Dinamismo dell’agire e verità dell’amore

Livio Melina

«Esplorando l’esperienza del dinamismo dell’agire nella prospettiva della “prima persona”, …[si scopre] la logica dell’amore come sorgente originaria della tensione al bene. … Questa logica è anche quella del dono, che gratuitamente concesso alla radice della nostra libertà, non la coarta, ma la stimola al suo compimento nel donarsi a sua volta. La verità sul bene, espressa dalla legge e realizzata nelle virtù, non è dunque un limite, ma piuttosto la condizione per una risposta adeguata alla vocazione della vita stessa, che è vocazione ad amare, donandosi a nostra volta».

«La morale potrebbe essere fondata in un modo solido e incontestabile, ma per applicarla alla pratica, occorrerebbe un nuovo genere di logica, completamente differente da quella che abbiamo avuto fino ad ora», con questa citazione di Gottfried W. Leibniz, inizia un prezioso saggio di Maurice Blondel del 1903, dedicato alla ricerca di un Principio di una logica della vita morale[2]. Il filosofo francese lamenta che «troppo frequentemente la logica morale è intesa come una sorta di canone esteriore che deve servire a giudicare e regolare»[3]. La logica astratta, basata sul principio di contraddizione, propone nel cuore stesso dell’effimero e del relativo, di cui è fatta la vita morale, delle opposizioni e delle qualificazioni assolute. Come possono dunque conciliarsi logica e morale, contingenze della vita e assolutezza dell’obbligazione?

Blondel propone di passare dal punto di vista artificiale della logica formale ad un nuovo tipo di logica, che sia quella della “verità vivente”: la logica reale della vita, che «rimette il pensiero pensato e astratto in contatto con il pensiero pensante e agente»[4]. Egli ricorda che «l’azione ci rivela sempre del nuovo, e la sua logica supera ogni deduzione analitica»; infatti «poiché la libertà (è) generata necessariamente in noi dalla dialettica spontanea della vita …, è questo dinamismo antecedente, concomitante e consecutivo alla libertà che la logica deve illuminare»[5], se si vuole un pensiero davvero in accordo con la vita.

 

1. Il punto di vista del soggetto agente

La geniale riflessione del filosofo di Aix-en-Provence evidenzia la necessità di superare l’estrinsecismo di un approccio razionalistico, che si concentra sul compito di dare un giudizio oggettivo sugli atti umani, a partire dalle norme morali codificate, e per far questo si colloca dal punto di vista di un osservatore esterno (il giudice o il confessore)[6]. Si tratta di un’etica di “terza persona”, prevalsa con l’epoca moderna, che si concentrava sui concetti di dovere o di obbligazione morale, i quali trovavano il loro significato nel contesto di una visione che ammetteva un Dio legislatore, ma che risultano obsoleti e vuoti nell’epoca post-moderna[7].

E d’altra parte assolutamente carente risulta anche l’opposta posizione del soggettivismo della coscienza, che rifiutando ogni riferimento normativo esterno o subordinandolo radicalmente al giudizio o al sentire privato, capovolge specularmente i termini della questione, senza peraltro sanare la dicotomia tra universalità della norma e singolarità del caso e tra oggettività dell’atto e soggettività della persona. Anche in questo caso si tratta di un giudizio applicato all’azione dall’esterno, benché qui il giudice sia la propria coscienza individuale.

Occorre ripartire dall’esperienza morale, cioè recuperare quella prospettiva originale che sa cogliere il dinamismo dell’agire nel suo tendere verso il bene, da cui prese avvio la riflessione di Aristotele nell’ Etica Nicomachea[8]. Ciò corrisponde al suggerimento che offre l’enciclica Veritatis splendor (n. 78), per cogliere l’oggetto dell’atto umano nella sua dimensione specificamente morale e superare le aporie dell’etica moderna. Si tratta di porsi dal punto di vista del soggetto agente, che “in prima persona” costruisce le sue azioni come atti che mentre tendono a beni umani particolari, oggetto del suo desiderio, determinano anche la bontà del soggetto stesso nel suo volerli in vista del bene ultimo della felicità. È questa la prospettiva specifica della prassi morale, cioè del soggetto che agisce in base ad un fine e aspira al bene che lo può rendere felice, dando pienezza alla sua vita.

Egli si accorge che gli atti che compie non gli procurano solo l’acquisizione di certi beni e cambiano il mondo che lo circonda, ma essi cambiano anche lui stesso, rendendolo buono o cattivo non secondo un’abilità tecnica particolare (es. un buon artigiano, un buon medico, un buon professore, ecc.), ma in riferimento alla bontà complessiva della sua volontà e del suo essere uomo (un artigiano “buono”, un medico “buono”, un professore “buono”, ecc.). È questa la prospettiva dell’“agire” e non solo del “fare” (in greco: praxis / poiesis, in latino: agere / facere).

La questione decisiva della prassi consiste nel capire il criterio per cui si possa stabilire se quello che mi “appare” buono” sia anche “buono in verità”: è la questione della verità del bene, che dal punto di vista del soggetto è questione della verità dell’aspirare al vero bene: verità del soggetto, nel suo dinamismo libero, con cui si orienta verso il proprio fine. L’etica ha dunque bisogno di una teoria dell’azione, che sia anche una teoria del soggetto agente e dei principi che gli permettono di raggiungere la sua verità personale. Su questa linea Blondel con precisione segnalava «il punto di vista della verità vivente», nel quale il destino della persona è coinvolto nell’agire: «noi siamo sempre più o meno ciò che è la nostra azione; ciò che noi facciamo ci fa a sua volta; quello che non facciamo contribuisce ugualmente a definirci»[9].

Karol Wojtyła ha dedicato alla questione del rapporto tra persona e atto un suo saggio fondamentale dal punto di vista dell’antropologia a servizio dell’etica[10]. Egli ha mostrato come è proprio la dipendenza della volontà dalla verità che rende possibile la trascendenza del soggetto rispetto agli oggetti particolari che lo attirano a livello appetitivo immediato. La “verità sul bene” si presenta dunque come condizione della trascendenza del soggetto nell’agire e quindi della sua libera autodeterminazione. L’analisi di Wojtyła è però di tipo antropologico e non etico: risale cioè dall’atto alla persona, “mettendo fuori parentesi”, come egli dice, quella dimensione morale, che invece per noi è il tema di interesse specifico.

A tale scopo il metodo che si deve seguire non è quello di risalire la corrente, ma di seguirne la direzione, in una riflessione sulla prassi morale, che coglie il soggetto nel dinamismo libero con cui tende alla sua pienezza. È questa l’impostazione che San Tommaso d’Aquino adotta nella Secunda pars della Summa Theologiae e che sinteticamente egli esprime come motus rationalis creaturae in Deum[11]. La libertà della persona umana, riflesso specifico del suo essere ad immagine e somiglianza di Dio, si esercita non in una opzione trascendentale fuori dal tempo, ma nel contesto discorsivo della temporalità, che comporta il dramma della frammentarietà, della ricerca, della revocabilità, dell’adattamento a situazioni diverse e variabili, delle scelte, con l’incertezza delle vie da percorrere.

Come sarà possibile dare un orientamento stabile, coerente, integrato alle scelte mediante le quali la libertà umana decide nel tempo il suo destino eterno? E come è possibile pensare la sinergia della nostra libertà finita con l’azione della grazia divina in noi? Questa grande parola “sinergia”, che alcuni Padri hanno utilizzato per spiegare il mistero dell’azione divino-umano di Cristo e dell’azione umano-divina che è nostra propria[12], è stata richiamata dal card. Joseph Ratzinger per indicare il compito fondamentale della teologia morale cattolica: pensare «la collaborazione dell’agire umano e dell’agire divino nella realizzazione piena dell’uomo»[13].

La teoria dell’azione su cui si fonda una consistente teologia morale ricerca le condizioni che permettono alla persona che agisce di essere autentico soggetto morale, autore di una condotta morale che configuri una vita veramente buona, in sinergia con la grazia divina, che dall’interno sostiene, guarisce, ispira ed eleva la dinamica umana dell’agire, senza violarne la natura razionale e volontaria. Questi principi interiori sono le virtù e per questo la riflessione morale si struttura come una teoria delle virtù. Così l’ha pensata San Tommaso d’Aquino, il quale nel prologo della Secunda Secundae afferma che «tutta la materia morale si riconduce alla considerazione delle virtù», sia quelle teologali che, per grazia, dispongono il soggetto in ordine al fine ultimo che è Dio, sia quelle cardinali, che lo abilitano all’eccellenza morale nei riguardi dei beni umani, oggetto delle scelte.

Una significativa corrente di teologia morale contemporanea si è caratterizzata per una consapevole “riscoperta delle virtù”. Essa si è sviluppata soprattutto a partire da due cespiti: in ambito anglosassone con un neo-aristotelismo a seguito della visione di Alasdair MacIntyre, e in ambito francofono sul tronco di un rinnovamento dell’autentico tomismo ad opera soprattutto di padre Servais Pinckaers[14]. Queste due correnti hanno riscoperto l’originalità della morale delle virtù di matrice aristotelica e tomista, intendendo le virtù non come un semplice elemento da tematizzare maggiormente, ma come il fattore chiave di un approccio globalmente differente per la morale nel suo complesso[15].

Porsi dal punto di vista del soggetto, autore dell’agire, significa in primo luogo cogliere l’azione particolare nel contesto del dinamismo complessivo che la unisce al fine ultimo e ai fini prossimi delle virtù. Ciò consente di superare l’atomismo dei singoli atti, visti come monadi irrelate e di collocarli in una dinamica di compimento personale. E questo permette anche di identificare in maniera non fisicista l’oggetto dell’atto, secondo l’auspicio di Veritatis splendor, già menzionato. Come afferma l’Angelico, ciò che specifica moralmente l’atto (species moralis) non è l’aspetto esteriore (species physica), ma il suo contenuto intenzionale, colto dalla ragione pratica. «Species moralium actuum constituuntur ex formis prout sunt a ratione conceptae»[16].

L’intenzionalità implica la ragione pratica. Le cosiddette “azioni di base intenzionali”[17], cioè quanto viene chiamato anche “oggetto di un’azione”, che ne specifica la qualifica morale, nasce dalla convergenza di due elementi: “ciò che si fa” (what, in senso fisico esteriore) e “a che pro si agisce” (why, il fine intrinseco dell’atto)[18]. È solo nella convergenza di questi due fattori che si possono identificare le azioni umane, nel loro oggetto proprio (che è il fine intrinseco che le fa essere specificamente un certo tipo di azione: finis operis), e quindi qualificarle dal punto di vista etico. Altrimenti si hanno solo “fatti che accadono”. Un conto è un atto visto secondo il suo genus naturae (aspetto fisico o identità naturale) e un conto è un atto colto nel suo genus moris (identità morale), colto così dalla ragione pratica[19]. Ciò permette di evitare sia l’oggettivismo, che si concentra solo sull’oggetto visto dall’esterno, sia il soggettivismo che enfatizza unilateralmente l’intenzione interiore (finis operantis).

 

2. La verità morale come verità pratica sul bene

Il compito della ragione pratica, nella sua dimensione specificamente morale è dunque quello che illuminare e guidare il soggetto nelle scelte che lo portano al compimento della sua vocazione alla felicità[20]. La prospettiva morale ci fa cogliere il senso proprio, nel quale una persona può essere qualificata come “buona”. Essa è buona non solo per il fatto di esistere (bontà ontologica), ma perché mediante un atto di volontà, cioè con il suo agire libero, si è orientata al bene (bontà morale)[21].

Qui si pone “il bene della persona”, come tale che, secondo Veritatis splendor è «la bontà della volontà della persona che agisce» (n. 52). E infatti «L’ultima perfezione della persona è un atto della persona: l’atto mediante cui la persona – e nessuno al suo posto – dinamizza se stessa ed attua se stessa»[22]. Non si tratta di una perfezione delle singole potenze operative o delle singole facoltà, neppure si tratta di una perfezione settoriale, ma piuttosto della perfezione del soggetto come tale in quanto agisce. Si supera così una concezione del bene a partire dalla mera appetibilità, come era quella aristotelica, che definiva bene “ciò che tutti desiderano”[23] e si giunge a collegarlo con l’idea di perfezione, basata sul bene come atto libero di autodeterminazione[24].

Nella luce del primato della perfezione del soggetto agente (“il bene della persona”) si può determinare anche la bontà specifica degli atti particolari che egli compie e che sono volti a realizzare o conseguire dei “beni per la persona”, oggetto di desideri (la vita, il cibo, la sessualità, la convivenza sociale, la conoscenza della verità, ecc.). Essi corrispondono a inclinazioni naturali ed hanno funzione euristica per scoprirne la portata, ma devono essere valutati poi in concreto non sul piano meramente ontico, bensì in base all’ordinabilità delle scelte che li riguardano al bene complessivo e concreto, che la persona è chiamata a realizzare. Dunque, se è vero che “il bene della persona” non può realizzarsi a prescindere da un volere ordinato di singoli “beni per la persona”, è però solo nella luce del “bene della persona” come tale, nella sua pienezza, che essi assumono valore morale. Tale bene ha dunque un valore ermeneutico e permette alle inclinazioni naturali di assumere forma di virtù morali, cioè di aspirare ai beni di natura in un modo conforme al bene personale completo. Possiamo quindi dire che le virtù morali plasmano le inclinazioni naturali e i desideri particolari in modo da armonizzarli al bene morale della persona. Esse aspirano così a fini non meramente naturali, ma virtuosi (fines virtutum).

Il compito della ragione pratica è dunque quello di operare un’ordinazione dei beni particolari, che sono oggetto delle tendenze spontanee, verso il bene morale come tale. Ciò richiede innanzitutto una guarigione degli orientamenti disordinati, che è lascito della concupiscenza dovuta al peccato d’origine[25], ma anche una integrazione delle tendenze appetitive, una loro stabilizzazione (stabilmente, facilmente e con gioia) ed anche, in prospettiva cristiana, una loro elevazione verso il fine soprannaturale dell’unione amorosa e beatificante con Dio.

Entra, a questo proposito il riferimento alla corporeità umana, che è il luogo dove si radicano e si manifestano le tendenze fondamentali ai beni umani, ma anche lo spazio in cui la persona si apre al mondo e soprattutto al mondo delle persone con cui entra in relazione. Vi è infatti un’unità personale dell’essere umano, che come afferma il Concilio Vaticano II in Gaudium et spes è “corpore et anima unus[26]. Ciò mette in guardia da dualismi che favoriscano uno spiritualismo disincarnato o una autonomia illusoria della coscienza. Essa stessa è nell’uomo vincolata all’esperienza della corporeità[27]. Ne deriva una comprensione personalistica e realistica dell’articolazione tra “il bene della persona” e “i beni per la persona”, di importanza decisiva per la razionalità pratica. Vale la pena di riportare per esteso un brano dell’enciclica Veritatis splendor: «La persona, mediante la luce della ragione e il sostegno della virtù, scopre nel suo corpo i segni anticipatori, l’espressione e la promessa del dono di sé, in conformità con il sapiente disegno del Creatore. È alla luce della dignità della persona umana — da affermarsi per se stessa — che la ragione coglie il valore morale specifico di alcuni beni, cui la persona è naturalmente inclinata. E dal momento che la persona umana non è riducibile ad una libertà che si autoprogetta, ma comporta una struttura spirituale e corporea determinata, l’esigenza morale originaria di amare e rispettare la persona come un fine e mai come un semplice mezzo, implica anche, intrinsecamente, il rispetto di alcuni beni fondamentali, senza del quale si cade nel relativismo e nell’arbitrio» (n. 48).

La dimensione corporea, nella sua apertura al mondo e alle relazioni, indica l’importanza degli affetti nella dinamica conoscitiva della ragione pratica. Nell’odierna temperie culturale il carattere realistico dell’affettività è stato oscurato dall’emergere della categoria dell’emozione, e del corrispondente “soggetto emotivo”, che giudica il valore degli atti solamente sulla base delle emozioni che prova e che si condanna quindi alla frammentazione e alla chiusura nell’individualismo privato, salvo poi cercare compenso sul piano pubblico in un mero utilitarismo[28]. Per questo si parla giustamente di “soggetto emotivo – utilitario”. Egli si accontenta dell’autenticità, cioè della coerenza con la propria percezione emotiva del momento[29]. La categoria psicologica dell’emozione ha rimpiazzato e assorbito in sé le variegate categorie dell’antropologia classica, quali appetiti, passioni, sentimenti, affetti, che da un lato permettevano di interpretare l’esperienza con una gamma articolata di sfumature e d’altra parte, soprattutto consentivano di cogliere il radicamento dell’emozione nel mondo e assicuravano così il carattere realistico e conoscitivo dell’esperienza affettiva[30].

In effetti la considerazione degli affetti all’interno dell’unità dinamica dell’azione permette di superare la dicotomia tra soggetto e oggetto, evitando la privatizzazione emotivistica[31]. La modalità di conoscenza per connaturalità, propria dell’affetto, permette infatti una correlazione, per la quale l’oggetto è presente nel soggetto stesso. Inoltre la conoscenza affettiva, soprattutto quella legata all’amore, che è radice di tutti gli affetti, comporta una modalità specifica di universalità, molto diversa da quella meramente razionalistica, perché non è né deduttiva come propone Descartes, né trascendentale, come pensa Kant. La concretezza dell’amore dipende da un’originale modalità di contatto col reale nella sua individualità, che senza nulla perdere dell’implicazione personale, si manifesta in una comunione nel bene, che ha una valenza universale. Il riconoscimento di questo dono originario, che viene dall’amore del Creatore e che muove il dinamismo dell’agire, è ciò che garantisce metafisicamente la dimensione universale ed è anche quanto manca nell’analisi di Blondel. Ciò è peraltro la novità specifica del cristianesimo: l’idea balthasariana di “universale concreto” permette di riconoscere all’evento di Cristo un carattere escatologico singolare, e di superare l’obiezione illuministica di Lessing circa l’impossibilità di fondare su fatti storici particolari esigenze etiche di carattere universale[32].

L’affetto è, in verità, una impressio, un affici, cioè un essere toccato e modificato da una realtà esterna, che provoca una reazione, che attira o allontana[33]. Mediante l’affetto, la realtà che colpisce il soggetto, si fa interiore, diventa una presenza, che provoca un movimento, un appetito o una repulsione. Esso è dunque il motore primo dell’appetito, che si presenta dunque come una reazione, o una risposta ad un iniziale intervento che ha la sua origine esteriore. L’elemento fondamentale che produce questo affetto è la relazione con un’altra persona, la quale offre il contesto per la passione tra tutte fondamentale, quella dell’amore, con un’importanza decisiva per il sorgere della responsabilità e della verità morale, la quale ha dunque un’irriducibile dimensione affettiva[34]. Qui, come si vedrà, la presenza interiore, che mobilita e che è data nell’affetto, è quella dell’amato nell’amante.

Quando l’Aquinate distingue la verità pratica da quella speculativa, afferma che mentre la seconda ha come criterio la conformità dell’intelletto con la realtà, la prima «viene desunta dalla conformità coll’appetito retto»[35]. La verità pratica non consiste pertanto solo nella pura conoscenza, ma comporta l’integrazione di due elementi: da un lato l’appetito, per l’implicazione della volontà, che si realizza mediante l’affetto; e in secondo luogo la rettitudine, che è determinata dall’ordinazione al fine operata dalla ragione. Ciò significa che il raggiungimento della verità morale non è opera di uno sforzo meramente intellettuale, ma comporta la presenza nel soggetto di ordinate disposizioni affettive. Secondo l’effato di Aristotele, condiviso pienamente da San Tommaso, è «il virtuoso la misura vivente della verità morale, perché a lui sembrano buone le cose che sono anche buone in verità»[36]. Egli può essere misura in quanto rappresenta la perfezione realizzata dell’umano.

 

3. La logica dell’amore

La categoria di “verità sul bene”, cara a Karol Wojtyła[37], viene illuminata proprio all’interno dell’esperienza interpersonale dell’amore, e si integra così in quella più ampia di “verità dell’amore”. San Tommaso afferma infatti che «qualcosa ci appare bene in relazione ad un’altra persona che amiamo e a cui vogliamo donarla»[38]. L’amore si rivela quindi fattore conoscitivo, manifestando l’originalità della sua logica, che impedisce la riduzione della conoscenza morale ad un qualsiasi sistema razionalista[39]. L’amore infatti non si può dedurre: è un evento che accade e non la conclusione di un ragionamento. Esso ha le proprie ragioni e le proprie esigenze[40]. È una luce che mentre illumina le ragioni di bene della realtà, le orienta alla realizzazione della comunione e diviene motore dell’azione. San Gregorio Magno, nel contesto di una riflessione di carattere teologico, ne afferma il primato conoscitivo: «già conosciamo le cose che amiamo, perché l’amore stesso è conoscenza»[41].

Il rimando all’esperienza dell’amore non ha carattere strategico o fenomenologico, ma risponde alla logica interna dell’amore, così come appare nel rapporto che si stabilisce tra la persona e l’atto di amare. Ciò corrisponde anche ad una profonda intuizione del personalismo, che ha condotto a riconoscere tre livelli specifici di interpersonalità[42], che si riassumono nelle categorie di: presenza, incontro e comunione. Si possono intendere come tre fasi: antecedente, esistenziale e finale di un dinamismo morale, che nasce dall’esperienza di un’unione, interpersonale fin dal suo inizio. La presenza dell’altro nell’unione affettiva (unio affectus), è il dono iniziale dell’amore, che si rivela poi esistenzialmente nell’incontro personale, innestando il dinamismo che tende all’unione reale (unio realis) nella comunione delle persone[43]. Tale articolazione permette una comprensione più completa e precisa rispetto all’approccio meramente dialogico di Martin Buber o a quello basato solo sul dinamismo del desiderio e della volonté voulante, come fece Blondel. I tre livelli dell’esperienza amorosa aprono, inoltre, ad un innesto trinitario, rinviando rispettivamente al fondamento creativo originario nel Padre, all’incontro storico col Figlio, al compimento dinamico ispirato dallo Spirito Santo[44].

Se la struttura basilare dell’amore come atto è definita dal fatto che «l’amato vuole il bene dell’amato»[45], essa mostra nello stesso tempo il valore singolare della relazione d’amore per cogliere il bene, ma anche la necessaria mediazione dei beni umani, per realizzare il fine della comunione: è nella relazione di un soggetto con un altro soggetto che si rende evidente la realtà oggettiva del bene, quale mediazione necessaria dell’amore.

Il primato dell’amore nell’agire è anche nello stesso tempo primato del dono, perché l’amore umano è essenzialmente una risposta ad un Amore che lo precede e lo chiama ad una risposta. Prima di essere un’azione (amare), l’amore è una passione, e, come azione è risposta ad un fatto che è accaduto interiormente e che si sperimenta come dono promettente. «Siccome Dio ci ha amati per primo (cf. I Gv 4, 10) l’amore adesso non è più solo un comandamento, ma è la risposta al dono dell’amore, col quale Dio ci viene incontro»[46]. Alla radice del dinamismo dell’agire, come motore che spinge all’azione e come luce che la dirige, sta dunque l’amore. «Amor praecedit desiderium», l’amore precede il desiderio[47], che si manifesta così come risposta ad una vocazione, che non va intesa solo come appello verbale, ma più profondamente come grazia che ispira e mobilità.

La libertà umana si configura quindi come strutturalmente responsoriale. Solo una presunzione miope può considerarla come iniziativa autonoma priva di presupposti, come costruzione di sé a partire da sé. Essa è piuttosto il consenso ad un’iniziativa previa. Si può dunque affermare con rigore che essa, sia come libertà creaturale, che come corrispondenza alla grazia divina, ha una forma mariana, ha la forma del “fiat” della Beata Vergine Maria all’annuncio dell’angelo Gabriele. Ritroviamo qui, nell’orizzonte dell’amore, la sinergia umano-divina che innerva il dinamismo dell’agire cristiano.

Come ci ha ricordato papa Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est, l’amore ha carattere di evento, cioè di un fatto di libertà nel quale la persona stessa è coinvolta nella propria identità. «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò una direzione decisiva» (n. 1). proprio nell’incontro con il Signore Gesù anche San Giovanni Paolo II, nell’enciclica Veritatis splendor, aveva collocato l’origine della morale cristiana, quale vocazione alla sequela di Cristo. Nell’incontro con Lui la persona sperimenta di essere chiamata ad una perfezione, si sente mobilitata a “essere di più”, per mezzo del dono sincero di sé (cf. Gaudium et spes, n. 24).

L’incontro con Cristo è fondamento della morale cristiana in quanto “vocazione all’amore”, in cui l’iniziativa divina provoca e sostiene la risposta umana, rivelando la persona nel suo mistero più profondo. «L’uomo – infatti – non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente»[48]. Sant’Agostino, parlando dell’incontro di Gesù con Zaccheo, sintetizza magnificamente la precedenza dell’amore di Dio sulla nostra risposta: «Ut videremus, visi sumus; ut diligeremus, dilecti sumus”»[49]: “per poter vedere siamo stati guardati, per amare, siamo stati amati”.

 

4. Carità, norme e virtù

Sempre il grande vescovo di Ippona, commentando il vangelo di Giovanni, si interrogava sull’ordine reciproco tra i comandamenti di Dio e l’amore nella morale cristiana: «È l’amore che ci fa osservare i comandamenti oppure è l’osservanza dei comandamenti che fa nascere l’amore?» e rispondeva: «Ma chi può mettere in dubbio che l’amore precede l’osservanza? Chi infatti non ama è privo di motivazioni per osservare i comandamenti»[50]. Si tratta di un testo citato da Veritatis splendor, nel contesto della riflessione sull’incontro con Gesù quale fondamento della morale, un testo che chiarisce definitivamente il primato dell’amore nella vita morale.

La questione appena menzionata chiama in causa un dibattito che da più di mezzo secolo percorre la teologia morale cattolica: non si tratta però semplicemente di sottolineature più o meno privilegiate di un elemento a scapito di un altro, ma di vere e proprie impostazioni divergenti, che differenziano la morale classica dalla morale “moderna”, qualificandole come figure di etica alternative[51]. La prima si colloca nella prospettiva della prima persona o del soggetto agente e fa perno sulle categorie di virtù e di prudenza, mentre la seconda adotta il punto di vista della terza persona, o del giudice / confessore, e si basa sulle categorie di legge e coscienza. La prima sviluppa la morale come dinamismo dell’agire teso al bene e al conseguimento della felicità; la seconda si concentra sulla valutazione dei singoli atti nella loro conformità ai doveri di giustizia, stabiliti dai precetti della legge.

Naturalmente anche in un’etica di prima persona il concetto di “legge” gioca un ruolo importante ed è imprescindibile. Esso però, collocato nel dinamismo dell’agire, non è visto principalmente come un obbligo che scaturisce dalla volontà del legislatore umano o divino. La legge è piuttosto un saggio ordinamento della sapienza, che dispone le cose in riferimento al loro fine: è opus sapientiae e ordo rationis, e quindi istruzione sul cammino per poter raggiungere la felicità, così come viene intesa biblicamente[52]. Non è frutto di una volontà arbitraria e insondabile, ma espressione di una verità sul bene, che aiuta la libertà nella sua aspirazione più intima, invece di contrapporsi ad essa come un limite incomprensibile.

C’è una verità che precede e fonda la legge. In tal senso è illuminante la metafora che San Tommaso predilige quando parla di legge: quella della luce, utilizzata soprattutto quando si riferisce alla legge naturale, luce naturale sul bene. Egli ricorre in tal senso alla citazione del salmo 4, in una spiegazione che è ripresa anche dall’enciclica Veritatis splendor: «Dopo aver detto: Offrite sacrifici di giustizia (Sal 4,6), come se alcuni gli chiedessero quali sono le opere della giustizia, il Salmista soggiunge: Molti dicono: Chi ci farà vedere il bene? E, rispondendo alla domanda, dice: La luce del tuo volto, Signore, è stata impressa su di noi. Come se volesse dire che la luce della ragione naturale con la quale distinguiamo il bene dal male — il che è di competenza della legge naturale — non è altro che un’impronta in noi della luce divina»[53].

Invece per l’impostazione prevalsa nella modernità, la legge è intesa innanzitutto nella forma di “norma” morale, cioè di regola che si impone alla libertà con forza di obbligazione, spesso anche in forma arbitraria (legalismo). Così Guglielmo di Ockham capovolge i termini fondativi del rapporto tra comando e valore morale dell’azione affermando: «malum quia prohibitum, bonum quia iussum»[54]: una azione è cattiva perché è proibita ed è buona perché è comandata. Questa visione, che ha origine nel volontarismo e nel nominalismo della scuola francescana del tardo medioevo[55], si sviluppò in particolare nel lassismo della casuistica post-tridentina, dove fu accolta e maturò persino l’idea ockhamista che de voluntate Dei absoluta, addirittura Dio avrebbe potuto mutare i comandamenti del Decalogo e rendere la fornicazione un atto di virtù e l’onore ai propri genitori un vizio[56]. Una tale concezione legalistica ha conseguenze nefaste anche per la pastorale, perché intende i pastori come legislatori arbitrari con pieni poteri, piuttosto che come maestri di verità sul bene[57].

Va osservato che secondo la visione che fa perno sulle virtù, le norme morali hanno carattere secondario rispetto alle virtù, da un duplice punto di vista: epistemologicamente esse sono la formulazione di un giudizio riflesso sulla scelta eccellente compiuta dal soggetto virtuoso. Educativamente le leggi morali esistono per rendere gli uomini virtuosi.

Il punto di vista del soggetto agente è pienamente assunto dalla considerazione delle virtù morali, che si collocano all’interno del dinamismo morale in quanto qualificano il soggetto a compiere azioni eccellenti, essendo “disposizioni stabili ad operare il bene”. Esse sono tutt’altra cosa che un’abitudine che diminuisce o toglie la libertà[58], proprio perché mirano a perfezionare la capacità di scelta appropriata alla circostanza: sono habitus electivus[59], che non predetermina l’oggetto della scelta (id quod eligitur), ma plasma un modo di scegliere eccellente (id cuius gratia eligitur). Per questo la virtù produce un incremento della libertà spirituale, al contrario del vizio.

La dottrina delle virtù corrisponde, nello stesso tempo, ad un’antropologia integrale e unitaria dell’uomo. In essa, come si è già detto, la persona umana è soggetto dell’agire in quanto “uno nell’unità di corpo e anima”[60]. Il soggetto morale non è pura ragione o libertà autonoma: è anche corporeità, istintualità, emotività, sensibilità, passionalità. Nessuna di queste componenti può essere semplicemente repressa, ma tutte devono essere integrate in una totalità armonica, che trova il suo punto di riferimento nella ragione e nella verità sul bene, da essa appresa. Il concetto chiave di un’etica delle virtù è infatti quello di integrazione, cioè di armonica e dinamica unità di una pluralità di componenti in vista del fine autentico, il bene umano completo. È infatti la ragione, che, nella luce della verità sul bene, può ordinare ciascuna dimensione in vista del fine. Le varie componenti, d’altra parte, lungi dall’essere irriducibilmente refrattarie alla ragione, sono invece naturalmente disposte a riceverne la forma, in quanto portano in sé stesse un implicito orientamento al bene nella sua qualità integralmente umana (bonum hominis) [61]. Le facoltà umane sono predisposte a perfezionarsi, acquisendo gli habitus virtuosi. Il bene dell’uomo è il bonum rationis, in quanto anche bonum virtutis.

Le virtù si radicano quindi nella ragione pratica. Ciò significa che al cuore di esse sta un principio razionale e universale: si tratta di quei “semi delle virtù” (semina virtutum), che sono anche, nello stesso tempo, verità sui beni umani, che la libertà è chiamata ad amare e perseguire. Sono cioè i principi basilari della legge naturale.

Le virtù ci fanno amare ciò che è veramente degno di amore: il vero bene umano, che porta a pienezza il desiderio di felicità. Ciò sottrae il discorso delle virtù al pericolo del soggettivismo di gusti arbitrari e al relativismo storico delle diverse culture e contesti sociali. Le virtù non sono dei semplici “tratti di carattere”, che il soggetto acquisisce come interessi individuali[62]. Neppure le virtù possono essere qualità sociali, che si giustificano all’interno della vita di una comunità, secondo una concezione neo-hobbesiana, adottata da alcuni “comunitaristi” contemporanei. Queste teorie delle virtù si mostrano ultimamente insufficienti in quanto incapaci di distinguere tra virtù e vizi, per l’assenza di una teoria della ragione pratica, che permetta di radicare la virtù in una verità sul bene e di escludere dalla vita virtuosa gli atti intrinsecamente cattivi[63].

La prospettiva delle virtù è d’altra parte, nello stesso tempo e più radicalmente, la prospettiva dell’amore. Infatti, come dice San Tommaso appoggiandosi su Sant’Agostino: «Virtus dependet aliqualiter ab amore»: “la virtù dipende in qualche modo dall’amore”[64]. L’amore è alla radice delle virtù non solo in quanto l’amore è la passione fondamentale della volontà su cui esse stesse si radicano, ma anche in quanto è l’amore che crea la connaturalità ed offre la luce per quella particolare intelligenza d’amore di cui il dinamismo virtuoso ha bisogno per conoscere e scegliere il bene. È un compito ancora aperto quello di approfondire questa connaturalità come il modo principale della conoscenza morale[65], La verità sul bene di cui le virtù si nutrono è così in modo proprio la verità dell’amore, su cui abbiamo precedentemente riflettuto.

La sintesi teologica della morale delle virtù è poi assicurata dall’idea che la forma delle virtù è la carità[66]. Infatti essa ne ordina l’intenzionalità verso il fine ultimo soprannaturale, assicurandone l’ultima e vera dimensione. Ciò avviene tuttavia senza che la carità giunga ad assorbire in sé le singole virtù, che mantengono la loro identità morale, sulla base dei fini loro propri, stabiliti dalla ragione. Solo ciò che è conforme alla verità sul bene umano può essere elevato dalla carità ad essere fattore del bene soprannaturale.

La carità poi, ha un grado minimale, che è dato dal distacco dal male e dall’orientamento fondamentale verso Dio: esso è vincolato all’unione con Dio in un’Alleanza, in un’unione personale, che c’è o non c’è, senza possibile termine medio. Una volta che ci sia quest’unione fondamentale, la carità può crescere gradualmente all’infinito, senza limite alcuno. In riferimento al grado minimale della carità si innesta qui la funzione delle norme morali negative, che proibiscono gli atti intrinsecamente cattivi: la scelta deliberata di questi atti è incompatibile con la carità, proprio perché è incompatibile con le virtù morali[67].

La carità è definita dall’Aquinate come una certa forma di amicizia con Dio: «amicitia quaedam est hominis ad Deus»[68], il che ne preserva nello stesso tempo il carattere gratuito di relazione donata per grazia e il suo agire come un habitus. L’amicizia con Dio opera nel dinamismo morale come una disposizione virtuosa, che permea ogni scelta orientandola verso il compimento soprannaturale della comunione con Dio. La carità ha anche una dimensione cristologica: infatti Cristo è l’Amico per eccellenza: «maxime sapiens et amicus»[69] , che coi consigli ci istruisce e con la sua grazia compie ciò che da soli non riusciremmo a fare, così che volgendoci mediante il libero arbitrio a Lui possiamo ottenere la beatitudine ed è come se l’avessimo raggiunta noi stessi. Ciò infatti che ci è reso possibile mediante gli amici in qualche modo è come se lo avessimo compiuto noi stessi[70]. E così, mediante l’amicizia e le virtù, l’Aquinate spiega quella sinergia che muove e sostiene il dinamismo dell’agire cristiano.

 

Conclusione

Per riconciliare la morale con la vita, Blondel aveva auspicato l’adozione di una logica diversa da quella razionalista e applicativa: una logica della vita, che fosse in armonia col dinamismo intimo della vita, che non rinunciasse alle esigenze assolute del martirio, senza cui non esiste morale, ma che le cogliesse dall’interno del soggetto, proteso verso un fine che trascende qualsiasi ordine immanente alla natura.

Esplorando l’esperienza del dinamismo dell’agire nella prospettiva della “prima persona”, abbiamo potuto scoprire la logica dell’amore come sorgente originaria della tensione al bene. E così abbiamo potuto vedere che questa logica è anche quella del dono, che gratuitamente concesso alla radice della nostra libertà, non la coarta, ma la stimola al suo compimento nel donarsi a sua volta. La verità sul bene, espressa dalla legge e realizzata nelle virtù, non è dunque un limite, ma piuttosto la condizione per una risposta adeguata alla vocazione della vita stessa, che è vocazione ad amare, donandosi a nostra volta.

  1. Livio Melina è Teologo Moralista. Già Ordinario di Teologia morale (dal 1996 al 2019) presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia a Roma, di cui fu Preside dal 2006 al 2016. Vi ha fondato e diretto l’Area Internazionale di Ricerca in Teologia morale. Membro ordinario della Pontificia Accademia di Teologia, è stato Direttore scientifico della rivista Anthropotes. È stato visiting Professor a Washington DC e a Melbourne, ed ha tenuto corsi e conferenze in varie Università internazionali. 

  2. M. Blondel, Principio di una logica della vita morale, Introduzione e traduzione di E. Castelli, con una lettera-prefazione di M. Blondel, ed. Signorelli, Roma 1924.

  3. Cf. Lettera di M. Blondel a E. Castelli dell’8 dicembre 1924, usata come prefazione dell’edizione italiana.

  4. Blondel, Principio, cit., 50.

  5. Ibidem, 45. 47.

  6. Al riguardo: G. Abbà, Felicità, vita buona e virtù. Saggio di filosofia morale, LAS, Roma 1989, 97-104.

  7. Si veda: G.E.M. Anscombe, “Modern Moral Philosophy” (orig. 1958), in Human Life, Action and Ethics, Essays by G.E.M. Anscombe, ed. by M. Geach & L. Gormally, “St. Andrews Studies in Philosophy and Public Affairs”, Imprint Academic, Exeter UK 2005, 169-194. Riferimento obbligato è poi: A. MacIntyre, After Virtue. A Study in Moral Theory, University of Notre Dame Press, Notre Dame/IN 1981.

  8. Cf. M. Rhonheimer, La prospettiva della morale. Fondamenti dell’etica filososfica, Armando Editore, Roma 1994, 31-49.

  9. Blondel, Principio, cit., 40.

  10. K. Wojtyła, Persona e atto, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1982, in particolare 161-166.

  11. San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q, 2, prol. Per una piena valorizzazione della novità tomista di questa prospettiva, poi persa nella modernità: G. Abbà, Lex et virtus. Studi sull’evoluzione della dottrina morale di san Tommaso d’Aquino, Las, Roma 1983, 160-164.

  12. Il teologo della sinergia divino-umana è soprattutto San Massimo il Confessore. Al riguardo si veda l’accurato e profondo studio di L. Granados, La synergia en San Máximo el Confesor. El protagonismo del Espíritu Santo en la acciόn humana de Cristo y del cristiano, Cantagalli, Siena 2012.

  13. J. Ratzinger, “Il rinnovamento della teologia morale: prospettive del Vaticano II e di Veritatis splendor”, in L. Melina – J. Noriega (a cura di), Camminare nella luce. Prospettive della teologia morale a partire da Veritatis splendor, Lateran University Press, Roma 2004, 35-45.

  14. S. Pinckaers, Les sources de la morale chrétienne. Sa méthode, son contenu, son histoire, Cerf, Paris 1985; Plaidoyer pour la vertu, Parole et silence, Paris 2007.

  15. Per un’articolata sintesi teorica, rimando all’ultimo ponderoso studio di G. Abbà, Le virtù per la felicità. Ricerche di filosofia morale – 3, Las, Roma 2018.

  16. Summa Theologiae, I-II, q. 18, a.10.

  17. Cf. Rhonheimer, La prospettiva della morale, cit., 85-89.

  18. È decisivo lo studio di G.E.M. Anscombe, Intention, 2° ed., Basil Blackwell, Oxford 1963, § 22, 35.

  19. Rhonheimer, La prospettiva della morale, cit., 123-139.

  20. Per quanto segue si veda: J.J. Pèrez-Soba, La verità dell’amore. Una luce per camminare. Esperienza, metafisica e fondamento della morale, Cantagalli, Siena 2011.

  21. Cf. San Tommaso d’Aquino, De Malo, q. 1, a. 5: «bonum enim et malum dicitur simpliciter quidem secundum actum; secundum quid vero secundum potentiam». Si veda: J. De Finance, Être et agir dans la philosophie de Saint Thomas, 3° éd., PUG, 1965.

  22. C. Caffarra, “Primum quod cadit in apprehension practicae rationis” (I-II, q. 94, a. 2). Variazioni su un tema tomista, in AA.VV., Attualità della Teologia Morale. Punti fermi-problemi aperti. In onore del Rev. P. J. Visser, Cssr, “Studia Urbaniana” n. 31, Roma 1987, 143-164.

  23. Aristotele, Etica Nicomachea, I, 1, (1094a 1-3).

  24. San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 5, a. 1: «unumquodque est appetibile secundum quod est perfectum».

  25. J.P. Andre, Concupiscentia und temperantia: auf der Suche nach einem realistischen Bild christlicher moralischer Tugend mit Thomas von Aquin, Eos, Sankt Ottilien 2019.

  26. Gaudium et spes, n. 14, citato in Veritatis splendor, n. 48.

  27. Lo ha colto con genialità V. Soloviev, La justification du bien. Essai de philosophie morale, Aubier, Paris 1939.

  28. Cf. M. C. Nussbaum, Upheavals of Thought. The Intelligence of Emotions, Cambridge University Press, Cambridge MA 2001.

  29. Cf. Charles Taylor, The Ethics of Authenticity, Harvard University Press, Cambridge MA 1992.

  30. Molto istruttivo sul tema: Th. Dixon, From Passions to Emotions. The Creation of a Secular Psychological Category, Cambridge University Press, Cambridge UK 2005.

  31. Cf. F. Botturi, “Etica degli affetti?”, in F. Botturi – C. Vigna, Affetti e legami, Vita e pensiero, Milano 2004, 37-64.

  32. Cf. H.U. von Balthasar, “Nove tesi sull’etica cristiana” I, 1, in Commissione Teologica Internazionale, Documenta – Documenti (1969-1985), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1988, 72-74.

  33. Cf. Pérez-Soba, La verità dell’amore, cit., 48-53.

  34. Cf. R. Ingarden, Sulla responsabilità, Cseo, Bologna 1982.

  35. Summa Theologiae, I-II, q. 57, a. 5, ad 3um: «verum intellectus pratici aliter accipitur quam verum intellectus speculativi, ut dicitur in VI Ethic. 2,3. Nam verum intellectus speculativi accipitur per conformitatem intellectus ad rem. (…) Verum autem intellectus practici accipitur per conformitatem ad appetitum rectum». Al riguardo: L. Melina, La conoscenza morale. Linee di riflessione sul comment di san Tommaso all’Etica NIcomachea, Città Nuova, Roma 1987.

  36. Sententia Libri Ethicorum, III, 10, 89-90; cf. Melina, La conoscenza morale, cit. 11-114.

  37. Cf. Wojtyła, Persona e atto, cit., 161-174.

  38. Summa Theologiae, I-II, q. 28, a. 4, ad 2um; III,, q. 18, a. 5, ad 2um; si veda: D.M. Gallagher, “Person and Ethics in Thomas Aquinas”, in Acta Philosophica 4/1 (1995), 51-71.

  39. Cf. J.J. Pérez-Soba – L. Granados (a cura di), Il logos dell’agape. Amore e ragione come principi dell’agire, Cantagalli, Siena 2008; Pérez-Soba, La verità dell’amore, cit., 86-87.

  40. H.G. Frankfurt, The Reasons of Love, Princeton University Press, Princeton NJ 2004.

  41. San Gregorio Magno, XL Homiliarum in Evangelio libri duo, 2, h. 27, 4 (CCL 141, 232): «amata iam novimus, quia amor ipse notitia est».

  42. Cf. J.J. Pérez-Soba, La pregunta por la persona, la respuesta de la interpersonalidad. Estudio de una categoria personalista, Facultad de Teologìa San Damaso; Madrid 2004. Il riferimento privilegiato è a M. Nédoncelle, Vers une philosophie de l’amour et de la personne, Aubier-Montaigne, Paris 1957.

  43. San Tommaso d’Aquino, Summa contra gentiles, l. 1, c. 91 (n. 760): «affectus amantis sit quodammodo unitus amato, tendit appetitus in perfectionem unionis, ut scilicet unio quae iam inchoata est in affectu, compleatur in actu».

  44. In corrispondenza con l’approccio qui illustrato, si articola su una scansione trinitaria e sulla triplice distinzione di livelli dell’interpersonalità dell’amore, il trattato di teologia morale che abbiamo elaborato: L. Melina – J. Noriega – J.J: Pèrez-Soba, Camminare nella luce dell’amore. I fondamenti della morale cristiana, 3° edizione, Cantagalli, Siena 2017.

  45. Contra Gentiles, III, 90 (Marietti, n. 2657): «in hoc precipue consistit amor, quod amans amato bonum velit».

  46. Benedetto XVI, Enc. Deus caritas est, n. 1.

  47. Summa Theologiae, I-II, q. 25, a. 2. Si veda: “«Amor praecedit desiderium». Razionalità pratica e relazioni nella visione tomista dell’esperienza etica”, in P. Gomarasca – P. Monti – G. Samek Lodovici (a cura di), Critica della ragione generativa, Post-fazione di F. Botturi, Vita e pensiero, Milano 2017, 83-96.

  48. Giovanni Paolo II, Enc. Redemptor hominis, n. 10.

  49. Sant’Agostino, Sermones 174, 4, 4.

  50. Sant’Agostino, In Iohannis Evangelium Tract., 82, 3 (CCL 36, 533).

  51. Cf. L. Melina, Il discernimento nella morale coniugale, Cantagalli, Siena 2019, 129-162; si vedano anche i fondamentali studi di filosofia morale di A. MacIntyre, After Virtue, cit. e di G. Abbà, Quale impostazione per la filosofia morale? Ricerche di filosofia morale 1, Las, Roma 1995.

  52. Cf. ad esempio: Dt 30; per una sintesi di teologia biblica sulla legge: P. Beauchamp, La loi de Dieu, Seuil, Paris 1999 ; C. Granados García, El camino de la ley. Del Antiguo al Nuevo Testamento, Sígueme, Salamanca 2011.

  53. Summa Theologiae, I-II, q. 91, a. 2, citato al n. 42 dell’enciclica Veritatis splendor. Per una recente visione complessiva della dottrina tomista sulla legge: G.M. Carbone, Morale della legge. La legge senza timore, ESD, Bologna 2020.

  54. Guglielmo di Ockham, Quaestiones in librum secundum Sententiarum, q. 4 e 5, H: St. Bonaventure University, St. Bonaventure NY 1981.

  55. Cf. A. Poppi, “Il problema dell’intrinsece malum in Guglielmo d’Ockham”, in Studi sull’etica della prima scuola francescana, Centro Studi Antoniani, Padova 1996, 123-143.

  56. Questa tesi, sostenuta da Juan Caramuel y Lobkowitz, fu condannata dal Sant’Uffizio nel 1679: DH 2148-2149.

  57. Cf. G. Grisez, “Legalism, Moral Truth and Pastoral Practice”, in Th. Herron (ed.), The Catholic Priest as Moral Teacher and Guide, Proceedings of a Symposium Held at St. Charles Borromeo Seminary, Overbrook, Pennsylvania – January 17-20, 1990, Ignatius Press, San Francisco CA 1990, 97-113.

  58. Cf. S. Pinckaers, « La vertu est toute autre chose qu’une habitude », in Nouvelle Revue Théologique 82/4 (1960), 387-403.

  59. Cf. A. Rodriguez Luño, La scelta etica. Il rapporto tra libertà e virtù, Ares, Milano 1988.

  60. Veritatis splendor, n. 48, che cita Gaudium et spes, n. 14.

  61. In merito: E. Schockenhoff, Bonum hominis. Die anthropologischen und theologischen Grundlagen der Tugendethik des Thomas von Aquin, Grünewald , Mainz 1987.

  62. È la posizione di Ph. Foot, Virtues and Vices and Other Essays in Moral Philosophy, B. Blackwell, Oxford 1981.

  63. Cf. J.F. Keenan, Virtues for ordinary Christians, Sheed and Ward, Kansas City, MO 1996.

  64. Summa Theologiae, I-II, q. 56, a.3, ad 1. Cf. D. Granada Cañada, El alma de toda virtud, “Virtus dependet aliqualiter ab amore”: una relectura de la relaciόn amor y virtud en Santo Tomás, Cantagalli, Siena 2016.

  65. Cf. J.M. Pero-Sanz Elorz, El conocimiento por connaturalidad. La afectividad en la gnoseología tomista, Universidad de Navarra, Pamplona 1964; R. T. Caldera, Le jugement par inclination chez saint Thomas d’Aquin, Vrin, Paris 1980.

  66. Summa Theologiae, I-II, q. 62, a. 4: «Sic enim caritas est mater omnium virtutum et radix, inquantum est omnium virtutum forma»; II-II, q. 23, a. 8. Cf. J. Noriega, “Guiados por el Espiritu” El Espiritu Santo y el conocimiento moral en Tomás de Aquino, Pul-Mursia, Roma 2000.

  67. Summa Theologiae, II-II, q. 24, a. 12; Enc. Veritatis splendor, n. 67; J. Finnis, Moral Absolutes. Tradition, Revision, and Truth, The Catholic University of America Press, Washington DC 1991.

  68. SummaTheologiae, II-II, q. 23, a.1.

  69. Summa Theologiae, I-II, q. 106, a. 1. Cf. E. Biser, Der Freund. Annäherung an Jesus, Piper, München 1989.

  70. Summa Theologiae, I-II, q. 5, a. 5.


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Livio Melina

Livio Melina

Livio Melina è Teologo Moralista. Già Ordinario di Teologia morale (dal 1996 al 2019) presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia a Roma, di cui fu Preside dal 2006 al 2016. Vi ha fondato e diretto l’Area Internazionale di Ricerca in Teologia morale. Membro ordinario della Pontificia Accademia di Teologia, è stato Direttore scientifico della rivista "Anthropotes" e visiting Professor a Washington DC e a Melbourne. Ha tenuto e tiene corsi e conferenze in varie Università internazionali.

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