Maternità surrogata e desiderio del figlio – a mo’ di prefazione

Stephan Kampowski

Prefazione al libro di Enzo Vitale, «Dammi dei figli, se no io ne muoio» (Gn 30,1). Dal desiderio di maternità alla maternità surrogata, Tau Editrice, Todi 2022, 15-22.

Mater semper certa est. Al contrario del padre, la madre è sempre certa. A causa del progresso tecnologico, questo vecchio adagio romano ha perso qualcosa della sua ovvietà. È vero, anche con il sorgere delle tecnologie riproduttive artificiali, non ci sono dubbi sull’identità della donna che dà alla luce un bambino. Ciò che è messo in discussione, tuttavia, è la definizione stessa di maternità. Soprattutto con l’avvento della maternità surrogata, si devono ora distinguere diversi aspetti della maternità che un tempo erano necessariamente uniti. C’è per esempio la figura dei committenti, che possono essere una coppia (di sesso opposto o dello stesso sesso) o single di ciascun sesso: committenti sono definiti coloro che desiderando un figlio contattano una donna che porti avanti una gravidanza per loro conto. Se la persona che commissiona è essa stessa una donna (con o senza partner), allora si parla di madre committente. C’è poi, in secondo luogo, la madre genetica, che può essere o meno identica alla madre committente. È la donna che fornisce gli ovociti da fecondare. Poi c’è la madre gestazionale o di nascita nel cui grembo viene impiantato l’embrione, generato in vitro, e che porta a termine la gravidanza per conto della madre committente, gratuitamente o per un compenso monetario. Infine, c’è la madre sociale, che può essere o meno la madre committente. Quest’ultima, infatti, può rivendicare un diritto di recesso se il bambino non corrisponde alle sue aspettative, cosicché la donna che effettivamente si occupa della crescita del bambino può essere ancora un’altra persona.

Per rispondere alla domanda apparentemente semplice: “Chi è mia madre?”, oggi alcuni possono trovarsi nella situazione di dover nominare fino a quattro donne diverse, o forse anche cinque se l’ovocita originale è stato geneticamente ricombinato. La domanda sulla propria origine si complica, fino a diventare quasi assurda e senza risposta. La storia ha sempre conosciuto padri instabili ed elusivi. Fino a poco tempo fa, perlomeno la madre è stata un rifugio di sicurezza, una figura di accettazione incondizionata, una garanzia di amore nei limiti della condizione umana. Che effetto avrà sugli esseri umani se diventeranno incapaci di dire con sensata chiarezza chi è la propria madre? Potremmo forse avvicinarci a una società in cui la stessa parola “madre” inizierà a perdere il suo significato?

Mater semper certa est. C’è un senso in cui questo detto vale ancora oggi. Per la giurisprudenza italiana, in ogni caso, la maternità è ancora definita senza alcuna ambiguità: la madre è la donna che partorisce. Questa definizione sembra essere di buon senso e di profonda saggezza. Come sottolinea P. Enzo Vitale nelle pagine che seguono, c’è un’intensa comunicazione tra la madre e il bambino nel suo grembo. Allo stadio embrionale, c’è un’intensa comunicazione a livello ormonale, che assume forme aggiuntive e ancora più ricche man mano che il bambino cresce e diventa un feto, sentendo la voce della madre – e del padre –, acquisendo i gusti della madre e ricevendo da lei la flora intestinale di batteri simbiotici. C’è una vita segreta di embrioni e feti di cui la scienza moderna sta diventando sempre più consapevole. La relazione madre-figlio inizia al momento del concepimento o, nel caso della fecondazione in vitro, al momento dell’impianto. C’è poco da meravigliarsi, quindi, dell’evento, riferito dall’autore, di un bambino che piange e urla per un anno intero senza interruzione dopo essere stato strappato dal seno di sua madre subito dopo la nascita e consegnato ai suoi committenti, che gli erano completamente estranei. C’è molto da meravigliarsi, invece, della legislazione civile che in alcuni paesi permette ancora, o almeno tollera, tali pratiche inumane.

Mater semper certa est. Chi è mia madre? Secondo la logica inerente alla pratica della maternità surrogata, la “vera” madre, se esiste, è la madre committente, quella che desidera il bambino e il cui desiderio è il principio movente di tutto ciò che segue. È pertanto una scelta felice quella di P. Vitale di centrare il suo confronto con la maternità surrogata sulla questione del desiderio motivante. Non manca di evidenziare le molte ingiustizie che si commettono nei confronti del bambino, che viene oggettivato, e della madre gestazionale, che, almeno nel caso dei servizi a pagamento, viene sfruttata. Il suo argomento principale, tuttavia, è che il desiderio che muove una donna di commissionare una gravidanza ad un’altra donna non trova il suo compimento in questa prassi.

Il desiderio di maternità e il desiderio di un figlio (due desideri che sotto certi aspetti possono e devono essere distinti) sono buoni e – se correttamente intesi – “sacrosanti”. In mancanza della capacità – o della volontà – di concepire un figlio, di portarlo in grembo e di partorirlo in prima persona, una madre committente si rivolge allora ad un’altra donna perché porti a termine un figlio per conto suo, in modo analogo alla figura biblica di Rachele, che chiedendo al marito di mettere incinta la sua serva Bila potesse diventare madre attraverso di lei. Eppure, reclutare una madre surrogata è un’azione che non è in grado di realizzare questo desiderio. C’è qualcosa nel concepimento, nella gestazione e nel parto che non può essere sostituito. Il concepimento, la gestazione e il parto sono le basi esperienziali corporee delle virtù che definiscono l’esperienza personale della maternità: le virtù di accogliere, nutrire e lasciare andare. Sono queste le esperienze in carne ed ossa che permettono poi alla donna di parlare di suo figlio e di sua maternità. Deve per forza fallire il tentativo di sostituire queste esperienze con un semplice atto di volontà che stipula un contratto o con la semplice messa a disposizione del proprio materiale genetico: il desiderio di un figlio e il desiderio di maternità rimangono inappagate.

Nel corso della sua argomentazione, P. Vitale si chiede se incaricare una madre surrogata di portare a termine il proprio figlio non sia simile all’adozione. Anche nel caso dell’adozione mancano le esperienze del concepimento, della gestazione e del parto. C’è però un riconoscimento generale del fatto che l’adozione sia una pratica lodevole e che i genitori adottivi sono veri genitori. Questa discussione è estremamente importante, anche perché l’autore chiarisce e qualifica la sua precedente affermazione sul fatto che il desiderio di maternità sia “sacrosanto”. Infatti, perché l’adozione sia veramente virtuosa e un autentico atto di amore, essa deve essere motivata dal desiderio di dare una famiglia a chi non ne ha[1]. Essa è la soluzione del problema: un bambino senza famiglia. Non deve essere motivata – almeno non principalmente – dal desiderio di una coppia senza figli o di una persona single di ottenere un figlio. L’adozione non deve essere la soluzione al problema: coppia o single senza figlio. La ragione è la seguente. Attingendo alla preziosissima analisi del filosofo francese Marcel Gauchet[2], Vitale dimostra che il desiderio di un figlio, per quanto naturale e spontaneo possa essere, può facilmente deformarsi in un atteggiamento velenoso per il rapporto tra genitori e figlio. Il desiderio genitoriale, che nella maggior parte dei casi significa il desiderio materno, non deve diventare il principio dell’essere del bambino. Altrimenti il bambino viene strumentalizzato: esiste per soddisfare i desideri dei genitori.

Per essere rispettato nella sua dignità, il bambino deve essere amato e voluto per sé stesso e non in funzione dei desideri di qualcun altro. Come sottolinea Alasdair MacIntyre, la storia e la letteratura occidentale forniscono abbondanti esempi del Padre Cattivo e della Madre Cattiva. La loro cattiveria, secondo lui, risiede nel “nell’esigere che il figlio dia quanto non deve”[3], rendendo così il loro amore condizionato: “Ti amo, se…” – se sei bello, sano, dotato, un ragazzo, una ragazza, un erede che porta avanti i miei affari, un vincitore di un premio Nobel… Il buon genitore, al contrario, è quello che dice: “Ti amo, punto…” – incondizionatamente, semplicemente perché sei mio figlio o mia figlia, anche se non sei bello, sano, dotato…[4] La gestione delle proprie aspettative è un esercizio chiave per essere buoni genitori[5].

Secondo Gauchet, il figlio del desiderio è una vera rivoluzione antropologica. Anche se questo fenomeno non si limita alla pratica della procreazione artificiale, il bambino concepito con mezzi artificiali ne è l’epitome e la maternità surrogata lo conduce alla massima espressione: il principio dell’essere del bambino è il desiderio dei genitori, al quale sono legate aspettative ben precise. Anche l’adozione potrebbe prestarsi ad essere motivata da un simile atteggiamento: vogliamo/voglio adottare un figlio per soddisfare una sete, per riempire un vuoto. Qui, infatti, si può vedere una somiglianza tra la pratica della maternità surrogata e quella dell’adozione, ma all’adozione andata male, mossa da motivazioni sbagliate.

La commissione di una madre surrogata è diversa dall’adozione, tuttavia, in almeno due maniere essenziali. In primo luogo bisogna notare il fatto che i committenti stessi considerano chiaramente la maternità surrogata come una cosa diversa dall’adozione. Se ritenessero uguali le due pratiche, allora non affronterebbero tutta la fatica implicata nella prima. Di solito vedono la differenza fondamentale qui: non vogliono avere un bambino qualsiasi che poi diventi loro figlio attraverso l’atto legale dell’adozione, ma vogliono un bambino che sia loro figlio fin dall’inizio. Considerano il bambino loro figlio nella misura in cui forniscono il materiale genetico (l’ovocita e/o gli spermatozoi) o almeno nella misura in cui sono loro a iniziare la procedura e a stipulare il contratto. L’idea è che un bambino che deve la sua esistenza alla volontà dei committenti e che forse ha anche ricevuto i loro geni è più figlio loro che non un bambino adottato. Questo sembra essere il motivo per cui si sceglie la maternità surrogata invece dell’adozione.

Si può naturalmente contestare quest’ultima ipotesi e dire che sotto l’aspetto di avere un figlio proprio, la maternità surrogata è molto più simile all’adozione di quanto non ammettono i committenti. La maternità surrogata e l’adozione hanno in comune il fatto che mancano le esperienze corporee del concepimento, della gestazione e del parto. Quest’ultime creano un forte legame tra madre e figlio. Formano la base esperienziale corporea che permette alla donna di parlare del figlio proprio: è il suo figlio perché l’ha concepito, portato in grembo e partorito. Evidentemente, la volontà di generare un figlio ed eventualmente il fatto di condividerne i geni sono anch’essi motivi per rivendicare il figlio come proprio, ma non sono sperimentati nel corpo. È un approccio alla generazione umana piuttosto gnostico per una donna parlare di suo figlio semplicemente perché ha commissionato il bambino e perché, forse, ha apportato del materiale genetico, sostenendo che questi fatti sono più importanti del concepimento, della gestazione e del parto.

Il secondo senso in cui la maternità surrogata è diversa dall’adozione è probabilmente quello più fondamentale e importante, anche se i committenti di solito non lo prendono in considerazione. P. Vitale è molto chiaro su questo punto. Si adotta un bambino che non ha famiglia. Ora le ragioni per cui un bambino non ha famiglia si trovano di solito in alcuni eventi tragici. Il padre ha abbandonato la madre quando ha saputo che era incinta e lei è morta durante il parto. I genitori sono morti in un incidente stradale, in una pandemia, in una guerra. Una giovane madre ritiene, a torto o a ragione, di non essere in grado di crescere il bambino e, rifiutando la tentazione di porre fine alla nuova vita quando è ancora nel suo grembo, affida il figlio che verrà alla luce alle cure di altri. Si tratta di eventi tragici e a volte traumatici che causano grandi sofferenze. E infatti la vita è spesso tragica e a volte traumatica. I genitori adottivi vengono poi a donare una casa al bambino che non ne ha, offrendogli accoglienza e amore incondizionato che gli permette di guarire, di crescere e di prosperare. La maternità surrogata è molto diversa. Qui l’evento traumatico, la separazione violenta, subito dopo la nascita, del bambino dalla donna che lo ha messo al mondo, faceva parte del progetto fin dall’inizio. I committenti sono come genitori adottivi che causano essi stessi il dramma che rende necessaria l’adozione. È questo che fanno i committenti. Ma è anche quello che vogliono veramente?

P. Vitale chiude le sue riflessioni con un suggestivo estratto da La storia infinita di Michael Ende. Il regno di Fantasìa è minacciato dal sinistro “Nulla” che divora e distrugge tutto ciò che gli viene incontro. La sua forza sta nella morte del desiderio. L’antidoto è il “vero desiderio”. Per resistere all’assalto del Nulla, gli abitanti di Fantasìa devono sapere cosa vogliono veramente. Non basta un desiderio qualsiasi, ma solo il desiderio che corrisponde a ciò che amano in verità. Così, per rispondere alla sfida posta dalla maternità surrogata, Vitale, dopo un’attenta analisi delle poste in gioco antropologiche ed etiche, propone, infine, un’ermeneutica del desiderio: “[Occorre] andare al fondo di un desiderio, di ogni desiderio, per comprenderlo. I desideri non si possono spegnere e non si devono annullare, ma vanno compresi in profondità. E solo chi è capace di fare questo viaggio in sé stesso ne comprenderà il valore”[6]. È perciò con grande piacere che raccomando quest’opera al lettore, incoraggiandolo a lasciarsi sfidare dalla domanda fondamentale del libro: cos’è che desideriamo quando desideriamo un figlio?

  1. Cfr. Francesco, Lettera apostolica post-sinodale Amoris laetitia, 19 marzo 2016, n. 179: “Adottare è l’atto d’amore di donare una famiglia a chi non l’ha”.

  2. Cfr. M. Gauchet, Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica, Vita e Pensiero, Milano 2010.

  3. Cfr. A. MacIntyre, Animali razionali dipendenti. Perché gli uomini hanno bisogno delle virtù, Vita e Pensiero, Milano 2001, 103.

  4. Cfr. MacIntyre, Animali razionali dipendenti, cit., 88: “Se i genitori, le madri specialmente, vogliono offrire ai figli la sicurezza e il riconoscimento di cui essi hanno bisogno, devono fare di questo bambino l’oggetto della loro cura continuata e del loro impegno, proprio perché si tratta del loro bambino, per il quale e del quale essi sono responsabili in maniera del tutto peculiare. […] Il loro impegno iniziale non deve porre condizioni in alcuni aspetti”.

  5. Cfr. M. Junker-Kenny, “Genetic Enhancement as Care or as Domination? The Ethics of Asymmetrical Relationships in the Upbringing of Children”, in Journal of Philosophy of Education 39 (2005), 12: “Gli adulti che accompagnano la ‘nascita sociale’ dei figli devono percorrere l’arduo crinale fra rispetto per la loro differenza e rispetto per la loro dipendenza. In entrambi, devono poter distinguere fra i propri desideri e speranze e la realtà dell’altro. L’ingiunzione biblica: ‘Non ti farai immagine alcuna di me’ (cfr. Es 20) è emblematica di questo atteggiamento. Per lo scrittore svizzero Max Frisch, farsi un’immagine dell’altro e vincolarlo ad essa è ‘il tradimento supremo’. Sembra che la principale qualità pedagogica sia il saper controllare le proprie proiezioni” (traduzione propria).

  6. E. Vitale, «Dammi dei figli, se no io ne muoio» (Gn 30,1). Dal desiderio di maternità alla maternità surrogata, prefazione di S. Kampowski, Tau Editrice, Todi 2022, 113.

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Stephan Kampowski

Stephan Kampowski

Stephan Kampowski è professore ordinario di Antropologia Filosofica presso il Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II a Roma. Dal 2012 è anche professore invitato presso la Facoltà di Filosofia della Pontificia Università di San Tommaso (Angelicum), Roma.

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Il Veritas Amoris Project mette al centro la verità dell’amore come chiave di comprensione del mistero di Dio, dell’uomo e del mondo e come approccio pastorale integrale e fecondo.

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