Andare oltre l’osservanza letterale della legge: La Pontificia Accademia per la Vita sfida gli insegnamenti della Humanae vitae e della Donum vitae

Gerhard Cardinal Müller and Stephan Kampowski

Nella sua recente pubblicazione Etica teologica della vita. Scrittura, tradizione, sfide pratiche[1], la Pontificia Accademia per la Vita propone una rivoluzione della morale sessuale cattolica, suggerendo che, in presenza di atteggiamenti giusti da parte dei coniugi, la pratica della contraccezione e della procreazione artificiale omologa può essere moralmente lecita, contraddicendo così direttamente il magistero della Chiesa, come si trova, ad esempio, nell’enciclica Humanae vitae (1968) di Papa Paolo VI, nell’enciclica Evangelium vitae (1995) di Papa Giovanni Paolo II e nelle istruzioni Donum vitae (1987) e Dignitatis personae (2008) della Congregazione per la Dottrina della Fede. La rivoluzione riguarda sia il contenuto che il modo di argomentare.

Di seguito forniremo un’analisi critica della sezione del libro che contiene queste affermazioni. Un’analisi attenta è necessaria perché il dettato del testo è sottile e non si limita semplicemente a dire che la Humanae vitae (come documento di base del magistero sulla contraccezione) o la Donum vitae (come documento di base del magistero sulle tecniche di procreazione medicalmente assistita – la “PMA”) hanno sbagliato. Gli autori, infatti, nel proporre la possibile liceità morale della contraccezione e della procreazione artificiale, sostengono di non andare contro, ma semplicemente oltre la lettera dei precedenti documenti ecclesiali, portando a compimento le intenzioni più profonde di questi testi magisteriali[2]. Qui si tratta di una novità. In passato, chi non era d’accordo con l’insegnamento dell’Humanae vitae o della Donum vitae si limitava a dire di essere in dissenso e a fornire le proprie ragioni. Il nuovo approccio adottato dal testo della PAV consiste, invece, nell’affermare il contrario dell’insegnamento, sostenendo allo stesso tempo di essere d’accordo.

Il contesto

Il volume Etica teologica della vita raccoglie gli atti di un seminario di tre giorni, organizzato dalla PAV dal 30 ottobre al 1 novembre 2021[3] e dedicato ad alcune grandi questioni della vita e della morte. La PAV considerava l’evento di natura essenzialmente accademica, in quanto intendeva discutere “aspetti anche controversi dell’etica teologica della vita”, adottando un metodo “analogo alle dispute medioevali o alle quaestiones disputatae[4]. La difficoltà è che utilizzando il metodo dialettico, che è di per sé legittimo e che cerca di arrivare alla verità confrontando posizioni contrarie, la PAV rischia di suscitare scandalo, anche se le sue intenzioni sono puramente accademiche. Questo rischio si presenta per tre motivi. In primo luogo, la PAV applica il metodo dialettico a un argomento che diversi papi hanno esplicitamente dichiarato non più aperto al dibattito[5]. In secondo luogo, anche se l’argomento studiato fosse una legittima questione disputata, molti fedeli potrebbero non avere familiarità con tale metodo, considerando falsamente come proposta di nuove dottrine ecclesiali quelle che in realtà non sono che ipotesi teologiche, portate avanti per essere affermate o smentite, nell’ambito delle quaestiones disputatae. In terzo luogo, i primi due aspetti sono aggravati dalla circostanza che la PAV reca nel suo titolo l’aggettivo “pontificia”, e molti potrebbero non essere consapevoli del fatto che essa non gode di alcuna autorità magisteriale, ma è stata fondata prettamente come think tank.

Durante il seminario sono stati formulati dodici temi specifici e a ciascuno di essi è stata dedicata una sessione particolare. In ogni sessione è stato presentato una parte di un testo base, precedentemente elaborato da una commissione. Poi si è aperto il dibattito. Negli atti pubblicati, ci sono uno o due contributi che discutono il testo base e, occasionalmente, una corrispondente replica agli interlocutori. Le affermazioni sulla possibile legittimità morale della contraccezione e della procreazione artificiale omologa sono contenute nelle sezioni del testo base discusse nel capitolo VII, “Le grandi domande antropologiche, etiche e teologiche: nascere, amare e generare”[6]. Il documento si estende per una ventina di pagine e procede per paragrafi numerati (nn. 147-173). Si suddivide in due parti. La prima si intitola “Nascere e gioia della vita ricevuta” (nn. 147-160). La seconda parte è intitolata “Amare e generare: la gioia della vita donata” (nn. 161-173).

Soprattutto nella prima parte, il testo contiene una serie di idee profonde e, ad eccezione degli ultimi due paragrafi, anche la seconda parte offre molte riflessioni valide. In tutto il testo si trovano considerazioni la cui logica è fortemente contraria alla contraccezione e alla procreazione assistita. Queste si condensano nel paragrafo 171, che insiste sul “nesso costitutivo tra sessualità, amore sponsale e generazione” e sul carattere di dono del figlio come persona che non è a disposizione dei genitori[7]. Si scopre che queste premurose affermazioni servono solo alla loro negazione nei due paragrafi finali. Il fatto è che nulla di quanto precede ha preparato il lettore a ciò che viene dopo: il paragrafo 172 propone come moralmente legittima la pratica della contraccezione; il paragrafo 173 giudica moralmente legittima la pratica della procreazione assistita omologa.

Andare oltre l’osservanza letterale della legge

Vediamo ora in dettaglio gli argomenti proposti, a partire dal paragrafo 172 e dalla questione della contraccezione. Il testo inizia affermando “l’istanza irrinunciabile inscritta nelle formule espresse da HV 10-14” [8], che sono le sezioni dell’enciclica di Paolo VI che contengono e spiegano la norma contro la contraccezione. Ora, secondo gli autori, una “norma rimanda sempre a un bene che la precede e la eccede”[9], un punto che può essere facilmente ammesso. Le cose diventano più problematiche quando il documento afferma che la verità della norma “è irriducibile all’enunciato letterale […]. Essa rimanda oltre l’osservanza letterale di una legge e di una legge che sarebbe puramente fisica, sollecitando gli sposi a coniugare il mistero della generazione con la risposta a tale dono[10].

È vero che a volte si può e si deve distinguere tra la lettera della legge e le intenzioni del legislatore. Vi sono situazioni in cui si può legittimamente agire secondo la mente del legislatore, pur agendo contro la lettera della legge stessa, come quando un automobilista compie una svolta vietata per evitare di scontrarsi con un veicolo in arrivo, salvaguardando così il bene della vita che il legislatore intendeva proteggere. Questa logica ha perfettamente senso quando si tratta di regole del traffico e forse di molti altri casi della legge umana. Tuttavia, è ben diverso applicarla alla legge morale, e in particolare ai precetti negativi della legge morale, come vedremo in seguito.

La trama diventa sempre più densa man mano che l’argomentazione procede: “La responsabilità nella generazione richiede un discernimento pratico che non può coincidere con l’applicazione automatica e l’osservanza materiale di una norma, come è evidente nella pratica stessa dei metodi naturali”[11]. Questa frase riporta due riferimenti: uno all’Amoris laetitia n. 304 e uno al Discorso alle ostetriche di Papa Pio XII. Il testo dell’Amoris laetitia di Papa Francesco citato nelle note a piè di pagina recita come segue: “È vero che le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere né trascurare, ma nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari. Nello stesso tempo occorre dire che, proprio per questa ragione, ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma” (AL 304). Nella nota dedicata a Pio XII si ricorda che secondo lui “il ricorso ai metodi agenesiaci (naturali) non può né deve significare che gli sposi decidano di avere rapporti sessuali solo nei periodi di sterilità, perché questo provocherebbe un ‘difetto essenziale del consenso matrimoniale’”[12].

Qui il testo pone due premesse, con una conclusione che verrà tratta nelle frasi successive. La prima premessa è: “Le norme richiedono discernimento per la loro applicazione”. La seconda premessa è: “Anche la norma che permette l’uso dei metodi ‘naturali’ esige un discernimento” – non può essere semplicemente osservata “materialmente”, ma piuttosto ogni coppia deve giudicare, distinguere, discernere se nel loro caso qui e ora la norma sia applicabile e il ricorso ai metodi “naturali” sia moralmente lecito o meno. Da queste due premesse scaturisce la conclusione che gli autori trarranno a breve: se tutte le norme necessitano di discernimento per la loro applicazione, e se anche l’uso dei metodi “naturali” può a volte essere risultare moralmente problematico, perché allora l’uso dei metodi “artificiali” non potrebbe a volte risultare moralmente accettabile dopo un discernimento?

Ovviamente il problema è che gli autori non distinguono tra precetti positivi e negativi, una distinzione che il Papa non fa esplicitamente in Amoris laetitia, ma che è chiaramente implicita nella sua insistenza sulle origini tomiste del suo insegnamento proprio nel passo citato dagli autori della PAV: “Prego caldamente che ricordiamo sempre ciò che insegna san Tommaso d’Aquino e che impariamo ad assimilarlo nel discernimento pastorale” (AL 304). Papa Francesco procede citando un famoso testo della Summa theologiae, I-II, 94, 4: “In campo pratico non è uguale per tutti la verità o norma pratica rispetto al particolare, ma soltanto rispetto a ciò che è generale; e anche presso quelli che accettano nei casi particolari una stessa norma pratica, questa non è ugualmente conosciuta da tutti. […] E tanto più aumenta l’indeterminazione quanto più si scende nel particolare” (“quanto magis ad propria descenditur, tanto magis invenitur defectus”).

Come è possibile per san Tommaso che con un precetto morale, si possa trovare un “difetto” quando “si scende nel particolare”? L’esempio che fornisce nelle righe successive al passo citato da Papa Francesco è molto esplicativo. L’Aquinate parla di un precetto positivo: “deposita sint reddenda” – “le cose depositate si devono restituire” (Sth I-II, 94, 4). Nel concreto, però, possono verificarsi circostanze che rendono irragionevole, se non immorale, l’osservanza di questo precetto, come nel caso in cui la cosa depositata fosse un’arma e il depositante, nel frattempo, sia diventato un traditore che intende combattere contro il proprio Paese (Sth I-II, 94, 4). È importante notare che si tratta di un precetto positivo, su cosa fare per proteggere, custodire e coltivare un certo bene. Dato il gran numero di circostanze possibili, si dovrà sempre discernere, nella pratica concreta, se compiere qui e ora ciò che il precetto indica promuova davvero il bene che il precetto intende promuovere. I precetti positivi sono validi ut in pluribus – per la maggioranza dei casi.

Quando si tratta di precetti negativi, invece, il discorso di Tommaso è diverso. Se da un lato ammette la possibilità che un precetto positivo come “le cose depositate si devono restituire” possa fallire nel concreto, dall’altro afferma chiaramente, per esempio, che non si deve mai commettere adulterio in nessuna circostanza, nemmeno per salvare il proprio Paese dalla tirannia (De Malo, 15, 1, ad 5). I precetti negativi non ci dicono cosa fare, ma cosa non fare. Come i precetti positivi, sono al servizio del bene, ma il loro servizio è di tipo diverso. Non ci dicono cosa fare per promuovere il bene, ma cosa non fare per non danneggiarlo. Se un modo di promuovere un bene sia veramente adeguato dipende anche sempre dalle circostanze. “Non commettere adulterio”, per esempio, è l’espressione della verità pratica che, intrattenendo rapporti sessuali con una persona sposata con un’altra, si danneggia il bene dell’unione coniugale di quella persona, e con essa il bene della famiglia e, in ultima analisi, della società. E questo, secondo la tradizione perenne, è incontrovertibile. Non è necessario alcun discernimento sulla scelta o meno di questo atto. Come già diceva Aristotele, quando si tratta di commettere adulterio, ogni persona è la persona sbagliata, ogni momento è il momento sbagliato, ogni modo è il modo sbagliato[13].

Anche sant’Ignazio di Loyola, il grande maestro del discernimento, da parte sua, sottolinea che solo ciò che è indifferente o buono in sé può essere oggetto legittimo di una possibile scelta, escludendo così, come oggetto di possibile deliberazione, gli atti che sono immorali in sé[14]. Se la scelta contraccettiva rientra in quest’ultima categoria, come afferma esplicitamente l’Humanae vitae (HV 14), allora questa scelta non è oggetto di discernimento, almeno non per Papa Francesco, che ci esorta esplicitamente a recuperare la posizione tomista e che, in quanto gesuita, tiene certamente presente anche l’insegnamento di sant’Ignazio, soprattutto quando si tratta di un tema così centrale per il pensiero di questo santo.

Il problema del metodo

Il documento della PAV prosegue affermando che “ci sono infatti condizioni e circostanze pratiche che renderebbero irresponsabile la scelta di generare, come lo stesso magistero ecclesiastico riconosce, appunto ammettendo i ‘metodi naturali’”[15]. Che il magistero ammetta la necessità della responsabilità procreativa è certamente vero. Tuttavia, si deve notare l’enfasi del testo, qui e in tutto il documento, sulla questione del metodo utilizzato: “naturale” contro “artificiale”. Nell’Humanae vitae, tuttavia, questa questione è del tutto marginale. L’argomentazione dell’enciclica gira piuttosto intorno all’oggetto della scelta dei coniugi: “astenersi periodicamente” contro “privare deliberatamente l’atto coniugale della sua fecondità”, una questione sulla quale il testo della PAV rimane in assoluto silenzio. Infatti, nella versione latina ufficiale dell’Humanae vitae il termine “methodus” non compare. Senza contare i titoli editoriali, che non compaiono in latino, nella traduzione italiana “metodo” ricorre quattro volte. In ogni occasione serve a rendere la parola latina “via” (HV 7, 17, 23). In tutte e quattro le occorrenze della parola “metodo” nella traduzione italiana, l’Humanae vitae parla di contraccezione o almeno la implica.

Benché, se ben compresa, l’idea alla base dei “metodi naturali” sia perfettamente legittima, è un dato di fatto che l’espressione “metodo naturale” non compare nell’Humanae vitae. Pertanto, il suo tema principale non può essere la contrapposizione tra metodi naturali e artificiali. Ci sono molti modi per andare oltre la lettera di una legge, modi sui quali si può essere d’accordo o meno. Tuttavia, il prerequisito minimo sembra essere quello di partire dalla lettera, cosa che gli autori del documento PAV non hanno fatto.

La mentalità contraccettiva

Passiamo ora alla frase in cui gli autori descrivono la scelta contraccettiva come moralmente legittima. Ciò che dicono non è affatto ambiguo, ma allo stesso tempo è formulato in un modo un po’ tortuoso che non fa da titolo accattivante per i giornali. Dopo aver sottolineato nella frase precedente che il magistero ecclesiale considera i “metodi naturali” moralmente legittimi, ora continuano:

“Perciò, come accade in questi metodi, che già si servono di tecniche specifiche e di conoscenze scientifiche, ci sono situazioni in cui due sposi, che hanno deciso o decideranno di accogliere figli, possono operare un saggio discernimento nel caso concreto, che senza contraddire la loro apertura alla vita, in quel momento non la prevede [=la loro apertura alla vita]”[16].

Se qualcuno avesse ancora qualche dubbio sul significato di queste parole, gli autori vengono in aiuto al lettore nella frase successiva, che chiarisce finalmente tutto: “La scelta saggia verrà attuata valutando opportunamente tutte le tecniche possibili in riferimento alla loro specifica situazione ed escludendo ovviamente quelle abortive”[17]. Per assumersi la responsabilità del dono e del compito di generare, i coniugi, a patto che siano saggi, possono legittimamente discernere “tutte le tecniche possibili”, il che – dato il significato di “tutte” – include logicamente i “metodi artificiali”, a condizione che escludano quelli abortivi.

Si capisce bene che agli autori sembra implausibile una valutazione morale negativa dei “metodi artificiali” semplicemente a causa della loro artificialità. Però, per loro, il solo luogo alternativo dove cercare la bontà o la cattiveria morale dovrebbe essere nell’atteggiamento di fondo. Suggeriscono quindi di considerare la mentalità dei coniugi, superando così “l’alternativa tra metodi ‘naturali’ e ‘artificiali’”[18]. Infatti, secondo loro, gli sposi possono fare un “un saggio discernimento […] senza contraddire la loro apertura alla vita[19]. Ciò che viene presentato qui come criterio per la “scelta di metodo” moralmente legittima è la presenza o meno dell’apertura alla vita dalla parte della coppia, il che non è un atto, ma un atteggiamento. Il documento prosegue su questa linea, diventando ancora più esplicito quando afferma che: “Queste scelte sono ben lungi dalla ‘mentalità contraccettiva’ e antinatalista giustamente criticata da HV e da FC”[20]. La preoccupazione principale degli autori è la questione della mentalità. Se c’è un male morale nella contraccezione, va ricercato a livello della “mentalità contraccettiva” che, per loro, deve sì essere affrontata, ma che non è necessariamente legata alla scelta contraccettiva. La scelta contraccettiva, quindi, sarà moralmente lecita finché non sarà legata a un atteggiamento contraccettivo.

Ciò che gli autori presentano come il loro contributo originale e la loro intuizione più profonda è l’idea che una coppia possa fare una scelta contraccettiva senza necessariamente avere una mentalità contraccettiva. Sebbene questo punto pare vero, non è nuovo e non giustifica la scelta contraccettiva, almeno non secondo il pensiero di Paolo VI, che ha anticipato l’argomentazione della PAV in HV 3, chiedendosi se non sia possibile ammettere “che la finalità procreativa [corrispondente a un atteggiamento] appartenga all’insieme della vita coniugale, piuttosto che ai suoi singoli atti [corrispondente a una scelta]”. La risposta che dà è “no”: “qualsiasi atto matrimoniale”, cioè ogni singolo atto, “deve rimanere aperto alla trasmissione della vita” (HV 11).

Significativamente, gli autori affermano che la “mentalità contraccettiva” è stata criticata dall’Humanae vitae di Paolo VI e dalla Familiaris consortio di Giovanni Paolo II, il che è solo parzialmente corretto. Nell’Humanae vitae, l’espressione “mentalità contraccettiva” non compare. Per l’Humanae vitae la questione della contraccezione non è principalmente un problema né di metodo né di atteggiamento. Per l’enciclica il problema è a livello della scelta contraccettiva, che viene definita come “ogni azione che, o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione” (HV 14). Più avanti, nello stesso paragrafo, l’Humanae vitae descrive la scelta contraccettiva come la scelta di un atto coniugale che è “reso volutamente infecondo” – o, letteralmente, un atto coniugale che “è stato deliberatamente privato della sua fecondità” (“sua fecunditate ex industria destitutum”). Qui non si dice ancora nulla del perché l’enciclica consideri questa scelta moralmente illecita. Su questo punto troviamo considerazioni in HV 12 e in HV 18, per esempio. Ma la formulazione della norma è qui, in HV 14, e la norma dichiara moralmente illecita la scelta di un tipo di atto concreto e ben definibile, non un modo generale di agire (“artificialmente”), né un atteggiamento (la mentalità “contraccettiva” o “antinatalista”).

Nominalismo

Perché gli autori del documento della PAV hanno scelto di ignorare ciò che dice l’Humanae vitae? Probabilmente un confronto con le affermazioni effettive dell’enciclica avrebbe rivelato un disaccordo molto più profondo, non più su una questione concreta di morale sessuale, ma su un problema che appartiene alla teologia morale fondamentale: la questione se esistano tipi di atti, cioè se gli atti umani, oggetti delle nostre scelte razionali deliberate, abbiano una natura o una specie e fino a che punto si possa giudicare moralmente un atto solo sulla base di questa specie. La posizione che nega che gli atti abbiano una natura o una specie è chiamata nominalismo. Sebbene gli autori del documento della PAV non affermino esplicitamente di essere nominalisti, ciò che scrivono diventa molto più comprensibile se letto in questa prospettiva.

Per san Tommaso, invece, gli atti hanno delle specie. In modo molto importante, egli distingue tra la specie morale di un atto e la specie naturale di un atto[21]. Parlare di “rapporto sessuale”, per esempio, significa riferirsi alla specie naturale dell’atto. È muoversi a un livello di astrazione che non esprime ancora nulla sulla bontà o cattiveria morale dell’atto. La specie morale – che va anche sotto il nome di “oggetto morale” dell’atto – si riferisce al modo in cui la ragione presenta l’atto alla volontà e quindi include le circostanze rilevanti per la ragione: “avere rapporti sessuali con una persona non sposata senza essere sposati”, “avere rapporti sessuali con una persona già sposata”, “avere rapporti con il proprio coniuge”: questi atti, nella tradizione morale, sono stati chiamati rispettivamente con i nomi di “fornicazione”, “adulterio” e “rapporti coniugali”. Sebbene appartengano alla stessa specie naturale, per la tradizione la loro valutazione morale è molto diversa: i primi due sono gravemente peccaminosi, il terzo è moralmente buono e lodevole.

Il testo della PAV non effettua questa semplice ed evidente distinzione e critica la tradizione della Chiesa in modo piuttosto sorprendente: il comandamento “non commettere adulterio”, si scrive, esprime “ben più del ‘non commettere atti impuri’, come se il sesso fosse impuro”[22]. Il fatto è che il “sesso” non è né puro né impuro e che nessuno sceglie mai di “fare sesso”. Ciò che si sceglie sono o i rapporti coniugali, che sono buoni e nobili, o gli atti sessuali al di fuori di questo contesto, che, per la tradizione della Chiesa, ricevono una valutazione morale negativa, e sì, anche il predicato “impuro” – ma “impuro” non perché sono atti sessuali, ma perché sono atti sessuali senza una promessa o in violazione di una promessa.

L’idea che gli atti non abbiano specie è, per molti versi, il presupposto necessario affinché il testo della PAV diventi intelligibile nelle sue affermazioni e nei suoi procedimenti. Secondo tale impostazione, l’idea che “la moralità dell’atto umano dipende anzitutto e fondamentalmente dall’oggetto ragionevolmente scelto dalla volontà deliberata” (VS 78, corsivo nell’originale), come dice l’enciclica Veritatis splendor di Giovanni Paolo II, sarà priva di senso. Se non ci sono tipi specifici di comportamento, allora sarà impossibile dire con il Catechismo della Chiesa Cattolica, citato da Veritatis splendor, che “vi sono comportamenti concreti che è sempre sbagliato scegliere, perché la loro scelta comporta un disordine della volontà, cioè un male morale” (CCC 1761; VS 78). Se gli atti, non avendo natura o specie, non possono essere immorali in sé, allora la valutazione morale del nostro comportamento deve concentrarsi esclusivamente sugli atteggiamenti con cui agiamo. Abbiamo una “mentalità contraccettiva”? Agiamo in modo egoistico o altruistico? Agendo, intendiamo rendere il mondo un posto migliore? Ottenere chiarezza sulle proprie motivazioni, e forse a volte anche sfidarle, sarà allora il compito principale della coscienza e l’oggetto principale del discernimento morale.

Si può capire come, in base a questa comprensione, l’essere umano, nella sua coscienza, “è solo con Dio” (GS 16), per citare la Gaudium et spes del Vaticano II. Nello stesso passo, però, la Costituzione pastorale dice anche che “nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire”. In un’ottica nominalista, invece, questa affermazione diventa piuttosto difficile da capire. Se ciò che bisogna giudicare non è se si stia facendo qualcosa di buono o di cattivo, ma solo se si stia agendo con l’atteggiamento giusto, allora, in ultima analisi, nella propria coscienza, l’uomo non trova una legge che “non è lui a darsi”, ma trova solo se stesso.

Il nominalismo è ovviamente del tutto controintuitivo. Per essere coerente, si dovrebbe abolire l’intero sistema giudiziario della società. I tribunali possono ragionevolmente giudicare la natura degli atti, ma dovranno modestamente astenersi dal giudicare le motivazioni delle persone, un compito che deve essere lasciato a Dio solo. Se gli atti non hanno natura (come, ad esempio, l’omicidio o la falsa testimonianza), i tribunali non hanno nulla su cui esprimere un giudizio. Ma ancora di più: tutta la nostra vita è strutturata sul presupposto che i nostri atti abbiano un significato in sé, a prescindere dai nostri atteggiamenti. Se i nostri atteggiamenti non fossero mediati dalle nostre scelte, non potremmo mai sapere chi sono i nostri amici e chi i nostri nemici. Giuda è diventato nemico di Gesù tradendolo. Anche nell’ipotesi che Giuda abbia effettivamente fatto ciò che ha fatto per spingere Gesù a salire finalmente sul trono di Israele – cioè, in ultima analisi, agendo per il “bene” di Gesù – il suo atto dovrebbe comunque essere definito un atto di tradimento, almeno per un approccio che ammette che gli atti abbiano delle specie.

Supponendo quindi che gli atti abbiano delle specie o delle nature, dov’è il male specifico nel tipo di atto descritto dalla Humanae vitae come la scelta di privare deliberatamente gli atti coniugali della loro fecondità intrinseca? C’è, per esempio, la considerazione offerta da Paolo VI nell’Humanae vitae 12 sulla “connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo”. Il documento della PAV dimostra di essere consapevole di questo passaggio al n. 163, senza approfondirlo. È importante sottolineare che Paolo VI non intende qui formulare una norma, ma dare la ragione della norma. Al tempo non vedeva la necessità di argomentarla ulteriormente, ma riteneva, forse un po’ ottimisticamente, “che gli uomini del nostro tempo sono particolarmente in grado di afferrare quanto questa dottrina sia consentanea alla ragione umana” (HV 12).

Il fatto è che per tante persone oggi la razionalità del principio non è immediatamente evidente. Come comprenderlo? L’affermazione fondamentale sembra essere che un atto coniugale, una volta che non ha più “significato procreativo”, cesserà anche di avere “significato unitivo”. L’illustre filosofa inglese Elizabeth Anscombe interpreta l’espressione di Paolo VI “significato procreativo” come riferita al tipo di atto: un atto ha “significato procreativo” se è di tipo generativo[23]. Non è necessario che sia effettivamente generativo per essere di tipo generativo, così come non è necessario che un cane abbai per essere un animale di tipo abbaiante. Affinché l’atto sessuale sia di tipo generativo, e quindi abbia un significato procreativo, è sufficiente che avvenga tra un uomo e una donna che si avvalgano degli organi appropriati e non abbiano deliberatamente privato questo atto della sua fecondità. Possono anche sapere che, a causa del periodo infertile della donna, l’atto qui e ora non porterà alla generazione di una nuova vita. Stanno comunque compiendo un tipo di atto che, in quanto tale, è idoneo alla procreazione. È proprio per questo che si sono astenuti, ad esempio, la settimana precedente.

I “metodi naturali” di regolazione della fertilità sono interamente di tipo diagnostico[24]. Nessuna donna ha mai evitato una gravidanza misurando la propria temperatura o controllando la consistenza del proprio muco vaginale. Ciò che evita il concepimento è l’atto di astinenza periodica che, oltre ad essere un semplice atto di rinuncia, è anche un atto “coniugale” in quanto i due devono compierlo insieme. Il “metodo naturale” è l’astinenza periodica che, al di là delle tecniche diagnostiche, dipende interamente dalla padronanza virtuosa di sé e dal dialogo continuo. Gli sposi si astengono, proprio perché si considerano la fonte potenziale di una nuova vita umana, una potenzialità che, per ragioni di responsabilità procreativa, non vogliono attualizzare qui e ora, pur non volendo rinunciare del tutto alla relazione coniugale. Quando si uniscono nel periodo infertile della donna, si incontrano ancora come padre e madre potenziali dei loro figli comuni. È proprio per questo che prima si erano astenuti. Stanno ancora compiendo un atto di tipo generativo: un atto che a volte porta al concepimento di un figlio e a volte no.

Anche se sanno con certezza, grazie ai metodi diagnostici, che ora non concepiranno un figlio, il semplice fatto di compiere un atto di questo tipo è profondamente significativo e altamente unificante. Quale unità più grande possono raggiungere due persone su questa terra se non quella di diventare padre e madre dei loro figli comuni? Qui, nei loro figli, diventano letteralmente “una sola carne”. La relazione: padre-e-madre-degli-stessi-figli è veramente indissolubile, ed è anche qui che si trova una delle ragioni più profonde dell’indissolubilità del matrimonio. In ogni atto coniugale che mantenga il suo significato procreativo, anche se ormai si sa che è infertile, un uomo e una donna si incontrano come padre e madre potenziali dei loro figli comuni, cioè si incontrano proprio come marito e moglie; compiono un atto di amore coniugale che ha un significato profondamente unitivo.

Le cose sono diverse quando si tratta della scelta contraccettiva. Quando marito e moglie privano deliberatamente il loro atto sessuale della sua fecondità, non possono pretendere di compiere un atto che abbia un significato procreativo. Ora, la scelta contraccettiva è la scelta di un sesso sterile, anche se, dal punto di vista biologico, a causa del fallimento della contraccezione, potrebbe portare al concepimento di un nuovo essere umano. Privando deliberatamente il loro atto sessuale della sua potenziale fecondità, i partner scelgono il loro atto sessuale come un atto intrinsecamente incapace di generare nuova vita umana. Quindi, a livello intenzionale, cioè a livello di ciò che viene effettivamente scelto, si può dire con Elizabeth Anscombe che la differenza tra la scelta contraccettiva e la scelta di atti omosessuali è solo estetica e di gusto: in entrambi i casi, gli oggetti della propria scelta sono atti sessuali sterili[25].

Ma anche ammettendo quanto sopra, ci si può chiedere: “Dov’è il problema della scelta del sesso sterile?”. La prima cosa da dire è che la scelta del sesso sterile banalizza la nostra sessualità. Tale scelta priva la nostra sessualità di qualsiasi tipo di trascendenza, di qualsiasi tipo di missione, e lo fa in ogni singolo atto, non solo a livello di atteggiamento generale. Unendosi nel sesso sterile, i due rimangono soli l’uno con l’altra, vivendo per il momento. Il fatto che questi due siano di sesso opposto o dello stesso sesso è fortuito, così come lo è, per inciso, il fatto che siano in due. In questo modo, si perde il senso di ciò che è proprio dell’amore tra uomo e donna, insieme al significato più profondo della differenza sessuale. Già nel 1984 Augusto del Noce suggeriva che l’amore omosessuale è diventato il paradigma di come le nostre società pensano l’amore[26]. Possiamo anche dirlo con le parole di Benedetto XVI: “La separazione in termini di principio tra sessualità e fecondità […] significa, infatti, che in questo modo tutte le forme di sessualità sono equiparate”[27]. La scelta del sesso sterile è la scelta di qualcosa di banale, e anche se fosse limitata a una coppia sposata e di sesso opposto, per la sua logica interna non potrebbe dar ragione di questa limitazione e di fatto equipara “tutte le forme di sessualità”.

Mentre il documento della PAV utilizza Familiaris consortio per evidenziare il problema della “mentalità contraccettiva”, gli autori non menzionano, e tanto meno approfondiscono, un punto molto più centrale che Giovanni Paolo II solleva nella sua esortazione apostolica. Egli sostiene infatti che la differenza tra l’uso della contraccezione e il ricorso all’astinenza periodica riguarda “due concezioni della persona e della sessualità umana tra loro irriducibili” (FC 32). Quali sono questi due concetti inconciliabili? Dove troviamo l’idea di questa differenza fondamentale nell’Humanae vitae? Qui è utile guardare, per esempio, a HV 16 e HV 18. Nel primo paragrafo, Paolo VI sottolinea che la pratica della contraccezione e quella dell’astinenza periodica “differiscono completamente tra di loro” (HV 16), anche se “è vero che, nell’uno e nell’altro caso, i coniugi concordano con mutuo e certo consenso di evitare la prole per ragioni plausibili, cercando la sicurezza che essa non verrà” (HV 16). Se l’intenzione di evitare il concepimento è la stessa in entrambi i casi, c’è però una differenza molto rilevante, e cioè che solo nel caso dell’astinenza periodica marito e moglie “sanno rinunciare all’uso del matrimonio nei periodi fecondi quando, per giusti motivi, la procreazione non è desiderabile” (HV 16). Con queste parole Paolo VI interpreta di fatto la scelta contraccettiva non semplicemente come una scelta a favore dell’uso di “metodi artificiali”, ma come una scelta contro l’astinenza periodica, e con ciò, si può aggiungere, una scelta contro il virtuoso dominio di sé[28].

Questa interpretazione diventa ancora più chiara nell’Humanae vitae n. 18, dove Paolo VI sostiene che insegnando l’immoralità della scelta contraccettiva, la Chiesa “difende […] la dignità dei coniugi” (HV 18). In che modo, secondo lui, la scelta contraccettiva viola la dignità degli sposi? Il Papa intende la scelta contraccettiva come un modo di “abdicare alla propria responsabilità per rimettersi ai mezzi tecnici” (HV 18). Quindi, a suo giudizio, il ricorso alla contraccezione implica il rifiutare di assumersi la responsabilità di se stessi nel modo che è proprio delle persone, delegandola alla tecnologia. Le sue parole sono indubbiamente molto sintetiche, e se si legge l’Humanae vitae con il preconcetto secondo il quale per il documento la contrapposizione rilevante è tra “naturale” e “artificiale”, allora si può facilmente trascurare questo punto, che ci porta al cuore del concetto della persona e della sessualità dell’enciclica.

Nelle sue catechesi del mercoledì sull’amore umano nel piano divino, Giovanni Paolo II approfondisce questo tema. Nella sezione dedicata all’interpretazione dell’Humanae vitae, si interroga sull’essenza stessa “della dottrina della Chiesa circa la trasmissione della vita nella comunità coniugale”[29]. Da questo modo di formulare la domanda si può intuire che seguirà qualcosa di importante. Nella sua risposta riprende la nozione dell’enciclica circa la differenza tra l’assunzione di responsabilità personale da un lato e il “rimettersi ai mezzi tecnici” (HV 18) dall’altro. Giovanni Paolo II scrive che “Il problema sta nel mantenere l’adeguato rapporto tra ciò che viene definito ‘dominio […] delle forze della natura’ e la ‘padronanza di sé’ indispensabile alla persona umana. L’uomo contemporaneo manifesta la tendenza a trasferire i metodi propri del primo ambito a quelli del secondo”[30]. Per il Pontefice polacco, estendere agli esseri umani i mezzi propriamente impiegati per il “‘dominio … delle forze della natura’, minaccia la persona umana, per la quale il metodo della ‘padronanza di sé’ è e rimane specifico”[31]. Se, quando si tratta di assumersi la responsabilità procreativa, non ci si assume la responsabilità personale, cioè non si ricorre alla virtuosa “padronanza di sé”, ma si ripone tutta la propria fiducia negli espedienti tecnici (cfr. HV 18), allora si “infrange la dimensione costitutiva della persona, [si] priva l’uomo della soggettività che gli è propria e [si] fa di lui un oggetto di manipolazione[32]. Il nocciolo della spiegazione dell’Humanae vitae fornita da Giovanni Paolo II sembra essere che, praticando la contraccezione, i partner – per la struttura stessa del loro atto – si trattano come forze della natura, cioè come oggetti che devono essere manipolati per evitare il peggio e non come soggetti capaci di esercitare l’autocontrollo.

Ecco quindi i due concetti irriducibili della persona umana e della sessualità umana: la scelta contraccettiva è una scelta contro il possesso virtuoso di sé e la padronanza di sé. La concezione di fondo della persona umana è quella di un essere governato da istinti e pulsioni, che si scatenano come un tornado, una forza della natura le cui operazioni non possono essere controllate. Si possono solo adottare misure prudenti, applicare accorgimenti tecnici, in modo da limitarne i possibili danni. Il concetto di sessualità implicito è quello di una forza bruta, incapace di essere integrata nell’ordine della ragione – e con essa nell’ordine della libertà e dell’amore. In quest’ottica, integrare e moderare questa forza, assumendosi la responsabilità personale dei suoi effetti indesiderati astenendosi dal suo esercizio, non deve essere proposto a nessuno, perché tali tentativi sono potenzialmente dannosi. L’idea è che il risultato massimo che si possa ottenere è quello di reprimere il proprio impulso sessuale, che prima o poi eromperà come un vulcano, e l’eruzione sarà tanto più violenta quanto più si sarà negato uno sfogo all’impulso stesso. Questa visione della sessualità umana, implicata in modo pratico in ogni singola scelta contraccettiva, trova la sua formulazione più cruda nelle parole del grande profeta della rivoluzione sessuale, Wilhelm Reich, il quale notoriamente sosteneva che “L’esperienza medica dimostra che la repressione sessuale si risolve in malattia, perversione e lascivia”[33].

La scelta della continenza periodica, al contrario, implica una visione della persona umana come un essere capace di autopossesso. Come dice Giovanni Paolo II, “L’uomo è appunto persona perché è padrone di sé e domina se stesso[34]. Avendo il dominio su se stessi, possedendo se stessi, gli esseri umani possono allora anche donarsi, con una libertà interiore che è necessaria perché ci sia un vero dono di sé. Sono capaci di modificare il loro comportamento (sessuale) se l’amore, informato dalla ragione, e la ragione, informata dall’amore, lo richiedono. Sono capaci di una vera responsabilità per ciò che fanno. Si assumono la responsabilità procreativa modificando il loro comportamento sessuale effettivo, e non solo adottando misure prudenti per evitare le conseguenze negative di un comportamento non effettivamente sotto il loro controllo. La sessualità stessa è vista come una forza aperta a essere informata dalla ragione e integrata nell’ordine dell’amore interpersonale. Gli atti sessuali possono essere veramente atti d’amore. Ma per esserlo, devono essere liberi, cioè non devono essere il risultato di una costrizione interiore. Si dovrebbe anche essere in grado di astenersi se l’amore lo richiedesse.

Che la sessualità non sia una forza bruta, ma possa essere integrata nell’ordine dell’amore e della ragione, che gli sposi siano davvero in grado di fare un dono di sé e di accogliersi reciprocamente con la libertà stessa di questo dono: questa è una buona notizia. Che la nostra sessualità comprenda, secondo le parole stesse del documento della PAV, una Gabe e una Aufgabe, un dono e una missione[35]: anche questa è una buona notizia. Che ci sia un contesto appropriato in cui ricevere questo dono e vivere questa missione, cioè l’istituzione che l’amore coniugale si dà, che va sotto il nome di matrimonio: questa pure è una buona notizia. La soluzione ai problemi attuali della Chiesa – dalla crisi degli abusi al calo del numero dei matrimoni e dei battesimi, dalla quasi assenza di conversioni di adulti al numero crescente di persone che voltano le spalle al Corpo mistico di Cristo – non sta nel rinunciare alla buona notizia di cui essa è portatrice, ma nel cominciare finalmente a proclamarla con fiducia, soprattutto e proprio nel campo della sessualità umana. Come disse Elizabeth Anscombe: “Che cosa si può fare? Se volete porre rimedio alla situazione dovrete predicare la castità, l’intera dottrina della Chiesa: tutta quanta. Perché tutto è collegato”[36]. Sì, tutto è connesso. Le considerazioni precedenti si spera abbiano mostrato che la questione della contraccezione non è solo una domanda secondaria all’interno di un campo delimitato della teologia morale speciale. Piuttosto, con essa sono collegati tutti gli altri insegnamenti ecclesiali sulla sessualità, sul matrimonio e sulla famiglia: dalla valutazione morale degli atti tra persone dello stesso sesso alla questione delle relazioni prematrimoniali ed extraconiugali, dal significato del matrimonio alla possibilità del celibato per il Regno dei Cieli.

Procreazione artificiale omologa

Rimane da discutere, in maniera molto più breve, l’ultimo paragrafo del testo base della PAV, in cui gli autori propongono come moralmente legittima la procreazione artificiale omologa, cioè le tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA), di qualsiasi tipo, purché per produrre l’embrione umano utilizzino i gameti di entrambi i coniugi ed evitino la creazione dei cosiddetti embrioni “sovrannumerari”. Il testo sostiene invece che la procreazione assistita eterologa – che, per produrre l’embrione, si avvale di almeno un gamete di un donatore esterno alla coppia – sia illegittima. Analizziamo ora questa sezione in modo più dettagliato.

È nel paragrafo 173 che gli autori esprimono la loro approvazione della PMA omologa. Lo fanno in modo piuttosto sottile, esponendo il loro caso nelle due frasi seguenti, dopo le quali procederanno immediatamente a criticare la PMA eterologa. È tutto qui, per nulla ambiguo, anche se sarà necessario qualche chiarimento. Leggiamo:

“Così nella procreazione assistita omologa nelle sue varie forme, ovviamente evitando di ottenere ‘embrioni sovrannumerari’, la generazione non viene artificiosamente separata dal rapporto sessuale, perché questo è ‘di per sé’ infecondo. Al contrario, la tecnica agisce come una forma di terapia che permette di rimediare alla sterilità non sostituendosi al rapporto, ma permettendo la generazione”[37].

Come il lettore avrà osservato, qui gli autori non dicono “consideriamo l’uso della PMA omologa moralmente legittimo”. Si limitano ad affermare in modo piuttosto audace che la PMA omologa non separerebbe artificialmente la sessualità e la procreazione e che queste procedure non si sostituiscano all’atto coniugale. Gli autori sottolineano anche, in modo accurato, che la creazione di embrioni “sovrannumerari” può essere evitata in linea di massima, anche se tacciono sull’ulteriore peso che questo comporta per la salute della donna, a causa del quale l’effettivo adempimento del requisito diventa praticamente irrealistico, almeno nel momento in cui effettivamente si decida di imboccare questa strada.

Un dialogo implicito con la Donum vitae

Per come presenta il suo argomento, il documento della PAV entra in un dialogo implicito con l’istruzione Donum vitae della Congregazione per la Dottrina della Fede. Gli autori elencano almeno alcune delle principali ragioni per cui l’istruzione giudica le tecniche della PMA, comprese quelle omologhe, moralmente illecite. Il testo della PAV sostiene che queste ragioni non si applicano di fatto alla PMA omologa. La conclusione non dichiarata, anche se logicamente necessaria, è che per gli autori la PMA omologa può essere moralmente approvata. Sebbene la Donum vitae non venga citata, il suo linguaggio viene usato, e ancora di più: le sue affermazioni sono lo sfondo necessario perché sia possibile un qualsiasi tipo di argomento. Dopo tutto, l’espressione “non separare artificiosamente la generazione dal rapporto sessuale” non è sinonimo di “essere moralmente legittimo”. Il discorso sarebbe del tutto irrilevante se non si leggesse l’argomentazione nel contesto di un dialogo implicito con l’istruzione della Congregazione.

La Donum vitae parte dal principio che “la rilevanza morale del legame esistente tra i significati dell’atto coniugale e tra i beni del matrimonio, l’unità dell’essere umano e la dignità della sua origine esigono che la procreazione di una persona umana debba essere perseguita come il frutto dell’atto coniugale specifico dell’amore fra gli sposi” (DV II, B, 4, c). Sulla base di questo principio, l’istruzione esprime un giudizio morale negativo sulla fecondazione omologa in vitro e sul successivo trasferimento embrionale: “in conformità con la dottrina tradizionale relativa ai beni del matrimonio e alla dignità della persona, la Chiesa rimane contraria, dal punto di vista morale, alla fecondazione omologa in vitro” (DV II, B, 5, corsivo originale). Qui la posta in gioco è, tra l’altro, la separazione tra sessualità e procreazione.

Il giudizio dell’istruzione sull’inseminazione artificiale omologa è più sfumato: “L’inseminazione artificiale omologa all’interno del matrimonio non può essere ammessa, salvo il caso in cui il mezzo tecnico risulti non sostitutivo dell’atto coniugale, ma si configuri come una facilitazione e un aiuto affinché esso raggiunga il suo scopo naturale” (II, B, 6, corsivo nell’originale). La Congregazione per la Dottrina della Fede non vuole escludere la possibilità di tecniche che aiutino l’atto coniugale a raggiungere la sua finalità naturale senza effettivamente sostituirlo: finché la tecnologia non sostituisce l’atto coniugale, è moralmente lecito impiegare l’aiuto tecnologico. La preoccupazione della Congregazione è che la fonte della generazione debba essere l’atto coniugale, perché altrimenti il soggetto concepito viene trattato come un mero prodotto e ferito nella sua identità più profonda.

Anche la Donum vitae denuncia la produzione di embrioni “sovrannumerari” (DV, II). Allo stesso tempo, la Congregazione dichiara che intende condurre la sua riflessione etica e infine esprimere il suo giudizio morale sulla PMA, “astraendo, per quanto è possibile, dalla distruzione degli embrioni prodotti in vitro” (DV, II).

Ecco dunque, in sintesi, cosa dice la Donum vitae: salvo i casi, difficilmente immaginabili ma da non escludere a priori, di forme specifiche di inseminazione assistita, anche la PMA omologa separa l’atto coniugale dalla procreazione, sostituisce l’atto coniugale con un mezzo tecnico e viola la dignità del figlio, che esige che egli sia “il frutto dell’atto coniugale specifico dell’amore fra gli sposi” (DV, II, B, 4, c, corsivo originale). Concepire un figlio al di fuori dell’atto coniugale significa strumentalizzare il figlio, trattandolo come un mero prodotto.

E qui, al contrario, leggiamo ancora una volta ciò che dice il testo della PAV: “Nella procreazione assistita omologa nelle sue varie forme […] la generazione non viene artificiosamente separata dal rapporto sessuale […] La tecnica agisce come una forma di terapia che permette di rimediare alla sterilità”[38]. Possiamo osservare che i testi si specchiano l’uno nell’altro, il documento della PAV nega esplicitamente le affermazioni dell’istruzione. Il fatto curioso è che i due documenti si contraddicono non solo su questioni di giudizio morale, ambito in cui siamo abituati a sentire opinioni contrastanti, ma su una questione che dovrebbe essere una descrizione oggettiva dei fatti rilevanti. Come è possibile arrivare a questo stato di cose?

Separare e sostituire: un equivoco

Esaminiamo più precisamente quello che sta facendo il testo della PAV. Apparentemente, il documento assume come propri i criteri presentati dalla Donum vitae, sulla base dei quali l’istruzione formulava il suo giudizio morale (negativo) sulla PMA:

1) La generazione non deve essere separata dall’atto coniugale.

2) L’atto coniugale non deve essere sostituito dall’intervento della tecnica.

3) Non devono essere prodotti embrioni “sovrannumerari”.

Il documento della PAV concede il punto 3) ed equivoca sul significato dei punti 1) e 2) per poter affermare che questi criteri sarebbero effettivamente soddisfatti. Dobbiamo parlare di equivoco in questo caso perché ci sono in realtà due modi in cui si possono separare gli atti sessuali e la generazione, e il testo della PAV li confonde. Si può avere “sesso senza figli” o “figli senza sesso”. Il primo si verifica nella contraccezione, quando una coppia priva deliberatamente i propri atti coniugali della loro intrinseca capacità procreativa. La coppia infertile non fa nulla del genere, poiché la sua infertilità non è una sua scelta. Quindi, in questo senso, il testo della PAV avrebbe ragione nel dire che “la generazione non viene artificiosamente separata dal rapporto sessuale”. Ma avrebbe ragione solo se il tema in discussione fosse quello della legittimità morale dei rapporti sessuali tra coniugi infertili, questione che, tuttavia, non è in discussione qui. La posta in gioco è piuttosto l’altro modo di separare gli atti sessuali dalla generazione: avere “figli senza sesso”. Questo avviene nella PMA. Resta il fatto innegabile che la coppia che ricorre a queste tecnologie sceglie di avere un figlio al di fuori del rapporto sessuale. Questa è la definizione stessa della PMA. In questo caso – ossia nel caso in cui i coniugi infertili producano un figlio al di fuori del rapporto sessuale con mezzi artificiali, che è l’argomento in discussione – non è vero che “la generazione non viene artificiosamente separata dal rapporto sessuale”. Affronteremo ora i testi in modo più dettagliato per sostenere quanto appena detto.

Quando la Donum vitae parla del “legame esistente fra procreazione e atto coniugale” (DV, II, B, 4, c) il suo tema sono le ripercussioni morali di avere “figli senza sesso”. Il testo si riferisce al diritto dei figli di essere concepiti in un atto d’amore, l’abbraccio fisico e affettuoso tra il padre e la madre. Separare la procreazione dall’atto coniugale significa quindi privare il figlio di questo diritto e realizzare il concepimento attraverso un atto tecnico, medico, che non è un atto coniugale. Perché non è un atto coniugale? In realtà, il protagonista, colui che agisce, è il medico. Il marito guarda mentre il medico mette incinta la moglie, usando, si spera, lo sperma del marito, ma, per la natura stessa della procedura, non si può escludere un errore. A prescindere dalle intenzioni o dagli atteggiamenti dei coniugi, se le azioni hanno un significato in sé, allora l’atto di un medico che ingravida la moglie del marito non può essere definito un atto coniugale. Anche se il medico usa lo sperma del marito nell’inseminazione artificiale, l’atto è molto più vicino a un atto di adulterio che a un rapporto coniugale. La procreazione e l’atto coniugale sono chiaramente separati.

Che cosa intendono gli autori della PAV quando scrivono che nella PMA omologa “la generazione non viene artificiosamente separata dal rapporto sessuale” (n. 173)? Date le considerazioni precedenti, tale affermazione deve suonare aporetica. Tuttavia, essi forniscono subito una considerazione capace, se non di convincere il lettore, almeno di fargli venire un capogiro. Con un gioco di destrezza, gli autori forniscono delle considerazioni veramente adatte – adatte, però, per un argomento diverso, cioè quello di fare “sesso senza figli”. Infatti, secondo loro, la generazione e l’atto coniugale non sono artificiosamente separati l’uno dall’altro “perché questo” – il rapporto sessuale – “è ‘di per sé’ infecondo”[39]. Ciò che gli autori affermano è che i coniugi non fanno nulla per rendere infertili i loro atti coniugali. Nel loro caso, data la loro stessa condizione, l’atto sessuale è già separato dalla generazione. Qui, dunque, separare il rapporto sessuale dalla generazione significa privare deliberatamente l’atto coniugale della sua fecondità – che è la definizione che l’Humanae vitae dà della scelta contraccettiva. La domanda non è quella di avere “figli senza sesso”, ma quella di avere “sesso senza figli”. Ciò che consegue dall’argomentazione della PAV è che le coppie infertili possono legittimamente compiere atti coniugali senza separare i due significati dell’atto coniugale, poiché la loro infertilità non è dovuta a una loro scelta. Queste considerazioni, tuttavia, non dicono nulla sulla legittimità di avere “figli senza sesso”.

La questione di avere “figli senza sesso” non si riferisce a ciò che i coniugi fanno o non fanno per rendersi infertili. Riguarda piuttosto la condizione del figlio, cioè le condizioni in cui un figlio viene concepito. La Donum vitae afferma che per rispettare pienamente i propri figli come persone, è necessario concepirli in un atto coniugale, un atto di amore coniugale, e non in un atto di produzione tecnica. Se i figli vengono concepiti al di fuori di un atto coniugale, saranno il prodotto della fabbricazione dei genitori e non il frutto del loro amore, qualunque sia l’origine del fatto che la coppia non sia riuscita a concepire dei figli nell’abbraccio matrimoniale.

Figli del desiderio

Le considerazioni presentate dalla Donum vitae non vengono smentite dall’equivoco della PAV. È degno di nota che gli stessi autori del testo base forniscano alcune riflessioni che valgono a sostenere l’argomento fondamentale dell’istruzione. Nel paragrafo 165 gli autori sottolineano con una certa preoccupazione che “il desiderio del figlio […] si trasforma nel ‘figlio del desiderio’ e nel ‘diritto al figlio’”[40]. Gli autori non citano l’omonimo saggio di Marcel Gauchet, “L’enfant du désir” [“Il figlio del desiderio”] che, almeno in Francia e in Italia, è stato molto letto negli ambienti accademici e che quasi certamente è nella loro mente[41]. I “figli del desiderio” devono il loro essere ai genitori in modo molto radicale. Il desiderio dei genitori diventa il principio stesso del loro essere. E la PAV, nelle ultime parole del suo paragrafo 173, ha certamente ragione nel ritenere che la PMA eterologa sia praticata “in nome di una pretesa assolutezza del desiderio del figlio, che così diviene il figlio del desiderio”[42].

Il fatto è, però, che i “figli del desiderio” risultano non solo dalla PMA eterologa, ma anche da quella omologa. È vero che in quest’ultimo caso la coppia rispetta in qualche modo l’unità del matrimonio (a prescindere dall’intrusione del medico che ingravida la moglie). Ma resta il fatto che i figli generati artificialmente hanno una sola ragione d’essere: il desiderio dei genitori. Sono il prodotto della volontà dei genitori; esistono per il solo motivo che i genitori hanno voluto averli. In questo modo, però, c’è un pesante fardello che grava su di loro. Come dice Marcel Gauchet: “Il figlio desiderato è anche, per definizione, il figlio rifiutato”[43]. I “figli del desiderio” esistono in modo condizionato e lo sanno. Cosa succede se i genitori non li desiderano più? Che cosa succede se non sono all’altezza delle aspettative dei genitori, dato che queste aspettative erano la ragione stessa della loro esistenza?

Gestire le proprie aspettative e i propri desideri nei confronti dei figli è uno degli esercizi più importanti per essere buoni genitori. Fare dei propri desideri il principio dell’esistenza del proprio figlio non è un buon inizio. Un argomento molto convincente contro l’uso di qualsiasi tipo di tecnologia riproduttiva artificiale lo troviamo nel paragrafo 171 del testo della PAV: “Generare è accogliere un figlio che, pur venendo da noi, non ci appartiene”[44]. E in particolare durante la gestazione, si tratta infine di riconoscerlo come “un ospite”[45] – non, cioè, il prodotto dei nostri desideri, non il risultato della nostra volontà. Noi – dicono i genitori – siamo per i nostri figli, non loro per noi.

Il problema della PMA, la ragione dell’illegittimità morale di cercare di avere “figli senza sesso”, ha il suo nocciolo nelle ripercussioni che queste procedure hanno sul rapporto genitori-figli e nel rispetto che si deve al figlio in quanto persona, come qualcuno dotato di dignità. Anche se la PMA omologa non è gravata da tutta “quella negatività etica che si riscontra nella procreazione extraconiugale” (DV II, B, 5), è pur vero che la semplice minore “negatività etica” non rende buona una pratica. L’argomento principale fornito dalla Donum vitae si applica alla procreazione artificiale in tutte le sue varianti, comprese quelle omologhe: “essa affida la vita e l’identità dell’embrione al potere dei medici e dei biologi e instaura un dominio della tecnica sull’origine e sul destino della persona umana. Una siffatta relazione di dominio è in sé contraria alla dignità e all’uguaglianza che dev’essere comune a genitori e figli” (DV II, B, 5).

La sessualità e il desiderio di un amore vero

Ecco allora le nostre considerazioni sulla recente pubblicazione della Pontificia Accademia per la Vita sull’Etica teologica della vita e in particolare sulla sezione dedicata alle “Grandi questioni antropologiche, etiche e teologiche: Nascere, amare e generare”. A parte gli ultimi due paragrafi, in questo capitolo il testo base avrebbe potuto essere un punto di partenza valido per una discussione accademica ecclesiale. In questi due paragrafi, tuttavia, il documento contraddice direttamente l’insegnamento trasmesso dalla Chiesa, senza nemmeno tentare di confrontarsi con questo insegnamento a partire dai suoi stessi termini. Questi due paragrafi sono una potenziale fonte di grave scandalo, nel senso che hanno la capacità di condurre le persone al peccato, proprio in un ambito in cui tutti noi siamo più vulnerabili e in cui è in gioco gran parte della nostra vocazione, missione e identità di esseri umani e di credenti cristiani: la vocazione di essere amati come figli, la missione, come sposi, di diventare genitori, l’identità di sapere da dove veniamo e dove andiamo, di avere un’origine e un destino. Tutto questo è in gioco nella nostra sessualità. L’attività sessuale non è un passatempo con cui giocare, ma merita un contesto speciale: il matrimonio. Merita anche un’attenzione particolare da parte dei pastori delle anime, non per demolire e condurre al peccato, ma per costruire e accompagnare sulla via della virtù, come fece Gesù con la Samaritana: “rivolse una parola al suo desiderio di amore vero, per liberarla da tutto ciò che oscurava la sua vita e guidarla alla gioia piena del Vangelo” (AL 294).

  1. V. Paglia, a cura di, Etica teologica della vita. Scrittura, tradizione, sfide pratiche, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2022.

  2. Per la distinzione tra lo sviluppo autentico della dottrina, che fa emergere più chiaramente il significato profondo delle formulazioni dottrinali precedenti, e la corruzione della dottrina, che contraddice l’insegnamento perenne, si veda G. Müller, “Development or Corruption? Can There Be ‘Paradigm Shifts’ in the Interpretation of the Deposit of Faith?” in The Power of Truth. The Challenges of Catholic Morals and Doctrine Today, Ignatius Press, San Francisco 2019, 23-35. Il testo presenta le intuizioni del santo Cardinal John Henry Newman, che dispiega diversi criteri o “note” che servono a questo scopo. Così, “nella sua quarta nota, Newman parla della necessità di una ‘sequenza logica’ tra le diverse fasi di uno sviluppo. Perché uno sviluppo sia sano, deve procedere in continuità logica con gli insegnamenti del passato” (Müller, Power of Truth, 32).

  3. Cfr. Paglia, Etica, cit., 13.

  4. Paglia, Etica, cit., 7.

  5. Cfr. Pio XII, Discorso alle ostetriche, 29 ottobre 1951 (ASS 43 [1951] 843): “Ogni attentato dei coniugi nel compimento dell’atto coniugale o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, attentato avente per scopo di privarlo della forza ad esso inerente e di impedire la procreazione di una nuova vita, è immorale; e […] nessuna ‘indicazione’ o necessità può mutare un’azione intrinsecamente immorale in un atto morale e lecito. Questa prescrizione è in pieno vigore oggi come ieri, e tale sarà anche domani e sempre, perché non è un semplice precetto di diritto umano, ma l’espressione di una legge naturale e divina”.

    Cfr. anche Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al II Congresso Internazionale di Teologia Morale, 12 novembre 1988 (ASS 81 [1989] 1207): “Nell’esortazione post-sinodale Familiaris Consortio, [… riproponevo,] nel più ampio contesto della vocazione e della missione della famiglia, la prospettiva antropologica e morale della Humanae Vitae nonché la conseguente norma etica che se ne deve trarre per la vita degli sposi. Non si tratta, infatti, di una dottrina inventata dall’uomo: essa è stata inscritta dalla mano creatrice di Dio nella stessa natura della persona umana ed è stata da lui confermata nella rivelazione. Metterla in discussione, pertanto, equivale a rifiutare a Dio stesso l’obbedienza della nostra intelligenza”.

    Se non indicato altrimenti, in seguito tutte le citazioni dei documenti ecclesiali sono tratte dal sito web del Vaticano: www.vatican.va.

  6. Paglia, Etica, cit., 285-306.

  7. Paglia, Etica, cit., 303.

  8. Paglia, Etica, cit., 304.

  9. Paglia, Etica, cit., 304.

  10. Paglia, Etica, cit., 304 (enfasi nell’originale).

  11. Paglia, Etica, cit., 304.

  12. Paglia, Etica, cit., 304n15.

  13. Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, II, 6, 1107a.

  14. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, a cura di P. Schiavone, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, 122, n. 170. “È necessario che ogni cosa di cui vogliamo fare scelta sia indifferente o buona in sé”.

  15. Paglia, Etica, cit., 304-305.

  16. Paglia, Etica, cit., 305.

  17. Paglia, Etica, cit., 305.

  18. Paglia, Etica, cit., 305.

  19. Paglia, Etica, cit., 305 (corsivo aggiunto).

  20. Paglia, Etica, cit., 305 (corsivo aggiunto).

  21. Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae I-II, 1, 3, ad 3 dove san Tommaso fa l’esempio dell’“uccidere un uomo” come indicazione della “specie naturale” di un atto, in contrapposizione a “salvaguardare la giustizia” o “soddisfare la propria ira” come specie morali dell’atto. In Sth I-II, 18, 5, ad 3 applica la distinzione all’atto sessuale, pur senza usare questi termini specifici: secondo lui, “l’atto coniugale e l’adulterio in rapporto alla ragione differiscono nella specie” [= la specie morale], mentre “non differiscono nella specie in rapporto alla potenza generativa” [= la specie naturale].

  22. Paglia, Etica, cit., 300-301: “Una delle ‘dieci parole’ riguarda il rapporto tra uomo e donna nel matrimonio. Questo comandamento, ben più del ‘non commettere atti impuri’, come se il sesso fosse impuro, o del semplice ‘non fornicare’, tutela la qualità etica della reciprocità sponsale”.

  23. Cfr. G.E.M. Anscombe, “Sulla Humanae vitae”, in Id., Una profezia per il nostro tempo: ricordare la sapienza di Humanae vitae”, a cura di S. Kampowski, Cantagalli, Siena 2018, 114.

  24. Gli autori desiderano riconoscere il loro debito per molte delle considerazioni successive a M. Rhonheimer, Etica della procreazione, Lateran University Press, Roma 2000.

  25. Cf. G.E.M. Anscombe, “Contraccezione e castità”, in Id., Una profezia per il nostro tempo, cit., 87: “Se i rapporti sessuali contraccettivi sono permissibili, allora che obiezione potrebbe esservi, in fondo, contro la masturbazione reciproca oppure la copula in vase indebito, la sodomia, il sesso anale, quando la copula normale è impossibile o sconsigliabile (oppure in ogni caso, non secondo i gusti)? Non può essere la semplice struttura di comportamento corporale con cui si procura la stimolazione a fare tutta la differenza! Ma se cose del genere sono accettabili, diventa completamente impossibile trovare qualcosa da ridire nei confronti dei rapporti omosessuali, ad esempio”.

  26. A. del Noce, Lettera a Rodolfo Quadrelli, 8 gennaio 1984, in M. Tringali, Augusto Del Noce interprete del Novecento, Le Chateau, Aosta 1997, 142: “Ma il nichilismo oggi corrente […] intende l’amore sempre omosessualmente, anche quando mantiene il rapporto uomo-donna” (corsivo aggiunto)

  27. Benedetto XVI, La vera Europa. Identità e missione, Cantagalli, Siena 2021, 8.

  28. Per questo e per quanto segue, cfr. Rhonheimer, Etica della procreazione, cit., 79-84.

  29. Giovanni Paolo II, L’amore umano nel piano divino. La redenzione del corpo e la sacramentalità del matrimonio nelle catechesi del mercoledì [1979-1984], a cura di G. Marengo, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009, (catechesi 119 del 22 agosto 1984), 468

  30. Giovanni Paolo II, L’amore umano, cit., 468 (corsivo nell’originale).

  31. Giovanni Paolo II, L’amore umano, cit., 469.

  32. Giovanni Paolo II, L’amore umano, cit., 469 (corsivo nell’originale).

  33. W. Reich, La rivoluzione sessuale, trad. it. V. Di Giuro, Feltrinelli, Milano 2020.

  34. Giovanni Paolo II, L’amore umano, cit., 470 (corsivo nell’originale).

  35. Paglia, Etica, cit., 301.

  36. G.E.M. Anscombe, “Contraccezione, castità e vocazione del matrimonio”, in Id., Una profezia per il nostro tempo, cit., 139.

  37. Paglia, Etica, cit., 305 (corsivo nell’originale).

  38. Paglia, Etica, cit., 305 (corsivo nell’originale).

  39. Paglia, Etica, cit., 305.

  40. Paglia, Etica, cit., 299.

  41. M. Gauchet, “L’enfant du désir,” Le Débat 132 (2004): 98-121. In italiano il saggio è stato pubblicato come capitolo di un volume che raccoglie alcuni articoli di Gauchet. Da esso è stato tratto il titolo del libro: M. Gauchet, Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica, Vita e Pensiero, Milano 2010, 49-90.

  42. Paglia, Etica, cit., 306.

  43. Gauchet, Il figlio del desiderio, cit., 68

  44. Paglia, Etica, cit., 303.

  45. Paglia, Etica, cit., 303.

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Gerhard Cardinal Müller and Stephan Kampowski

Gerhard Cardinal Müller is former Prefect of the Congregation for the Doctrine of the Faith.

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