Recensione: Ryan T. Anderson, When Harry Became Sally. Responding to the Transgender Moment, Encounter Books, New York 2018.

Luigi Zucaro

Ma è vero che un ragazzo può essere “intrappolato” nel corpo di una ragazza? Può un uomo diventare realmente una donna e viceversa? La medicina contemporanea è realmente in grado di “riassegnare” il sesso? E poi, cosa vuol dire “riassegnare” il sesso? E ammesso che sia possibile manipolare a piacimento la dimensione sessuale di una persona, è un diritto civile che dev’essere garantito e tutelato?

Queste sono solo alcune delle domande cruciali prese in esame dal dott. Ryan Anderson nel suo ultimo libro When Harry Became Sally: Responding to the Transgender Moment.

Ryan T. Anderson è un filosofo statunitense attualmente Presidente del Ethics and Public Policy Center in Washington DC ed è stato il primo capo redattore della rivista on-line Public Discourse del Witherspoon Institute. Si è formato all’Università di Princeton e all’Università di Notre Dame dove ha conseguito il dottorato in Filosofia Politica.

Nel 2018 ha scritto When Harry Became Sally: Responding to the Transgender Moment. Il libro risente fortemente del pensiero di Paul R. McHugh, direttore del Department of Psychiatry and Behavioral Science presso la Johns Hopkins University e Psychiatrist-in-chief al Johns Hopkins Hospital dal ’75 al 2001.

When Harry became Sally è stato ai vertici della Amazon bestsellers list.

Anderson manifesta una profonda conoscenza del mondo culturale politico del suo paese; anche le nozioni di tipo medico sono precise, tenuto conto che l’autore non è un professionista della sanità. Bisogna riconoscere da questi aspetti del testo che l’autore si è documentato con rigore e passione.

Riguardo al tono del volume, tutt’altro che aggressivo, è invece molto pacato e rispettoso per le sofferenze di chi vive queste esperienze. Il dott. Anderson tiene a precisare la distinzione tra attivisti transgender e persone che soffrono di disforia di genere, non volendo in alcun modo ledere la sensibilità di questi ultimi.

Perché si parla di “transgender moment”? Anderson usa questa espressione, che sa volutamente di precario e passeggero, perché convinto della transitorietà di questo frangente culturale. Secondo il filosofo si tratta di una fase momentanea, non di un cambiamento culturale stabile, in quanto le sue radici antropologiche sono artificiose, non corrispondenti alla realtà umana.

Anderson inizia con l’analizzare dettagliatamente i segni di questo momento transgender in tre ambiti, quello culturale, quello della giurisprudenza e quello della medicina.

Negli ultimi tempi, nella cultura popolare americana, la tendenza molto chiara nelle riviste, nelle televisioni, nel mondo della rete, è quella – per così dire – di “normalizzare” le idee di fondo della cultura transgender. La prima e più importante di queste è che il genere sia soltanto un fatto interiore, che non ha a che vedere con il sesso biologico, anzi che quest’ultimo sia solo un dato accessorio, che di conseguenza non deve giocare un ruolo determinante nell’identità della persona.

Nel 2014 la famosa rivista “Glamour” affermava che l’identità di genere vive soprattutto nel nostro cuore e nella nostra mente[1].

Contemporaneamente anche nel mondo delle politiche sociali si sono compiuti passi importanti nella stessa direzione. A partire dal 2016, ad esempio, nella normativa che riguarda la scuola pubblica hanno cominciato a comparire indicazioni, linee guida, raccomandazioni non più basate sulla differenza di sesso biologico, ma sull’identità di genere; per esempio l’organizzazione dei bagni, o indicazioni rispetto alla distribuzione in camere multiple alle gite o nei convitti. Anche nell’esercito, lo scenario sta volgendo a favore della ideologia trangender, fino anche a sostenere economicamente interventi di riassegnazione di genere per il proprio personale.

Sempre nel 2016 il famoso “Obamacare”, la revisione del servizio sanitario nazionale, che come sappiamo in America non è certamente “assistenzialista”, e in più stava (e sta tuttora) attraversando un periodo di crisi economica, prevedeva la copertura economica di interventi di riassegnazione di genere.

Come mai? Uno potrebbe chiedersi. In un momento in cui scarseggiano le risorse da destinare alla sanità, ci si aspetterebbe che esse vengano destinate a ciò che è indispensabile, salva-vita. Ma se la transizione di genere viene proposta come unico rimedio all’alto rischio di suicidio della persona che è “intrappolata” in un corpo del sesso in cui non si riconosce, ecco che anche gli interventi di transizione diventano salva-vita.

Un ampio spazio del libro è dedicato ai passi compiuti nel mondo della medicina americana. Ryan Anderson racconta in modo interessante e coinvolgente la storia e i vari rovesciamenti di fronte rispetto alla riassegnazione di genere presso la prestigiosa Johns Hopkins University. La storia comincia negli anni sessanta per il deciso impulso di John Money, professore di psicologia clinica presso quella università. Money proponeva una nozione radicale di “genere” come puro costrutto sociale svincolato da ogni riferimento al sesso anatomico e biologico. Money è il protagonista di una famosa vicenda che riguarda la riassegnazione al sesso femminile di un bambino menomato a causa di una circoncisione riuscita male[2]. Money promosse la sua idea di genere fluido in tutti gli Stati dell’Unione e fondò nel ’65 la “Johns Hopkins Gender Identity Clinic

Quando il prof McHugh venne promosso responsabile del Dipartimento di Psichiatria, convinto che il cosiddetto “transgender-affirming treatment” fosse una direzione errata che la psichiatria aveva imboccato, ottenne che in questa importante università non si praticassero più interventi di riassegnazione di genere. Tale il rigore scientifico introdotto da McHugh nel campo, che nessuno ebbe argomenti validi per ribaltare di nuovo la tendenza per molti anni. Egli sosteneva infatti che la chirurgia per il cambiamento di sesso fosse cattiva medicina e una sorta di cooperazione con una infermità mentale[3]. La Johns Hopkins University ha ripreso ad eseguire procedure di sex-reassignment solo nel 2016.

Nel capitolo 2, intitolato “What the activists say” (cosa dicono gli attivisti) l’autore si addentra in un tema estremamente interessante ovvero la visione della persona umana che sta alla base del “momento transgender” che stiamo vivendo. Afferma Anderson: “Si dice che viviamo in un’era postmoderna che ha rigettato la metafisica. Non è vero. Viviamo in un’epoca postmoderna che promuove una metafisica alternativa”[4]. Il concetto fondamentale è che “uno è quello che vuole essere”, nello specifico, una persona è il genere che preferisce essere, e questa è senz’altro una affermazione di carattere metafisico e antropologico.

Gli attivisti transgender non l’hanno sempre pensata così: se prima un ragazzo transgender era ritenuto comunque una ragazza che si identificava come un ragazzo, o una ragazza transgender era ritenuta un ragazzo che si indentificava come una ragazza, oggi quello che si pretende sia riconosciuto è che una persona è effettivamente maschio o femmina sulla base di quello che desidera essere.

Questa concezione della persona è quella che sta dietro le nuove definizioni di identità di genere come ad esempio quella della American Psychological Association: “a person’s inner sense of being male, female, or somethhing else[5] (una sensazione interiore di essere maschio, femmina o qualcos’altro). Si tratta di una definizione molto vaga, non limitata alle due opzioni maschio/femmina e senza alcun riferimento a determinanti biologici oggettivi. Questa definizione emerge non solo da una certa concezione della medicina, ma ancor più profondamente da una visione della persona umana.

Questa stessa evoluzione traspare anche dai diversi programmi educativi che sono promossi oggi negli Stati Uniti dai gruppi di attivisti. Se prima infatti, tra i vari elementi che compongono la dimensione sessuale della persona compariva il “sesso biologico”, ora questo elemento è scomparso ed è stato sostituito da “sesso assegnato alla nascita”, che evidentemente suona come qualcosa di molto più labile e arbitrario.

L’autore prosegue descrivendo gli elementi fondamentali della medicina transgender con i suoi ormai consolidati standards di cura. Il processo di transizione prevede diversi steps:

  • il cambiamento di ruolo sociale, in concordanza con l’identità di genere (secondo la suddetta definizione)
  • i farmaci bloccanti della pubertà
  • terapia ormonale per femminilizzare o mascolinizzare il corpo
  • la chirurgia per adattare i caratteri sessuali primari o secondari

In breve i concetti chiave di questa medicina sono:

  • alleviare il distress supportando l’espressione del genere della persona.
  • adeguamento del corpo all’identità percepita
  • la transizione di genere è l’unico modo per prevenire il suicidio
  • le terapie cosiddette “riparative” (ovvero che hanno come scopo risolvere la disforia di genere) sono anti-etiche.

L’analisi continua esaminando tutte le iniziative pubbliche su questo tema: linee guida in ambito scolastico, politiche del lavoro, politiche economiche, praticamente in ogni ambito della vita sociale del paese. Un esempio rappresentativo: nello stato di New York si può essere multati fino a un quarto di milione di dollari per un “mis-gendering” intenzionale (ovvero, rivolgersi a un transgender usando volutamente un pronome del sesso che non è quello con cui la persona vuole essere chiamata). Per la stessa ragione nello stato della California l’operatore sanitario può anche essere punito con la detenzione.

Il capitolo si conclude mettendo in evidenza le contraddizioni nelle quali cade la proposta antropologica dell’attivismo transgender, l’autore prova a sottolinearne alcune, ad esempio: se da un lato si afferma che l’identità di genere sia qualcosa di innato e immodificabile (infatti si rifiuta ogni tentativo di correggere la disforia di genere) come mai poi si vuol difendere anche la libertà di essere qualsiasi cosa?

Allo stesso modo rimangono senza una risposta molte altre domande, ad esempio: se il genere è un costrutto sociale, come può essere innato e immutabile? Perché “sentirsi uomo” dovrebbe bastare per dire che uno è un uomo, quando altre sensazioni (l’età, l’altezza…) invece non bastano per determinare quella realtà?

In definitiva, afferma Anderson, “il nucleo dell’ideologia è la pretesa radicale che le sensazioni determinano la realtà”[6]. Rimane un problema irrisolto il perché una mera sensazione di essere maschio o femmina (o entrambi o nessuno dei due) dovrebbe far diventare uno maschio o femmina (o tutt’e due o nessuno dei due).

Il capitolo 3 è interamente dedicato al fenomeno dei “detransitioners” ovvero quelle persone che, dopo aver intrapreso un percorso di transizione di genere, desiderano poi ritornare indietro essendosi resi conto di aver commesso un errore. Si tratta di storie di grande sofferenza che l’autore tratta con molta delicatezza, ma che mettono in evidenza tutta la fallacia, la pericolosità, l’infondatezza scientifica di programmi medici che avviano alla transizione anche molto precocemente e senza sufficienti garanzie persone a volte chiaramente non in grado di prendere una decisione pienamente consapevole, o perché troppo giovani o perché non del tutto lucide.

Spesso quando viene chiesto a chi ha vissuto questa esperienza cosa ritenga sia mancato, in molti sottolineano la totale insufficienza del counselling psicologico ed una certa pressione a intraprendere senza indugi il percorso di transizione.

Le esperienze che Anderson riporta nel testo sono impressionanti e aiutano a vedere il problema sotto una prospettiva completamente diversa da quella offerta dai mass media politically correct, o da quella promossa dai gruppi di attivisti.

Ne riporto parte di una per tutte:

chi parla è Walt Heyer sottopostosi a transizione a circa quarant’anni e poi a “de-transizione” verso i cinquanta:

“Essere transgender richiese distruggere l’identità di Walt così che la mia persona femminile, Laura, potesse e non scossa dal passato di Walt con tutte le sue ferite, vergogna e abuso. È meraviglioso per un po’, non è una soluzione definitiva quando le questioni sottostanti non sono state affrontate”[7].

Dopo aver raccontato come si è approdati all’attuale situazione e dopo aver esaminato il fenomeno attuale, nel capitolo 4 Anderson tenta una analisi filosofica e antropologica della sessualità umana: cosa ci rende uomo o donna?

È evidente che il sesso, quando non ci siano patologie, non è una caratteristica che viene arbitrariamente assegnata alla nascita, bensì qualcosa che viene riconosciuto, spesso prima ancora della nascita. È il nostro codice genetico che determina il nostro sesso. Ma cos’è prima di tutto il sesso? Anderson tenta una definizione non medica ma filosofica: “Il sesso come status – maschio o femmina – è un riconoscimento dell’organizzazione di un corpo che ha la capacità di impegnarsi nel sesso come atto”[8]. Il sesso è prima di tutto un modo di essere organizzato del corpo che ha la capacità di intraprendere un rapporto sessuale. Per Anderson la distinzione fondamentale tra un maschio e una femmina è nell’organizzazione dell’organismo orientata alla riproduzione sessuale.

Ma non si tratta di una mera differenza anatomica o biologica, il punto cruciale è che questa organizzazione differente del corpo atta a consentire un rapporto sessuale finalizzato alla riproduzione costituisce un bene sociale, senza essere al tempo stesso un mero costrutto sociale. È questo per l’autore l’innegabile valore antropologico della differenza sessuale.

Nel resto del capitolo 4 Anderson si sofferma sul dato biologico della sessualità per mostrarne l’oggettivo e incontrovertibile valore. La differenza sessuale origina dai nostri cromosomi e si sviluppa durante tutto la vita embrionale fino all’età adulta in modo molto preciso.

A volte, è vero, esiste la possibilità di disturbi in questo sviluppo, ma quando si manifestano sono appunto riconosciuti e trattati come tali. Ma anche questo oggi viene messo in discussione, si vuol negare persino che condizioni cliniche evidentemente patologiche siano tali. Esistono oggi associazioni che allo scopo di “depatologizzare” queste forme, ne cambiano la nomenclatura. Così ciò che fino a poco tempo fa era definito “disordine”, sebbene senza alcuna intenzione di voler stigmatizzare il paziente, non può più essere chiamato così, deve essere chiamato “differenza”. È un atteggiamento coerente con l’attuale visione antropologia della cultura transgender: se il corpo non ha alcuna organizzazione sessuale in vista di un fine, non meramente biologico, ma della persona intera, se non c’è un ordine, non ha senso parlare di “disordine”. Siamo ancora all’interno di quel tentativo di “normalizzare” il transessualismo all’interno di ogni espressione della società.

Nel capitolo 5 l’autore affronta il tema molto delicato della terapia. Uno studio del 2014 ha evidenziato che il 41% delle persone che si identificano come transgender tenterà il suicidio in qualche momento della propria vita, contro il 4,6% della popolazione generale[9]. È evidente che questi soggetti vanno incontro a rischi per la salute fisica e mentale notevoli. È quindi un problema di cui la medicina e la psicologia devono occuparsi, ma il punto è: quale dovrebbe essere un approccio terapeutico in sintonia con una sana concezione di medicina, non distorta da ideologie?

Un’autentica pratica medica dovrebbe esser tesa a ripristinare la salute, non a soddisfare i desideri dei pazienti. Nel caso della disforia di genere invece, sembra che la soluzione sia “rifare il corpo” in base ai pensieri e alle sensazioni, piuttosto che aiutare il soggetto a trovare una via per governare questa tensione e ritrovare un’armonia con la propria realtà corporea.

Caso più unico che raro per la medicina contemporanea, nonostante siano insufficienti i dati presenti in letteratura circa le terapie ormonali cosiddette “cross-sex hormone terapy” (per ammissione della stessa società che tutela la salute delle persone transgender, la WPATH[10]), queste terapie sono consigliate ugualmente sia dalla WPATH e dalla Endocrine Society.

Per quanto riguarda la chirurgia invece, non bisogna nemmeno dimenticare che, per quanto la tecnica possa progredire, non potrà mai cambiare il sesso della persona. Un chirurgo non potrà mai creare un vero organo sessuale, ma soltanto un mero simulacro.

Ma quindi è proprio vero che la transizione di genere migliora la qualità di vita fisica e psicologica di chi soffre di disforia di genere? Alcuni dati sembrano metterlo in dubbio: il perdurare dei disturbi psicologici e l’alta percentuale di suicidi tra i transgender, anche a transizione avvenuta, e anche quando vivano in un contesto sociale “trans-friendly”.

Nel capitolo 6 si affronta lo spinoso problema della disforia di genere nei minorenni. Negli ultimi anni si è diffuso sempre più l’utilizzo di farmaci puberty blokers negli adolescenti prepubere con disturbi di identificazione sessuale. L’idea sarebbe quella di ritardare la pubertà per dare più tempo all’adolescente di “chiarirsi le idee” su cosa vuol’essere, se maschio o femmina (o tutti e due o nessuno dei due). Questi farmaci però, oltre che essere tutt’altro che sicuri, interferiscono anche con quei meccanismi di sviluppo che normalmente aiutano gli adolescenti ad accettare sé stessi come maschi o femmine, rivelandosi quindi spesso più che una soluzione, un ulteriore problema.

Avviandosi verso la fine dell’opera, l’autore si domanda quali siano state le condizioni sociali che hanno prodotto il terreno favorevole allo svilupparsi dell’attuale visione piuttosto confusa della sessualità umana. Un ruolo negativo lo hanno giocato certamente quegli stereotipi riguardo ai ruoli sessuali ancora largamente presenti oggi nelle società, anche in quella americana. Dalle testimonianze delle persone con disforia di genere all’origine del disturbo vi è spesso una particolare sensibilità verso questi stereotipi, il non riconoscersi affatto in essi, la violenza di cui si può esser fatti oggetto. Questa visione stereotipata del ruolo sessuale non ha generato solo danni a livello individuale, ma ha anche avuto conseguenze di più ampio respiro, nel senso di reazioni all’eccesso opposto nella cultura, nell’ordinamento giuridico e nella politica.

Alla fine Anderson prova a mettere in evidenza tutte le conseguenze negative che questa tendenza culturale ha già e può avere sempre più in tutti gli ambiti della vita, dalla sfera privata a quella pubblica: minacce per la sicurezza, possibili ingiustizie, per esempio in ambito sportivo, violazioni della libertà personale, messaggi confondenti nelle scuole sui bambini.

In conclusione, lungi dal voler incoraggiare allarmismi o, peggio ancora, nuove forme di razzismo, l’autore invita ad un senso di responsabilità. Non si tratta affatto di difendere i “normali” da una sorta di invasione di transgender. Al contrario, è chiaro dall’opera di Anderson, che le prime a dover essere tutelate sono le persone con disforia di genere. È necessario prima di tutto proteggere le persone da pratiche che di fatto sono sperimentali e ad alto rischio per la salute.

Di cosa c’è bisogno quindi? Secondo Anderson di networks tra medici, specialisti di salute mentale, chirurghi, endocrinologi non proni a visioni ideologiche, ma intellettualmente onesti, capaci di sfatare studi fasulli e farne di rigorosi.

Di grande impatto emotivo e incoraggiamento possono essere le testimonianze personali di persone con disforia di genere che l’hanno superata.

È necessario promuovere una sana comprensione del genere e mostrare le ragioni del perché il sesso corporeo è così importante e non può essere trascurato o modificato a piacimento.

Vanno coinvolti in questo movimento i leaders religiosi, questo è un tema che li riguarda e non devono sottrarsi alla cura pastorale di persone che combattono con la disforia di genere. Essi hanno anche la grande opportunità di insegnare alle persone affidate alla loro cura pastorale una più corretta visione della persona umana, uomo e donna.

Certamente non tutti saranno preparati a questo compito, e allora sarà necessario che qualcuno si impegni nella formazione degli educatori stessi, non solo leaders religiosi, ma insegnanti e gli stessi genitori.

Data l’alta conflittualità che inevitabilmente si genera e si genererà sempre più su questi temi, sono necessari giuristi, che si occupino di difendere legalmente i medici che cercano di praticare la buona medicina e intentare causa a quelli che invece incautamente praticano transizione di genere anche su minori. Di conseguenza sarà a volte necessario anche difendere i diritti di pazienti e dei loro genitori.

Infine è necessario anche che ci siano politici che sentano la responsabilità di impegnarsi ad attuare politiche sane in questo campo.

In definitiva, nessuno è escluso dall’invito che Ryan Anderson ci fa attraverso questo interessantissimo volume. Tutti dobbiamo assumere un atteggiamento critico nei confronti dei messaggi culturali che oggi vengono diffusi su ampia scala circa la sessualità, mettere in discussione soprattutto idee che spesso sono contraddittorie irragionevoli e carenti di basi scientifiche.

  1. Cfr A. Morris, “The advocate: Laverne Cox”, Glamour, November 2014.

  2. Cfr John Colapinto, As Nature Made Him: The Boy Who Was Raised as a Girl, Harper Collins, 2000.

  3. Cfr P. Mc Hugh, “Surgical Sex”, First Things, November 2004.

  4. Ryan T. Anderson, When Harry Became Sally. Responding to the Transgender Moment. Encounter Books, 2018. (la traduzione è mia)

  5. American Psychological Association: “Answers to your questions about transgender people, gender identity, and gender expression”.

  6. R. Anderson, When Harry became Sally, (cit.) p. 48 (la traduzione è mia)

  7. “Being transgender required destroying the identity of Walt so my female persona, Laura, would feel unshackled from Walt’s past, with all its hurt, shame, and abuse. It’s marvelous distraction for a while, but it isn’t a permanent solution when the underlying issues remain unaddressed” (la traduzione è mia). Tratto da Walt Heyer, “Transgender characters may win Emmys, but transgender people hurt themselves”, Federalist, Feb. 22, 2015.

  8. R. Anderson, When Harry became Sally, (cit.) p. 48: “Sex as a status – male or female – is a recognition of the organization of a body that has the ability to engage in sex as an act” (la traduzione è mia).

  9. Haas A. P., Rodgers P. L., Herman J., “Suicide Attempts AmongTransgender and Gender Non-conforming Adults: Findings of the National Transgender Discrimination Survey”, Williams Institute, UCLA School of Law, Jan 2014.

  10. World Professional Association for Transgender Healt, Standars of Care for the Healt of Transexual, Transgender and Gender Nonconforming People, 7th version (2011).

 

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Luigi Zucaro

Luigi Zucaro è medico, endocrinologo. È sacerdote dal 2009. Ha conseguito il dottorato in teologia presso l’Istituto Giovanni Paolo II a Roma, dedicato agli studi sul matrimonio e la famiglia. È responsabile della Funzione Bioetica dell’Ospedale Pediatrico “Bambino Gesù” a Roma.

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