecco perché la vera misericordia esige la conversione, che è l’espressione più concreta dell’azione dell’amore nel mondo. “Il significato vero e proprio della misericordia non consiste soltanto nello sguardo, fosse pure il più penetrante e compassionevole, rivolto verso il male morale, fisico o materiale: la misericordia si manifesta nel suo aspetto vero e proprio quando rivaluta, promuove e trae il bene da tutte le forme di male esistenti nel mondo e nell’uomo”[54].
Al di là della semplice compassione e tolleranza, la misericordia comporta una rigenerazione del soggetto cristiano, che diventa capace di amare nella verità. Si tratta di una vera e propria battaglia che culmina nella vittoria del bene sul male[55]. Applicato al suo rapporto con Dio e con l’umanità, il vero significato di misericordia implica il ristabilimento dell’Alleanza[56]. Questa è la misericordia che “costituisce il contenuto fondamentale del messaggio messianico di Cristo e la forza costitutiva della sua missione” [57].
3.4. Pastorale di fonte, non di pozzo
“Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna’ “ (Gv 4, 13-14). La pastorale di Cristo nei confronti della Samaritana è una pastorale di trasformazione, non di mantenimento, una pastorale di fonte, non di pozzo. Gesù si reca nel luogo dei desideri (pozzo) per incontrare la donna, ma non si ferma a questo: fa di essa una fonte. Non ci saranno più cisterne screpolate, ma una fonte da cui sgorga l’acqua della vita eterna. Nella donna si realizza la profezia di Gesù nel tempio di Gerusalemme: “ «Chi ha sete venga a me e beva; chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno». Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui”[58].
Secondo la teologia giovannea, il dono dell’acqua della vita eterna, lo Spirito Santo, sgorga dal cuore trafitto di Cristo sulla croce[59]. Dal Calvario sgorga un fiume di acqua viva che rigenera le relazioni ferite e trasforma il cuore umano in un paradiso e in una sorgente per molti[60]. Così, sulla croce, si compie la parola di Cristo alla donna samaritana: “Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità”[61]. Lo Spirito Santo donato sulla croce è, secondo la bella espressione di Sant’Ignazio di Antiochia, la fonte che sgorga nel cuore e sussurra: “Vieni, vieni al Padre!”[62]. La forza dello Spirito scorre come un fiume sotterraneo e lo unisce sempre di più a Cristo per mezzo della grazia dei sacramenti della Chiesa.
La pastorale della fonte è quindi sempre una pastorale trinitaria: in Cristo, attraverso lo Spirito, verso il Padre. In contrasto con questo, la proposta emotiva (del pozzo) offre una salvezza ridotta, “immanente, a misura dei bisogni materiali o anche spirituali che si esauriscono nel quadro dell’esistenza temporale e si identificano totalmente con i desideri, le speranze, le occupazioni, le lotte temporali”[63]. La salvezza di Cristo trascende tutti questi limiti e introduce l’uomo nella comunione con Dio, già presente e disposto ad esserlo sempre di più. È una salvezza trascendente: inizia certamente in questa vita e raggiunge la sua pienezza nella vita eterna.
Da questa prospettiva, comprendiamo anche che la pastorale ecclesiale deve essere essenzialmente mariana. In Maria si trova Cristo. La donna beata, colma di Spirito Santo, è colei che ci mostra la strada e ci insegna ad abbracciare la logica della sovrabbondanza.
Qui ci troviamo di fronte ad un vero e proprio cambio di paradigma nella pastorale: dalle forze isolate dell’uomo dobbiamo passare al dono originale della vocazione affidata da Dio all’uomo. C’è una nuova misura, perché c’è una fonte inesauribile di vita eterna. Il traboccare del dono dello Spirito porta ad abbandonare una pastorale individualista e mediocre, incentrata sulla soluzione dei problemi e ad abbracciare una proposta comunitaria di chiamata alla santità. Se la “vecchia pastorale” ha cercato di emozionare e consolare, è invece necessario offrire ora una proposta che chiami all’azione e promuova lo sviluppo della persona nella sua sequela di Cristo. Non si tratta più di discernere in coscienza e di considerare i valori, ma di ricevere il dono divino, esercitare la prudenza e crescere nella virtù. La domanda guida non sarà più “Cosa devo provare?” ma “Cosa ho ricevuto?” e “Cosa devo fare?”. In realtà, questo “cambiamento di paradigma” non è una “rivoluzione”, ma un ritorno alle fonti della Scrittura e della Tradizione, a partire dalla freschezza della fonte divina che non cessa mai di apportare novità.
La tentazione di tacere o di abbandonare gli insegnamenti difficili ed esigenti della Chiesa viene così superata. I “No” che la Chiesa deve proclamare fanno parte del grande “Sì” di Cristo all’uomo e alla sua felicità: “senza un ‘no’ a certe cose non cresce il grande ‘sì’ alla vera vita”[64]. In questo modo evitiamo qualsiasi opposizione tra pastorale e dottrina, tra l’opera del pastore e quella del teologo[65]. La conversione pastorale alla verità dell’amore rivela la profonda unità tra dottrina e pastorale, tra fede e vita quotidiana[66]. È la verità dell’amore di Cristo che salva, non la verità senza amore o l’amore senza verità.
La “pastorale della fonte” non si basa sulle molte azioni umane, ma sull’azione divina. Riconosce quindi nella liturgia della Chiesa l’attualizzazione del mistero di Cristo e la fonte dell’iniziativa pastorale. I sacramenti, lungi dall’essere azioni sociali una tantum, sono vere e proprie nascite, nuovi inizi nella vita di una persona che rinnovano le sue relazioni. Poiché sono sorgenti di vita eterna, non è sufficiente prepararsi in anticipo per la loro celebrazione, ma è necessario considerarli come punti di partenza da accompagnare successivamente dalla parrocchia e dalla famiglia[67]. In particolare, la celebrazione dell’Eucaristia, fonte e culmine della vita della Chiesa, sarà centrale per il rinnovamento della cura pastorale. “Grazie all’Eucaristia la Chiesa rinasce sempre di nuovo!”[68].
La sorgente del cuore di Cristo non si esaurisce. La pastorale della fonte, non dipendendo dalle forze isolate dell’uomo, offre fiducia nel futuro. La grazia di Dio non mancherà. Allo stesso tempo, poiché impone di entrare in una nuova misura, questa pastorale richiede umiltà e docilità. Dobbiamo “lasciarci vincere” dal Signore e gioire di questo. Come dirà mirabilmente san Efraim: “Colui che ha sete è lieto di bere, ma non si rattrista perché non riesce a prosciugare la fonte. È meglio che la fonte soddisfi la tua sete, piuttosto che la sete esaurisca la fonte. Se la tua sete è spenta senza che la fonte sia inaridita, potrai bervi di nuovo ogni volta che ne avrai bisogno. Se invece saziandoti seccassi la sorgente, la tua vittoria sarebbe la tua sciagura. Ringrazia per quanto hai ricevuto e non mormorare per ciò che resta inutilizzato”[69].
3.5. Pastorale di santità e missione
Partendo da questa sovrabbondanza della fonte divina, comprendiamo che la prospettiva in cui deve collocarsi il cammino pastorale è quella della santità[70]. “Tutti coloro che credono nel Cristo di qualsiasi stato o rango, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità”[71]. Questa è la dinamica intrinseca e determinante della pastorale. Non sarà il cammino da percorrere per una piccola élite, perché la verità dell’amore è la vocazione di ogni uomo, senza eccezioni.
L’attuale situazione della Chiesa nel mondo e l’atmosfera postmoderna rendono necessario insistere su questo punto nella pastorale evangelizzatrice. La santità è possibile perché la redenzione di Cristo è reale[72]. Il celibato sacerdotale può essere promesso e mantenuto. La castità coniugale può essere vissuta con gioia nel matrimonio. Come dimostra l’esempio della Samaritana, c’è sempre spazio per il pentimento e per una rinascita.
In questo percorso, i santi non sono isole, ma piuttosto oasi attorno alle quali nasce e cresce la vita di Cristo e il paradiso torna in terra[73]. Pertanto, il cammino verso la santità non è individuale ma comunitario. Il futuro della pastorale passa per le minoranze creative[74], cioè per comunità missionarie in cui la persona fiorisce nelle sue relazioni. In queste comunità la formazione del soggetto avviene attraverso pratiche comuni e itinerari che si snodano attorno a riti di passaggio[75].
La santità passa per la croce e integra il dolore e la persecuzione come partecipazione al dono di sé di Cristo[76]. La perfezione della carità nella sequela di Cristo trova la sua massima espressione nel martirio.
3.6. Una pastorale della missione: dalla sorgente alle sorgenti
La donna abbandonò la brocca e corse in città[77]. Nella sua corsa si manifesta l’urgenza generata dal grande amore di Gesù Cristo. Diventò una fonte di acqua viva per i suoi vicini. Colei che era venuta assetata e disperata tornò libera e sazia. Quella donna non aspettò di ricevere più formazione. Non poteva non comunicare il dono che aveva ricevuto. Evangelizzare era il frutto naturale della sua conversione. Pertanto, se prima abbiamo parlato di uno “stato di conversione” permanente, possiamo anche pensare a uno status evangelizationis, uno “stato di evangelizzazione”, proprio di ogni battezzato, di tutto il corpo mistico della Chiesa. Essere cristiano significa essere missionario. Condividere la fede con gli altri è il modo in cui essa cresce e rafforza le sue radici[78]. Si tratta di un dono contagioso che genera sorgenti ovunque vada.
“Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?”[79]. La donna basa il suo invito alla fede sulla luce che il Signore porta nelle sue azioni e relazioni. Con la sua presenza, Cristo trasforma la storia della vita della Samaritana, introducendo un nuovo inizio.
In questa donna, sottolinea Sant’Agostino, possiamo riconoscere un simbolo della Chiesa annunciatrice[80]. L’urgenza missionaria della Samaritana dimostra che fare proseliti è un bisogno interiore di ogni credente. La proclamazione non è l’opera di pochi esperti, ma è l’opera di coloro che incontrano Cristo. Tutti i membri della Chiesa sono missionari attivi. Oltre all’importanza apostolica della famiglia, Chiesa domestica, è necessario sottolineare anche l’importanza dei laici nella santificazione dell’ordine temporale[81]. L’approccio pastorale basato sulla verità dell’amore ci permette di fare luce sul rapporto tra la famiglia e la vita consacrata, il laicato e l’ordine sacerdotale fondato sull’Alleanza delle vocazioni.
“Non è più per la tua parola che noi crediamo; ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo”[82]. I Samaritani seguono immediatamente l’esempio della donna: lasciano la ‘brocca’ e corrono ad annunciare Cristo, trasmettendo la fede agli altri. Sant’Agostino riassume questo contagio missionario dicendo: “prima per la fama, poi per la presenza”[83]. In primo luogo, Cristo viene annunciato attraverso amici cristiani che diffondono la Sua fama. Poi, coloro che ricevono la parola conoscono il Salvatore e ricevono il dono della Sua presenza. Il fine della Chiesa è quello di fare discepoli di Gesù che – quasi immediatamente – diventano missionari.
Cristo è riconosciuto dai Samaritani come il “salvatore del mondo”, e non semplicemente come un uomo esemplare o uno dei tanti mediatori del divino. Solo in Lui si rivela pienamente il mistero dell’uomo e la sua vocazione all’amore. La prospettiva della verità dell’amore, con la sua radice creazionale e antropologica, mostra la necessità di promuovere una cultura evangelizzatrice che, pur rispettando le altre religioni e culture, sappia annunciare con coraggio Gesù Cristo come unico Salvatore del mondo, evitando il relativismo[84].
Conclusione
“Quando tutti i pozzi saranno seccati, essa (la samaritana) ci darà ancora dell’acqua”[85]. La Chiesa, esperta in umanità, conserva l’acqua della vita eterna fino alla fine del mondo, fino al ritorno vittorioso del Signore. Nella situazione attuale, in cui i pozzi del progetto moderno e del soggetto emotivo utilitaristico si stanno prosciugando, la nuova evangelizzazione richiede la prospettiva della verità dell’amore, che orienta lo sguardo verso la sorgente del cuore di Cristo.
La nuova luce della pastorale non verrà da un adattamento della Chiesa al mondo, rinunciando alle esigenze della verità. Ridurre il disegno di Dio alle possibilità umane con un cattolicesimo poco identitario e politicamente corretto sarebbe un tradimento del Vangelo di Cristo. Il rinnovamento non deriverà nemmeno da un mero ritorno al passato, che si rifà a vecchi modelli che sono serviti per affrontare le crisi di altri tempi. Non si tratterà di fare passi indietro, né di fare un salto in avanti nell’abisso postmoderno. Si tratterà piuttosto di ascendere verso la sorgente dell’amore divino[86]. La prospettiva della verità dell’amore permette di superare la dialettica sterile (tra tradizionalismo e liberalismo) a partire dall’invito ad elevarsi verso la fonte, verso la “bellezza sempre antica e sempre nuova”[87]. Questa fonte è il Signore, presente nella Chiesa e soprattutto nell’Eucaristia, che ne è la sorgente e il culmine. In questa fonte, Gesù ci insegna la verità dell’amore, essenza stessa di Dio[88]. Pertanto, la pastorale evangelizzatrice ha il suo fulcro e la sua sorgente nel sacramento dell’altare, che si prolunga nell’adorazione eucaristica.
“Se vuoi trovare la sorgente, devi proseguire in su, controcorrente. Penetra, cerca, non cedere”[89].
[1] Ger 2, 13.
[2] Cf. PAPA FRANCESCO, Evangelii Gaudium, 25. 27.30.32.
[3] PAPA FRANCESCO, Amoris laetitia, 294.
[4] Cf. Fil 2, 5-11.
[5] Cf. ORIGENE, Omelia XIII sulla Genesi. J. CORBON, Liturgia fontal. Misterio – Celebración – Vida, Palabra, Madrid 2009, 27.
[6] Cf. J. CORBON, Liturgia fontal. Misterio – Celebración – Vida, Palabra, Madrid 2009, 27. Cf. Gen 33, 18; 48, 21; Gios 24, 32.
[7] Cf. ORIGENE, Omelia XII su Numeri.
[8] Cf. 1 Tim 2, 4.
[9] Cf. S. PAOLO VI, Discorso all’ONU, 4 ottobre 1965; S. GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai vescovi europei, 11 ottobre 1985; Discorso alla Pontificia Accademia Ecclesiastica, 26 aprile 2001.
[10] Cf. F. DUBOIS, La época de las pasiones tristes, Siglo XXI editores, 2020.
[11] P. CLAUDEL, Le Père humilié, atto II, scena 2.
[12] Cf. MELINA, Moral, entre la crisis y la renovación, Eiunsa, Madrid2 1998.
[13] Si veda C.S. LEWIS, La abolición del hombre, Encuentro, Madrid 2007.
[14] Cf. GIOVANNI PAOLO II, Lettera alle famiglie, 13-14.
[15] J.-J. PÉREZ-SOBA, La pastoral familiar. Entre programaciones pastorales y generación de una vida, BAC, Madrid 2014.
[16] Cf. CH. PÉGUY, Clio I, Temporal and Eternal, Indianapolis, Liberty Press 2001, 85-165; CH. CHAPUT, Strangers in a Strange Land…
[17] Si veda: L. GRANADOS—I. DE RIBERA (coed.), Minorías Creativas: El Fermento del Cristianismo. Colección Didaskalos. Burgos: Editorial Monte Carmelo, 2011.
[18] BENEDETTO XVI, Enciclica Deus Caritas Est, 1.
[19] Cf. S. GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Redemptor hominis, 10.
[20] Cf. Gaudium et spes, 22.
[21] Gaudium et spes, 24.
[22] Cf. S. PAOLO VI, Evangelii nuntiandi, 9 e in particolare 27.
[23] Centurie sulla carità, 4, 100
[24] Cf. Ef 4, 11-13.
[25] Ef 4, 13.
[26] Gal 2, 20.
[27] BENEDETTO XVI, Discorso al Pontificio Consiglio Cor Unum, 23 gennaio 2006, dove cita: Dante, Divina commedia, Paradiso, 33.
[28] Cf. S. PAOLO VI, Evangelii nuntiandi, 22.
[29] Cf. Veritatis Splendor, 103. Si veda altresì la Tesi 10 del Veritas Amoris Project.
[30] PAPA FRANCESCO, Omelia, 7 marzo 2015.
[31] A questo proposito, si vedano le interessanti riflessioni sull’architettura divina delle relazioni umane nella prima enciclica di Papa Francesco, Lumen Fidei. Si veda anche C. Granados – J. Granados, El corazón, urdimbre y trama, Didaskalos, Madrid.
[32] Cf. J. GRANADOS – S. KAMPOWSKI – J.-J. PÉREZ-SOBA, Accompanying, Discerning, Integrating. A Handbook for the Pastoral Care of the Family According to Amoris Laetitia, Emmaus Road Press, Steubenville 2017, 4.
[33] Cf. L. GRANADOS, “Family Friendly Parishes”, in Giovanni Paolo II, Papa della famiglia. Città del Vaticano: Cantagalli 2015.
[34] Cf. BENEDETTO XVI, Discorso al Pontificio Consiglio per la famiglia, 1 dicembre 2011;PAPA FRANCESCO, Amoris laetitia, 200.
[35] Cf. PAPA FRANCESCO, Amoris Laetitia, 211.
[36] Cf. PAPA FRANCESCO, Amoris Laetitia, 315.
[37] Cf. S. GIOVANNI PAOLO II, Familiaris consortio, 13.
[38] Cf. PAPA FRANCESCO, Amoris laetitia, 100.
[39] PAPA FRANCESCO, Amoris laetitia, 145.
[40] Cf. L. MELINA, Conciencia y prudencia, 43.
[41] Cf. The Way of Love.
[42] Cf. S. GIOVANNI PAOLO II, Omelia, 25 Ottobre 1980; Familiaris Consortio, 9.34.
[43] Cf. Tesi 10 Veritas Amoris; Veritatis Splendor, 103.
[44] Cf. S. GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica Dilecti Amici, 9 y 13.
[45] Cf. S. GIOVANNI PAOLO II, Dives in misericordia, 13.
[46] S. GIOVANNI PAOLO II, Dives in misericordia, 13.
[47] Cf. S. AGOSTINO, Confessioni, 8, 11.
[48] S. AGOSTINO, Sermo 83, 7.
[49] Cf. J. LARRÚ, “Gradualità e maturazione”, in J. NORIEGA – R. & I. ECOCHARD (ed.), Dizionario su sesso, amore e fecondità, Cantagalli, Siena 2019, 442-450.
[50] Cf. J. M. LUSTIGER, “Gradualitá e conversione”, in AA.VV., La Familiaris Consortio, LEV, Città del Vaticano, 1982, 31-57, 55.
[51] Si veda MELINA, 125.
[52] De spiritu et littera 19, 34: CSEL 60, 187, citato in J. LARRÚ, “Gradualità e maturazione”, J. NORIEGA – R.&I. ECOCHARD (coed.), Dizionario su sesso, amore e fecondità, Cantagalli, Siena 2019, 442-449.
[53] Cf. PAPA FRANCESCO, Amoris laetitia, 311.
[54] S. GIOVANNI PAOLO II, Dives in misericordia, 6.
[55] Cf. Rom 12, 21.
[56] Cf. PAPA FRANCESCO, Amoris laetitia, 64. S. GIOVANNI PAOLO II, Dives in misericordia, 4.
[57] S. GIOVANNI PAOLO II, Dives in misericordia, 6.
[58] Gv 7, 37-39.
[59] Cf. Gv 19, 31-37.
[60] Cf. Ap 22, 1; Es 17, 6; Num 20, 11; Ez 47, 1.
[61] Gv 4, 23.
[62] Cf. Ad Rom., 6:1-9. Si veda anche BENEDETTO XVI, Omelia, Giornata mondiale della gioventù, 20 luglio 2008.
[63] Cf. S. PAOLO VI, Evangelii nuntiandi, 27.
[64] BENEDETTO XVI, Discorso, Incontro preparatorio. Giornata mondiale della gioventù, 25 marzo 2010.
[65] L. MELINA (ed.), Conversione pastorale per la famiglia: sì, ma quale? Contributo del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II al Sinodo, Cantagalli, Siena 2015, 19.
[66] Cf. Gaudium et spes, 43.
[67] Cf. K.-H. MENKE, Sacramentalidad: esencia y llaga del catolicismo, BAC, Madrid, 2014; J. LARRÚ – J. GRANADOS (ed.), La perspectiva sacramental. Luz nueva sobre el hombre y el cosmos, Didaskalos, Madrid 2017.
[68] BENEDETTO XVI, Omelia nella Celebrazione Eucaristica di insediamento sulla Cathedra Romana, 7 maggio 2005. Cf. ID., Esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis, 6.
[69] S. EFRAIM, Commento al Diatessarron, 1, 18-19: SC 121, 52-53.
[70] Cf. S. GIOVANNI PAOLO II, Novo millenio ineunte, 30.
[71] Lumen Gentium, 40.
[72] Cf. S. GIOVANNI PAOLO II, Veritatis Splendor, 103.
[73] Cf. J. RATZINGER, Jesus of Nazareth. From the Baptism in the Jordan to the Transfiguration, Doubleday, New York, 2007, 248.
[74] Cf. L. GRANADOS—I. DE RIBERA (coed.), Minorías Creativas: El Fermento del Cristianismo. Colección Didaskalos. Burgos: Editorial Monte Carmelo, 2011.
[75] Cf. L. GRANADOS, “Pastoral Conversion Through Practices: The Renewal of Family Ministry in the Parish”, en Anthropotes 31 (2015) 439-461.
[76] Cf. K. WOJTYLA, Sign of Contradiction, 251.
[77] Cf. Gv 4:28.
[78] S. HAHN, Evangelizing Catholics. A Mission Manual for the New Evangelization.
[79] Gv 4:29.
[80] Cf. Commento a san Giovanni, 15, 33.
[81] Cf. S. GIOVANNI PAOLO II, Christifideles Laici.
[82] Gv 4, 42.
[83] Cf. Commento a san Giovanni, 15, 33: “primo per famam, postea per praesentiam”.
[84] Cf. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dichiarazione Dominus Iesus sull’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa (6 agosto 2000).).
[85] P. CLAUDEL, Le Père humilié, acto II, escena 2.
[86] Cf. L. MELINA, Conciencia y prudencia. La reconstrucción del sujeto moral cristiano, Didaskalos, Madrid 2019, 124.
[87] Confessioni, 10, 27, 38.
[88] Cf. BENEDETTO XVI, Esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum caritatis, 2.
[89] Cf. S. GIOVANNI PAOLO II, Trittico romano.
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