Psicologia e grazia: quali vie per accompagnare la fragilità? In dialogo con Víctor Manuel Fernández

Raúl Sacristán López

Il rapporto tra psicologia e grazia è uno dei temi più trattati sia dalla psicologia che dalla teologia, soprattutto a partire dagli anni Sessanta. Ciò è dovuto all’ascesa della psicologia nel secolo scorso.

Alcuni dei più importanti psicologi del XX secolo si sono dedicati allo studio di tale relazione. Tra questi, ricordiamo Freud e James, considerati i “padri della psicologia moderna”, ma anche altri come Adler, Maslow, Allport[1] e altri meno noti come A. Vergote[2], un sacerdote belga che negli anni ‘60 ha cercato di sviluppare una psicologia della grazia.

Anche diversi psicologi hanno cercato di sviluppare una psicologia cattolica: Magda Arnold, Luigi M. Rulla e Paul C. Vitz. D’altra parte, filosofi e teologi hanno guardato a ciò che la Tradizione poteva offrire alla psicologia moderna come I. Andereggen o M. Echavarría. Di questi autori si parlerà in seguito.

Non sono mancati nemmeno i sacerdoti che hanno sviluppato una visione non sempre accademica, ma più incentrata sulla pratica pastorale. Con diverse tipologie e gradi di formazione, è possibile trovare autori come A. Cencini, M. Szentmártony, F. del Valle, e molti altri che non elencheremo qui per non annoiare il lettore. In quest’ultimo elenco rientrerebbe anche l’opera di Víctor Manuel Fernández, nominato da Papa Francesco Prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede nel settembre 2023.

L’obiettivo di questo articolo è offrire uno studio della proposta di Fernández sul rapporto tra psicologia e grazia e, successivamente, proporre delle linee guida per approfondire tale rapporto. L’analisi di Fernández si concentra su una delle sue opere, Teología espiritual encarna[3], in cui l’autore analizza il rapporto tra grazia e malattia mentale. Tuttavia, ci baseremo anche su un’opera precedente, La gracia y la vida entera[4], perché l’autore stesso la cita nell’opera principale.

 

1. La struttura di Teología espiritual encarnada

Il libro di Fernández è strutturato in tre parti. La prima parte analizza il rapporto tra spiritualità e azione, la seconda si occupa di spiritualità e cultura e la terza riflette sulle varie espressioni concrete della spiritualità nell’azione. Da ciò emergono diversi aspetti che l’autore stesso affronta nella presentazione e nell’introduzione del libro. Si tratta dell’idea di spiritualità che l’autore propone, nonché dell’azione e della cultura come asse portante dell’opera.

A proposito della spiritualità, l’autore afferma nella presentazione che nel corso della storia la Chiesa ha dato la prevalenza alla forma monastica di spiritualità. Secondo Fernández, questa forma, sebbene molto ricca, non può essere trapiantata negli altri stati di vita della Chiesa. “Così, la spiritualità degli operatori pastorali, sacerdoti diocesani, missionari o laici nel mondo, è stata spesso una copia imperfetta, una versione di seconda classe delle spiritualità sviluppate nella tranquillità dei conventi e dei monasteri” (p. 5; qui e in seguito: tutte le traduzioni sono nostre). Quello che il nostro autore vuole proporre è una “sintesi speculativa di Teologia Spirituale per gli evangelizzatori, sia per gli operatori pastorali inseriti nelle strutture pastorali, sia per coloro che svolgono i loro compiti ordinari in mezzo al mondo (negli affari, nella politica, nella famiglia, ecc.)” (p. 11).

L’affermazione di Fernández può essere messa in contrasto con tutta la spiritualità sviluppata fino al IV secolo, incentrata sul martirio. È vero che, con la fine dell’epoca del martirio, la vita monastica ha segnato profondamente la vita della Chiesa, a partire da Sant’Antonio abate in Egitto, seguito da San Benedetto, e poi da autori come Santa Teresa di Gesù o San Giovanni della Croce, e via dicendo. Tuttavia, non si può dire che questa sia l’unica o la principale forma di spiritualità, né è meno vero che i suoi scritti sono tremendamente illuminanti per tutti i battezzati. In ogni caso, lo sviluppo della spiritualità dei non monaci, anche se forse dovremmo concentrarci sui laici, è stato trattato da grandi autori come San Giovanni d’Avila nei suoi numerosi sermoni, Sant’Ignazio di Loyola con i suoi Esercizi Spirituali, seguiti da una moltitudine di laici che vivono in modo secolare, o San Francesco di Sales nella sua Introduzione alla vita devota. Certo, è evidente la somiglianza tra la frase che abbiamo citato di Fernández e il noto testo del santo vescovo di Ginevra che la Chiesa propone nell’Ufficio delle Letture ogni 24 gennaio: “La devozione, insisto, va esercitata in modi diversi, a seconda che si tratti di un nobile o di un operaio, di un servo o di un principe, di una vedova o di una giovane nubile o di una donna sposata. Inoltre, la devozione deve essere praticata in modo adeguato alla propria posizione, ai propri affari e alle proprie occupazioni”[5]. È evidente che l’intero paragrafo si riferisce a persone che vivono una vita secolare.

Non possiamo nemmeno dimenticare che Dio non ha mai smesso di suscitare santi laici nel mondo, in ogni epoca, da contadini come Sant’Isidoro Labrador a re come San Ferdinando. La santità, che è la spiritualità più completa, non è riservata alla vita monastica. Basta seguire il calendario liturgico per vedere questa varietà, sia nelle celebrazioni eucaristiche che nella liturgia delle ore: la Chiesa propone costantemente questi modelli.

Proseguendo con il tema della spiritualità, nell’introduzione l’autore contrappone la teologia spirituale alla teologia morale, sottolineando che la prima si occupa maggiormente di “parlare delle virtù teologali, del discernimento prudenziale, dell’umiltà e della fortezza, ecc. (…) L’unico modo per spiegare la specificità della teologia spirituale è quello di intenderla come lo studio delle varie modalità della vita in Cristo” (pp. 9-10). Se così fosse, la teologia spirituale si ridurrebbe a spiegare i diversi carismi per famiglie o stati di vita cristiana. Tuttavia, la teologia spirituale include una riflessione sugli aspetti comuni con la cristologia, la pneumatologia, la grazia, i sacramenti, ecc. Concepire la teologia come compartimenti esclusivi è un errore, data l’unità intrinseca della teologia stessa. Si tratta di prospettive sull’unico mistero del Dio Trino che rispondono piuttosto alla nostra limitata capacità di comprensione. Fernández ripropone invece la dicotomia tra spiritualità e morale. Questo modo dicotomico di presentare le questioni è tipico di Fernández. Il suo punto di partenza è la contrapposizione, quasi in modo simile all’antitesi hegeliana, anche se non arriva sempre a una sintesi, ma piuttosto a mettere in evidenza un aspetto a fronte dell’altro. Un esempio è la contrapposizione tra poveri e eruditi.

Ci resta da commentare un aspetto della struttura del libro: le due chiavi di lettura che lo organizzano, ossia “azione” e “cultura”. Entrambi i termini si riferiscono a un’analisi della spiritualità in chiave personale, relazionale o sociale. Nel nostro lavoro ci concentreremo maggiormente sulla prima parte, poiché è qui che compare soprattutto il riferimento alla psicologia.

 

2. Sullo Spirito

L’opera inizia con una riflessione sullo Spirito. La prima cosa che colpisce è che non si parla mai dello Spirito in modo personale; non si afferma che è la Terza Persona della Trinità e non si includono le denominazioni abituali come “Persona-Amore” o “Persona-Dono”[6]. Manca il carattere eminentemente personale dello Spirito Santo, con una volontà propria, come appare nel brano delle tentazioni (cfr. Mt 4, 1 e par.) o in alcune guarigioni (cfr. Lc 5, 17), per non parlare degli annunci dello Spirito nel discorso dell’addio di Gesù riportato da San Giovanni (cfr. Gv 15-16). Questa assenza rappresenta una difficoltà nel comprendere la spiritualità come relazione interpersonale in cui lo Spirito Santo stesso è protagonista. Fernández conclude la sua esposizione dicendo che “tutto ci invita a comprendere l’espressione Spirito Santo come il dinamismo trascendente dell’amore divino che si comunica all’uomo” (p. 17). Questa definizione dinamica ma non personale implica una concezione molto diversa del tema centrale della nostra riflessione sul rapporto tra spiritualità e psicologia, perché non entriamo in relazione con lo Spirito come entriamo in relazione con altre forze fisiche o con altre persone umane, ma la presenza dello Spirito in noi è reale e non meramente intellettuale o affettiva, come il ricordo che abbiamo di qualcuno o ciò che qualcuno suscita in noi[7].

La proposta di Fernández va oltre, affermando che “se il dinamismo dell’amore è presente nell’azione, allora c’è una spiritualità dell’azione stessa. La vita dello Spirito è segnata dalle caratteristiche della propria attività d’amore nella parte del mondo in cui viene esercitata” (p. 18). Poco prima, Fernández ha ripreso una citazione di San Tommaso dalla Summa contra gentiles, in cui si afferma che è lo Spirito a muovere l’uomo (p. 17; la citazione di San Tommaso è SCG IV, 19). Curiosamente, cita la SCG, ma non la Summa Theologica, l’opera finale di San Tommaso. È ovvio che un autore può modificare o almeno chiarire il proprio pensiero nel corso della sua opera, e quindi è opportuno considerare l’opera nel suo insieme per evitare di citare qualcosa che è in linea con il nostro pensiero, ma che non corrisponde a quello dell’autore citato. In questo caso, sembra opportuno integrare quanto San Tommaso afferma nella SCG IV, 19 con quanto insegna successivamente nella STh I, 8 e 43. Nella q. 8, a. 3, egli riprende la seguente citazione di San Gregorio: “Dio in una maniera generale è in tutte le cose per presenza, potenza ed essenza; però si dice che è familiarmente in alcuni con la grazia”. Questa idea è ulteriormente sviluppata nella q. 43, a. 3. Quindi, l’azione dello Spirito non è una semplice potenza, ma una presenza personale in “alcuni”. Questi “alcuni” sono coloro che lo ricevono come Persona-Dono inviata dal Padre e dal Figlio, in particolare nel battesimo. Questa affermazione non vuol dire che Dio sia presente negli altri, così come la q. 8 afferma che è in ogni cosa creata, ma non è ugualmente presente in tutto e in tutti. La differenza qui sta in una relazione personale. È questo aspetto che, come abbiamo sottolineato, Fernández non prende in considerazione. La lettura del testo di Fernández dà l’impressione che egli tema che alcuni non siano mossi dallo Spirito e che questo possa impedire la loro salvezza eterna, aspetto di cui peraltro non parla molto, dal momento che la sua opera si riduce a una spiritualità incarnata qui sulla terra, senza affrontare il tema della spiritualizzazione della carne come fine proprio della missione dello Spirito[8].

Il modo in cui Fernández si esprime quando afferma che “la vita dello Spirito è segnata dalle caratteristiche della propria attività d’amore nella parte del mondo in cui viene esercitata”, può essere interpretato come se ci fossero delle peculiarità a seconda “della parte del mondo”, ma la realtà va oltre, poiché i santi ci mostrano la sorprendente varietà della santità. Questa grande varietà, tuttavia, riflette l’infinità divina piuttosto che le “forme culturali umane”. L’espressione di Fernández è una forma di regionalismo umano che non corrisponde alla creatività infinita di Dio. Non è tanto lo Spirito che si lascia segnare, ma è Lui stesso che segna non solo una regione, ma ogni persona. Si può anche fare una lettura opposta, affermando che i santi sono più vicini tra loro che agli abitanti di una regione del pianeta, cioè i santi si riconoscono più come membri della Nuova Umanità rigenerata da Cristo, che come “Giudei, Greci…” (cfr. Gal 3, 28).

Mi sembra rilevante sottolineare la questione personale rispetto al regionalismo, perché permette di comprendere meglio il valore di ogni persona agli occhi di Dio. Nel testo di Fernández si usa talvolta il termine “popolo”, come nella citazione che stiamo commentando, parlando di una “porzione di mondo”, in senso collettivo, che non corrisponde all’origine personale e familiare di ogni comunità umana. Il popolo non è un semplice insieme di persone, ma è plasmato da relazioni interpersonali che affondano le proprie radici nella famiglia. Lo Spirito Santo agisce in ogni fedele credente e, quindi, in tutti i fedeli, ma non agisce sull’insieme in modo generico. È proprio riflettendo sulla presenza dello Spirito che possiamo comprendere questo aspetto[9].

 

3. Il punto di partenza è la “prospettiva dei poveri”

L’importanza di prestare attenzione ai poveri nel Vangelo e nella vita della Chiesa è indubbia. Tuttavia, nel modo in cui Fernández la presenta c’è una sfumatura che va sottolineata:

In America Latina, ad esempio, i poveri, anche se sviluppano poco o in modo imperfetto alcuni aspetti della morale cristiana a causa dei molti fattori limitanti, hanno comunque sviluppato (in generale) alti aspetti della morale teologale molto più degli eruditi. In primo luogo, riconosciamo una fiducia spontanea e ferma in Dio che si esprime nella supplica e in uno spirito di sincera adorazione (p. 35).

L’affermazione di Fernández è supportata dal numero 1735 del Catechismo:

L’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere sminuite o annullate dall’ignoranza, dall’inavvertenza, dalla violenza, dal timore, dalle abitudini, dagli affetti smodati e da altri fattori psichici oppure sociali.

Nel testo di Fernández, la prima cosa che si può notare è la questione del “regionalismo” appena discussa, così come l’allusione ai “poveri” come conglomerato di persone. La categoria contrapposta ai poveri è quella degli “eruditi”, cosa che è quantomeno curiosa, visto che ci si aspetterebbe “ricchi”. “Eruditi” si contrapporrebbe a “ignoranti” e gli ignoranti possono essere sia poveri che ricchi. Quindi, sembra che Fernández abbia un’intenzione inconfessata di mettere in relazione ricchi e eruditi, ma non ricchi e ignoranti. Se i ricchi fossero ignoranti, forse avrebbero una giustificazione, un “condizionamento limitante”, come lui lo definisce per i poveri. Il paragrafo citato contiene una confusione tra povertà materiale, spirituale e intellettuale che avrebbe dovuto essere approfondita, poiché è questa “prospettiva del povero” a guidare l’intera opera. Questa confusione oscura l’intera opera.

Il modo di esprimersi di Fernández porta a giustificare il “popolo povero”, soprattutto i poveri materiali, per il solo fatto di essere tali, tanto che li presenta come sviluppati in “alti aspetti della morale teologale”, mentre allo stesso tempo afferma che “sviluppano poco o in modo imperfetto alcuni aspetti della morale cristiana”. Questa contraddizione nello sviluppo appare più volte in Fernández, che la giustifica di nuovo ricorrendo a San Tommaso: “Si dice che alcuni santi non hanno certe virtù, date le difficoltà che provano negli atti di esse …; sebbene essi abbiano l’abito di tutte le virtù” (STh I-II, q. 65, a. 3, ad 2)[10]. Ma quello che vediamo commentare qui da San Tommaso è la situazione di alcuni santi, non di quelli che possono anche vivere nel peccato. Non possedere qualche virtù non significa peccare, ma avere comunque difficoltà a compiere azioni che sono buone. Fernández parla invece di persone che fanno sia cose buone che cattive; si tratterebbe piuttosto di una persona incontinente, che non ha l’abito della virtù, mentre la citazione di Tommaso dice esplicitamente che hanno “l’abito di tutte le virtù”.

La prospettiva antropologica di Fernández è centrata sul “povero condizionato”, come se fosse lui a scendere da Gerusalemme a Gerico e a subire l’assalto. (cfr. Lc 10, 30). Potremmo parlare di un’“antropologia dell’uomo ferito”. Non possiamo negare la “ferita”, ma nemmeno possiamo negare che questa ferita sia una conseguenza della caduta. Nella parabola del Buon Samaritano, la discesa da Gerusalemme a Gerico è stata interpretata come la situazione dell’uomo caduto[11].

Questa proposta di un’”antropologia dell’uomo ferito” ha preso piede negli ultimi anni nel mondo occidentale. La ferita qui è vista come una situazione dolorosa e irrimediabile, una sorta di “ferita infinita”. A volte assume anche sfumature ed espressioni cristiane, ma non è cristiana[12]. Il problema si aggrava quando si cerca di introdurre i bambini a questa concezione antropologica del vuoto interiore[13]. No, la nostra ferita non è infinita e non siamo vuoti dentro.

Secondo Fernández, il povero ferito dovrebbe essere curato nel luogo in cui si trova. Non si parla del cammino che il buon samaritano compie con lui fino alla locanda, ovvero della redenzione. L’antropologia cristiana non è l’antropologia dell’uomo ferito, né l’antropologia del vuoto interiore, ma l’antropologia dell’uomo creato, caduto e redento. In questo momento, è essenziale insistere sulla creazione attraverso l’amore, sulla caduta attraverso l’abuso della nostra libertà e sulla redenzione attraverso la misericordia che ci porta al cielo. Nella prospettiva di Fernández, il povero ferito sembra incapace di guarire e che il Buon Samaritano debba scendere da lui e restare con lui. In nessun punto si menziona la possibilità che la ferita sia causata dal proprio peccato, né che la conversione sia necessaria per il povero. Ma forse la cosa più grave è che non compare alcun miglioramento spirituale del povero, perché sembra che quello che è già sufficiente. A questa prospettiva si oppone la storia di conversione di molti santi, poveri, ricchi, ignoranti e sapienti che hanno raggiunto il Paradiso[14].

 

4. La ferita delle “incongruenze psicologiche”

 Come abbiamo detto, Fernández adotta un’antropologia dell’uomo ferito. Nella già citata citazione del Catechismo (n. 1735), si fa riferimento proprio alle incongruenze psicologiche come motivo di diminuzione dell’imputabilità o della responsabilità di un atto. Il capitolo 4 di Teología espiritual encarnada è interamente dedicato a questo aspetto del rapporto tra santità integrale e disturbi psicofisici.

Il capitolo parte da una situazione di limitazione in cui si incarna lo Spirito (paragrafo 4.1) per sviluppare un cammino spirituale nel disturbo psicologico (4.2). Si passa poi a riflettere sul rapporto tra nevrosi e santità (4.3) e sulle proposte delle neuroscienze (4.4). Infine, si conclude con una proposta che invita la persona a un processo di integrazione corporea (4.5) e con la natura (4.6). Vediamo alcuni aspetti di ciascuno di questi punti.

Come abbiamo detto, Fernández parte da queste incongruenze come limiti dello Spirito (p. 53). In ogni caso, va specificato che si tratterebbe di un limite che Dio permette o assume, come può accadere per la malattia o altre condizioni, ma non perché non possa eliminarle, come è evidente nei miracoli: guarisce i malati, libera gli indemoniati, moltiplica i pani e ottiene persino le monete perché Pietro possa pagare le tasse. Quindi, c’è il permesso di una situazione difficile, la cui fine può essere solo la manifestazione della gloria di Dio (cfr. Gv 9,3). Come abbiamo visto in precedenza, Fernández rimane ancorato alla “prospettiva del povero”; ora vediamo che si sofferma sulla “prospettiva della limitazione psicologica”. Si tratta di una forma di accettazione della realtà che non porta ad alcun cambiamento. Secondo il nostro autore, è lo Spirito a incarnare e accettare il limite e a operare il cambiamento: “La grazia non arriva normalmente alle radici di una malattia psicologica. Tuttavia, una persona in grazia di Dio può intraprendere un cammino di guarigione in modo personale e decisivo (…), si pone in una situazione in cui può meritare la guarigione”. In realtà, questa proposta contiene una certa forma di pelagianesimo, in cui non è la sinergia, la reale collaborazione tra lo Spirito e l’uomo, a portare alla guarigione, ma la determinazione dell’uomo stesso. Si ricade così in questo neopelagianesimo che Papa Francesco ha denunciato nel secondo capitolo della Gaudete et exsultate, a seguito della lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede del 22 febbraio 2018, Placuit Deo[15]. Proprio il n. 57 dell’esortazione allude a queste forme vuote dello Spirito: “Ci sono ancora dei cristiani che si impegnano nel seguire un’altra strada: quella della giustificazione mediante le proprie forze (…), l’attrazione per le dinamiche di auto-aiuto e di realizzazione autoreferenziale”. Quando Fernández afferma che “la persona in grazia di Dio può entrare personalmente, in modo decisivo, in un cammino di guarigione (…) può arrivare a meritare la guarigione”, nonostante l’espressione “in grazia di Dio”, sembra che il meritare la guarigione sia dovuto alla determinazione personale piuttosto che alla collaborazione con la grazia.

 

4.1. La proposta di Fernández come cammino spirituale

Fernández propone un percorso spirituale con il perturbamento (4.2). Ciò che Fernández presenta qui si basa su quanto esposto in precedenza nel libro precedente La gracia y la vida entera[16]. In quel testo, l’autore fornisce alcuni consigli su come la spiritualità possa integrare adeguatamente l’intervento dello psicologo; in precedenza, ha parlato di malattie interiori, senza però specificare se si riferisse a quelle spirituali o psicologiche. La mancanza di specificità è una costante delle sue opere. Il peccato, invece, non viene mai menzionato. “Queste malattie interiori si possono curare. Si possono curare andando da uno psicologo? Sì, ma non solo. Si possono curare anche seguendo un adeguato cammino spirituale” (La gracia y la vida entera, 82).

La proposta suggerisce i seguenti passi (La gracia y la vida entera, pp. 81-104, a cui si fa riferimento in Teología espiritual encarna, pp. 56-64):

  1. “Il primo passo è riuscire a dire a Dio, in modo chiaro e diretto, qual è il nostro vero problema”: il primo errore è pensare di conoscerlo.
  2. “Chiedendo insistentemente luce a Dio, il cuore si dispone positivamente a riconoscere la veracausadi ciò che ci accade”, con il supporto della Sacra Scrittura (lettura orante).
  3. “Chiamare le cose con il loro nome: il cuore è fatto di intenzioni più nascoste che non condividiamo con nessuno”.
  4. Sviluppare il desiderio di cambiare e chiedere a Dio la grazia per farlo.
  5. Sviluppare nuove inclinazioni e motivazioni
  6. Chiedere a Dio di mantenersi fedeli al cambiamento.

Si tratta di una proposta che integra la preghiera e la supplica a Dio in un programma di ristrutturazione cognitivo-comportamentale (simile alla terapia razionale-emotiva di Ellis, per esempio[17]). Tuttavia, quanto all’aspetto dell’accompagnamento spirituale, non c’è alcun riferimento al fatto che questo percorso sia un cammino di conversione, né ai sacramenti, in particolare alla confessione e all’Eucaristia. Sembra che la grazia operi, sì, attraverso la preghiera, ma non tramite altri mezzi. Questa omissione può essere dovuta, forse, a una volontà di avvicinamento ai lettori protestanti; risulta strano che un sacerdote cattolico non raccomandi la vita sacramentale.

In questo testo, si percepisce che la “spiritualità” proposta da Fernández non integra l’aspetto liturgico-sacramentale in modo conveniente. Nei primi tre capitoli del libro, in cui espone la sua proposta “spirituale”, non c’è alcun riferimento ai sacramenti, né ad altre modalità abituali della spiritualità cattolica. Nel resto del libro non c’è alcun riferimento a Maria, né all’intercessione dei santi, né in Teología espiritual encarna né in La gracia y la vida entera[18]. Il riferimento ai sacramenti che compare nel libro è nel capitolo sull’inculturazione della spiritualità, che riguarda un processo in cui è la cultura a plasmare la spiritualità (e non il contrario) [19].

 

4.2. La questione delle “incongruenze psicologiche”

Nella sua presentazione, Fernández assume la prospettiva di L. M. Rulla e della sua “antropologia della vocazione cristiana”[20]. Rulla ha proposto la sua teoria in un momento in cui la Chiesa stava vivendo una grave crisi vocazionale dopo il Concilio Vaticano II. Si riteneva necessario ripensare la realtà vocazionale da una prospettiva che integrasse le conoscenze delle scienze umane e sociali, in particolare della psicologia, per analizzare la crisi vocazionale. Il punto di partenza di Rulla è una struttura personale in cui distingue tre dimensioni: la prima, la forza motivante dei valori autotrascendenti; la seconda, la realtà naturale della persona (fisiologica, psicologica e sociale); e la terza, che sarebbe la combinazione di entrambe. In questa struttura si possono cogliere le radici freudiane che sostengono il modello di Rulla; ricordiamo che la struttura della personalità che Freud propone, l’Es – l’Io – Super-io, è costruita sulla dialettica hegeliana, e la somiglianza con tale modello è evidente. In questa dialettica della vocazione, Rulla inserisce una serie di bisogni che la persona deve soddisfare. Rulla segue la teoria dei bisogni dissonanti di H. Murray (1938). La proposta di Murray non è spiegata antropologicamente da Rulla. Murray elenca un totale di 21 bisogni, ma non spiega perché sono in questo numero, né più né meno, né li integra tra loro. Quando non vengono soddisfatti, questi bisogni generano quelle che Rulla chiama “incoerenze”, che sarebbero all’origine dei problemi che si manifestano nella vita religiosa.

Questa proposta presenta diversi aspetti che sono discutibili. Il primo è la questione della costruzione della teoria da un punto di vista puramente psicologico, tralasciando il dato teologico. Di conseguenza, nell’analisi di Rulla non c’è alcun riferimento alla concupiscenza e al peccato. Si muove sempre nell’ambito psicologico, evitando qualsiasi riferimento morale. Un tale approccio, pur essendo adeguato alla pratica psicologica, non lo è per la considerazione della vocazione cristiana, che parte da un’antropologia in cui l’uomo, creato con amore da Dio, è caduto liberamente nel peccato ed è stato redento dalla misericordia di Dio.

Un altro aspetto da ripensare è la questione dei “bisogni”. Una presentazione basata sul bisogno parte da una situazione di mancanza, di indigenza che, pur essendo reale, non può essere spiegata con la teoria. In ogni caso, sembrerebbe più appropriato parlare di inclinazioni piuttosto che di bisogni, dato che il bisogno si conclude con la soddisfazione e il ritorno a una situazione di equilibrio iniziale; l’inclinazione, invece, apre a un miglioramento della persona e a una crescita oltre la situazione iniziale.

Entrambi gli aspetti sono rilevanti per l’analisi di Fernández, poiché, come abbiamo già accennato, neanche lui integra la questione del peccato e della conversione, e il suo approccio spirituale manca di questa prospettiva di crescita e perfezione che si concluderebbe con la beatitudine eterna; anche a questo aspetto abbiamo già fatto cenno. Il riferimento alla teoria di Rulla aiuta a spiegare i limiti della concezione psicologica di Fernández.

È importante considerare che la psicologia è uno strumento utile per poter trattare molteplici aspetti del comportamento umano, ma sviluppare una teoria antropologica è qualcosa che va oltre le possibilità della psicologia[21]. Tutta la pratica psicologica presuppone una concezione antropologica, ma non può generarla né, tanto meno, giudicare un sistema religioso[22]. In una prospettiva cattolica, la visione dell’uomo può essere descritta sinteticamente come creazione-caduta-redenzione. Il fatto stesso di essere creato presuppone una condizione limitata, anche se non necessariamente negativa (come abbiamo accennato nella questione dei bisogni); il fatto della caduta spiega la disintegrazione della volontà come conseguenza del peccato (da qui la concupiscenza e il disordine del desiderio, che spiega le incoerenze di cui parla Rulla); infine, la redenzione compiuta da Cristo introduce un modo per superare le conseguenze del peccato che non consiste nel semplice ripristino della situazione originaria, ma che porta l’uomo a partecipare alla stessa vita divina. Con questo schema antropologico è possibile affrontare i diversi problemi della vita umana, anche nel campo della pratica psicologica.

Non c’è motivo di pensare che Fernández non sia d’accordo con questa premessa. Inoltre, propone che il lavoro dello psicologo non sopprima l’accompagnamento spirituale, come abbiamo visto nelle linee guida che offre per questo accompagnamento. Tuttavia, Fernández si muove più nell’ambito psicologico che in quello spirituale. Nella sua presentazione, fa riferimento anche allo sviluppo delle neuroscienze negli ultimi anni (4.4., pp. 68-74). Citando uno dei neuroscienziati più noti per il suo lavoro divulgativo, A. Damásio, Fernández sottolinea i limiti delle neuroscienze nello spiegare il comportamento umano. Il riferimento a Damásio, all’epoca in cui Fernández scrive (2006), può essere qualificato, dato che Damásio, pur mantenendo aperta la possibilità di un ordine superiore a quello che la psicologia e la scienza potevano conoscere[23], si è poi orientato verso un chiaro materialismo[24]. Questa prospettiva materialista è predominante nelle attuali neuroscienze, arrivando persino a negare la libertà umana, sebbene tutte queste teorie siano prive di un fondamento sicuro[25]. È vero che ci sono ricerche che cercano di chiarire diversi aspetti della spiritualità a partire dalle neuroscienze, ma non sono molto conclusive[26]. Il problema di questi studi risiede proprio nella difficoltà delle neuroscienze attuali di fornire dati conclusivi sull’attività neurale. Inoltre, devono anche affrontare la questione di cosa accade nel cervello degli atei.

 

5. Fragilità, dolore e peccato: una proposta

Fernández nel suo lavoro allude a una certa fragilità, in questo caso psicologica[27]. Partendo da questa considerazione, rifletteremo brevemente sul tema della fragilità in relazione al dolore e al peccato, dato che esiste una distinzione tra questi aspetti che può essere molto utile per aiutare a trattare con le persone, perché ci permette di spiegare le diverse reazioni affettive che ci consentono di entrare meglio nell’esperienza umana.

In precedenza, parlando di antropologia cristiana, abbiamo usato la triade creato-caduto-redento. Parlando della condizione creaturale, abbiamo accennato ai limiti della nostra natura umana. Questi limiti, come la stanchezza del corpo, l’impossibilità di vedere più nitidamente o a maggiore distanza, ecc., non sono moralmente da considerarsi come qualcosa di positivo o negativo. Questi limiti mostrano semplicemente la nostra condizione creaturale. Una condizione davvero deplorevole se paragonata a quella degli altri animali. Non è che siamo fatti male, perché “funzioniamo”, ma questa povertà del nostro essere può essere considerata come una certa fragilità.

Questa nostra fragilità può essere paragonata a quella di un neonato rispetto a una persona in pieno sviluppo fisico. La nostra reazione alla fragilità del bambino è quella della tenerezza. La sua fragilità suscita la nostra tenerezza. Il termine tenerezza deriva dal latino “tenerum”, che significa morbido e delicato, ma che si riferisce anche ai primi anni di vita. La fragilità del bambino ha dato origine alla reazione di tenerezza dell’adulto. La particolarità della tenerezza è che l’adulto, nella sua fermezza, si ammorbidisce per prendersi cura del bambino con dolcezza. Non si tratta solo di un’accoglienza fisica, ma anche psicologica. La tenerezza dell’adulto integra così la fermezza con la morbidezza del bambino.

Possiamo osservare che la tenerezza è una reazione degli adulti, non dei piccoli tra di loro. È curioso notare come i bambini sviluppino questa reazione imitando gli adulti: man mano che il bambino cresce, acquisisce fermezza e può a sua volta sviluppare tenerezza. Abbiamo detto che questa fermezza è sia fisica che psicologica. Credo che si possa spiegare la fermezza come una conoscenza della realtà attraverso la ragione che integra l’esperienza della vita. L’acquisizione di una verità sulla vita ci permette di avvicinarci alla fragilità del bambino. Questo è ciò che i bambini non sanno fare con gli altri. Possiamo quindi affermare che la tenerezza implica una fermezza le cui radici affondano nella verità. È la verità che fornisce la fermezza necessaria per sviluppare una tenerezza adeguata, che non sia mera emotività. La fragilità come condizione umana può essere studiata da una prospettiva antropologica. Il suo studio è legato alla vulnerabilità, non necessariamente al fatto di essere feriti, ma di poterlo essere[28]. La fragilità che provoca la tenerezza non è una ferita, quindi non richiede una cura o una terapia, ma uno sviluppo fisico e una pedagogia.

Il riferimento alla ferita ci permette di fare un passo in più. La persona fragile può subire ferite fisiche, psicologiche o morali. La ferita produce dolore e, di fronte alla sofferenza altrui, ciò che proviamo è la compassione. Il termine compassione (dal lat. patere-cum, sufrir-con) ha un primo riferimento fisico, corporeo. Per estensione, parliamo di una compassione non necessariamente fisica, ma anche morale. In entrambi i casi, si tratta di una reazione a chi sta soffrendo. Questi dolori possono essere trattati da medici, nel caso del dolore fisico, o da psicologi, nel caso di disturbi psicologici, con terapie mediche o psicologiche. Ci sono poi i dolori morali derivanti dalle conseguenze delle azioni altrui o da stati spirituali di sofferenza, per i quali possiamo provare compassione per chi ne soffre. Spetta proprio all’amico o al compagno spirituale solidarizzare con il sofferente e prendersene cura.

Ma c’è ancora un’altra esperienza, quella che può essere suscitata in noi da chi ha fatto del male. È la misericordia. Intesa come reazione affettiva, la misericordia è stata definita fin dall’antichità come la tristezza provata di fronte al dolore dell’altro come se fosse proprio[29]. In questo senso, potrebbe essere equiparata alla compassione. Tuttavia, così come abbiamo richiamato che l’originale riferimento della compassione è di tipo fisico, potremmo riferire la misericordia all’esperienza del peccato commesso da un altro. Di fronte al peccatore, quindi, sperimenteremmo la misericordia, una forma particolare di compassione che appartiene alla sfera della vita spirituale e che prevede una terapia particolare come il sacramento della penitenza.

La nostra breve riflessione ci permette dunque di concludere che la condizione di fragilità suscita in noi tenerezza, il dolore compassione e il peccato misericordia. Ci troviamo quindi di fronte a tre condizioni distinte: quella del fragile, quella dell’afflitto e quella del peccatore, che provocano delle esperienze affettive distinte. Potremmo anche sottolineare che l’attenzione allo studio della fragilità umana può essere oggetto dell’antropologia, nella misura in cui è una condizione propria di ogni essere umano; d’altra parte, l’attenzione al dolore fisico sarebbe di competenza della medicina, il dolore psicologico sarebbe di competenza della psicologia e il dolore morale (nella misura in cui è sofferto) sarebbe di competenza della carità dei propri cari e dell’accompagnamento spirituale; infine, la condizione del peccatore, per aiutarlo a guarire, sarebbe della particolare competenza del sacerdote nel sacramento della confessione.

Mi sembra che la rilevanza di questa distinzione risieda nell’aspetto della fermezza che è incluso nella tenerezza, così come nella distinzione tra compassione e misericordia, per poter distinguere opportunamente il dolore peccaminoso da quello che non lo è. Questa chiave di lettura che consiste nella distinzione tra compassione e misericordia potrebbe arricchire e chiarire l’esposizione di Fernández.

 

6. Dio e la religione nella psicologia moderna

 6.1. Due prospettive e tre linee di dialogo

In generale, possiamo dire che le prospettive sulla religione sostenute dalla psicologia moderna dominante si riducono a due:

(a) Quelle che seguono la proposta di Freud e che considerano la religione un’idea umana falsa, da smantellare. Freud dedicò molto tempo e risorse allo studio e alla riflessione sulla religione. Infatti, dedicò all’argomento cinque opere che scandiscono la sua produzione: Totem e tabù (1912), L’avvenire di un’illusione (1927), Il malessere della cultura (1930), Nuovi contributi alla psicoanalisi (1933) e, infine, Mosè e il monoteismo (1939).

(b) Quelli che seguono la proposta di W. James e che considerano la religione come un’esperienza personale e individuale. James sviluppò una vasta riflessione inThe Varieties of Religious Experience (Le varietà dell’esperienza religiosa). Si tratta di una serie di Conferenze Gifford all’Università di Edimburgo nel 1901-1902, che gli procurarono fama mondiale. In queste lezioni James presenta una visione positiva della religiosità per la vita umana, ma non ritiene che esista una divinità, bensì un’esperienza interiore. Si tratterebbe di una sorta di religiosità naturale. Anche V. E. Frankl si colloca su questa linea.

Sebbene sia evidente che la prima prospettiva, forse per la sua schiettezza o per la mancanza di argomentazioni, non sia molto sostenibile, la seconda, più “morbida”, va nello stesso senso di negare la religione come forma di rapporto personale con la divinità, ed è stata maggiormente accettata dalla psicologia moderna in generale. Questa è la chiave che unisce le due prospettive: la non considerazione di Dio come un essere reale e personale con cui l’uomo può entrare in relazione. Al massimo viene considerato come un’idea personale che può influenzare il comportamento, sia individuale che di gruppo, se l’idea è condivisa, come può esserlo qualsiasi altra ideologia (avere idee politiche o appartenere a un club sportivo). Questo problema emerge nella pratica psicologica moderna. Così, ad esempio, una delle correnti psicologiche più seguite, la psicologia sistemica, non prende in considerazione il rapporto con Dio quando analizza il sistema di relazioni. La psicologia sistemica non riesce a integrare Dio come relazione personale che deve ordinare e integrare tutte le altre relazioni. Si comprende la difficoltà che può incontrare la teoria, e quindi gli psicoterapeuti che lavorano con i credenti.

Oltre al dialogo con la psicologia sistemica, ci sono almeno altri tre modi in cui si potrebbe stabilire un certo dialogo tra psicologia e teologia:

(a) La psicologia positiva. Gli studi di Martin Seligman e dei suoi collaboratori hanno sviluppato questa scuola di psicologia che indaga le caratteristiche personali che permettono a determinate persone di raggiungere uno sviluppo migliore, anche quando si trovano ad affrontare difficoltà (resilienza). Il loro studio ha riportato il termine “virtù” nel campo psicologico. Sebbene non propongano una struttura psicologica della virtù o una teoria dell’azione, sarebbe possibile individuare dei punti di connessione per un certo sviluppo comune[30].

b) La psicologia della personalità. Lo studio della personalità nella psicologia moderna si basa principalmente su modelli di tratti della personalità. La descrizione dei tratti di personalità indica che essi sono condizioni stabili che una persona manifesta nel suo comportamento[31]. Questa concezione dei tratti può essere messa in relazione con il concetto di abito nella teologia morale, intesa come disposizione interiore stabile, che è alla base del concetto di virtù, discusso in precedenza[32].

c) La psicologia delle emozioni. Si tratta di uno dei grandi campi oggi aperti, in cui il dialogo con la filosofia e la teologia sarebbe di grande aiuto per le tante persone che soffrono. Tre aspetti che vanno affrontati sono la necessità di spiegare il riferimento al bene o al male, il rapporto tra il disturbo affettivo e la concupiscenza intesa come desiderio disintegrato e la capacità dell’amore e della Grazia di integrare il mondo affettivo delle persone[33].

Questi tre campi, la psicologia positiva, la personalità e le emozioni, sono ambiti in cui, come abbiamo detto, il dialogo potrebbe rivelarsi molto proficuo. Questo dialogo deve fondarsi su una solida base antropologica.

 

6.2. È possibile sviluppare una psicologia della Grazia?

Il dialogo che proponiamo non ha l’obiettivo di sviluppare una psicologia della Grazia. Fernández include nel suo testo una citazione di von Balthasar in cui quest’ultimo nega la possibilità di sviluppare una “psicologia dei santi” (pp. 64-65)[34]. Se con “psicologia dei santi” intendiamo una psicologia in grado di spiegare l’azione della Grazia in loro, è impossibile, poiché è al di là delle capacità della psicologia spiegare l’azione divina.

Pierre Fransen ha già tentato di sviluppare una psicologia della grazia negli anni ‘60. Fransen stesso spiega il suo tentativo affermando che “noi abbozziamo deliberatamente questa psicologia nella nostra qualità di filosofo cristiano e di credente. E la completeremo con una filosofia ampiamente personalistica, ispirata allo studio di K. Rahner e all’antropologia dialettica e mistica del beato Giovanni di Ruysbroec” [35]. La prospettiva di Fransen parte da una concezione kantiana della libertà, che stabilisce una divisione tra libertà trascendentale e categorica, e questo ostacola l’integrazione dell’azione umana e quindi ogni comprensione integrale della sinergia con lo Spirito Santo. Questo aspetto è stato evidenziato da Giovanni Paolo II nella Veritatis splendor, nella risposta al teorema dell’opzione fondamentale[36].

È curioso notare che Fernández e Fransen si basano ugualmente su Rahner e entrambi presentano questa distinzione tra trascendentale e categorico. Nel caso di Fernández, come abbiamo già spiegato, quando parla dei “poveri”, attribuisce loro una certa bontà di fondo che coinciderebbe con la libertà trascendentale, con l’opzione fondamentale per Cristo, che non entrerebbe in conflitto con altri atti che non manifestano pienamente questa opzione. Questo è il substrato del teorema confutato da Papa Giovanni Paolo II.

Piuttosto che una “psicologia della Grazia”, possiamo tentare una “psicologia di fronte alla grazia”[37], come proposto da Ignacio Andereggen, Zelmira Seligmann e Martín Echavarría nella loro “psicologia realista”. Questa psicologia si pone di fronte al mistero dell’uomo creato, caduto e redento ed è quindi in grado di integrare, non di risolvere, la questione del peccato e della Grazia, nonché la sua relazione con la psicologia umana e i suoi disturbi. Andereggen riconosce che la Tradizione cattolica, in particolare San Tommaso, offre una proposta valida per la psicologia umana, anche se nei termini del suo tempo e non in quelli della psicologia attuale, ma sempre validi nella misura in cui si riferiscono a una vera antropologia[38]. Echavarría ha prodotto uno studio interessante sullo sviluppo della psicologia, dalle sue origini, che mostra la validità dei criteri classici, così come i limiti di alcune posizioni attuali[39]. I modelli psicologici attuali, a causa della loro marcata inclinazione materialista, non rispecchiano la verità dell’uomo e l’antropologia adeguata a cui abbiamo accennato. Tuttavia, alcune tecniche possono essere valide e utili. Bisogna applicare le parole di San Paolo: “Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono” (1 Tess 5,21).

Questa stessa idea di fondo è alla base del “metamodello cristiano cattolico della persona”, sviluppato da Paul C. Vitz e dai suoi collaboratori[40]. Vitz, psicologo americano nato nel 1935, si è convertito al cattolicesimo nel 1979. I suoi studi iniziali riguardavano la percezione e la cognizione. Il suo percorso di vita lo ha portato a interessarsi della psicologia della religione e a sviluppare questo modello teorico che si basa su quattro pilastri: la bontà originaria della persona per il semplice fatto di essere; la vita intesa come cambiamento, evoluzione; la realizzazione personale attraverso il dono di sé, e il riconoscimento dell’amore incondizionato di Dio per ogni persona. A partire da queste basi, Vitz ha integrato diverse tecniche per rispondere ai problemi specifici di ogni consultazione. Anche in questo caso si tratta di una pratica psicologica illuminata dalla fede cattolica, ma non di un tentativo psicologico di spiegare la fede cattolica..

 

7. La chiave personale della fede e della psicologia

Alla fine del nostro percorso, possiamo concludere che l’opera di Fernández, che ci è servita come punto di partenza, Teología espiritual encarnada, non integra adeguatamente un’idea di spiritualità conforme alla Tradizione. Questo limite rende difficile il dialogo con la psicologia, in quanto le due dimensioni non sono articolate. Un’articolazione adeguata potrebbe essere costruita a partire da una prospettiva personalista, considerando cioè la religione come una relazione personale con la divinità. Tuttavia, ciò richiede l’adozione di un’antropologia adeguata, concependo l’uomo come uno in corpo e anima, creato, caduto e redento. Senza queste due note, né il dinamismo personale della fede né la realtà della concupiscenza sarebbero ben integrati nella terapia psicologica.

Tuttavia, grazie al riferimento alla concupiscenza, abbiamo potuto, a partire dal testo, entrare nell’analisi delle “incongruenze psicologiche” e, partendo da queste, avanzare una proposta che integra fragilità, dolore e misericordia. Questo sarebbe un esempio di integrazione teorica tra antropologia, psicologia e teologia. Nel nostro studio abbiamo raccolto due modelli, quello di Andereggen e quello di Vitz, che propongono in modo conveniente questo punto di partenza di un’antropologia cattolica per la riflessione e la pratica psicologica. Entrambi i modelli evidenziano l’importanza che gli psicologi abbiano una conoscenza ampia e profonda della filosofia, purtroppo non valorizzata nelle università odierne, a volte nemmeno in quelle cattoliche. I futuri psicologi devono avere studiato e riflettuto a fondo sulla questione mente-corpo per conoscere le varie proposte che si sono succedute dagli albori della filosofia greca fino agli attuali modelli di AI.

Il dialogo tra psicologia e fede è un’esigenza intrinseca all’esperienza umana. Nel mondo secolarizzato in cui viviamo, assistiamo costantemente a un aumento dei disturbi psicologici. Come dimostrato dalla psicologia, a partire da The Varieties of Religious Experience di William James fino a Authentic Happiness di Martin Seligman, la religione è un fattore stabilizzante nella vita umana. Tuttavia, la cultura occidentale, basandosi tra l’altro su Freud, ha rifiutato e liquidato la fede come un’invenzione dannosa per le persone. Ma contrariamente a quanto sostiene M. Power, questo rifiuto non è una questione di scienza psicologica[41]; infatti, Paul C. Vitz, che abbiamo citato, ha seguito la strada opposta a quella di Power. La fede è una questione personale, ma questo non significa che sia solo un’idea interiore, come abbiamo visto, perché “all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”[42].

[1] Cf. A. Adler, El sentido de la vida (Madrid 1975). A. Maslow, Religiones, valores y experiencias cumbre (Barcelona 2013). G. W. Allport, The individual and his religion (New York 1954).

[2] Cf. A. Vergote, Psicología religiosa (Madrid 1969).

[3] V. M. Fernández, Teología espiritual encarnada: profundidad espiritual en la acción (San Pablo, Buenos Aires 2005). En adelante citado como TEE.

[4] V. M. Fernández, La gracia y la vida entera. Dimensiones de la amistad con Dios (Herder, Barcelona 2000).

[5] S. Francisco de Sales, Introducción a la vida devota, parte I, cap. 3. Oficio de Lectura del 24 de enero.

[6] Que el Espíritu Santo es Persona, es Don y es Amor se corresponde con las cuestiones 36-38 de la Prima Pars de la Summa Theologiae de Sto. Tomás, a quien Fernández cita con relativa frecuencia. Cf. J. J. Pérez- Soba, Amor es nombre de persona. Estudio de la interpersonalidad en el amor en Santo Tomás de Aquino (Roma 2001).

[7] Cf. J. Prades, “Deus specialiter est in sanctis per gratiam”. El misterio de la inhabitación de la Trinidad en los escritos de Santo Tomás (Roma 1993).

[8] Para una conveniente exposición sobre este tema, cf. J. Noriega,  Guiados por el Espíritu. El Espíritu Santo y el conocimiento moral en Tomás de Aquino (Roma 2000); J. D. Larrú, Cristo en la acción humana según los comentarios al Nuevo Testamento de Sto. Tomás de Aquino (Roma 2004).

[9] Esta cuestión de la relación entre la religión y la cultura se trata particularmente en el capítulo 6 de TEE. En este capítulo se viene a afirmar que la religión es una forma cultura, y no tanto que la religión transforme elevando cada cultura, que es la enseñanza que, apoyándose en el Evangelio, ha recogido la Tradición desde la Carta a Diogneto hasta Gaudium et spes.

[10] De hecho es la cita que aparece en la n. 341 del cap. VII de Amoris Laetitia.

[11] Cf. S. Ambrosio, Exposición sobre el evangelio de san Lucas, 7, 73: CCL, 14,238-239.

[12] Cf. J. M. Esquirol, Humano, más humano. Una antropología de la herida infinita (Acantilado, Barcelona 2021).

[13] Cf. A. Llenas, Vacío (Penguin, Barcelona 2022).

[14] Esta ausencia de referencia escatológica se percibe de modo particular en el capítulo 5 de TEE.

[15] cf. GeE 35ss, nota 33.

[16] Cf. V. M. Fernández, La gracia y la vida entera. Dimensiones de la amistad con Dios (Herder, Barcelona 2003).

[17] Cf. F. J. Labrador et al., Manual de técnicas de modificación y terapia de conducta (Pirámide, Madrid 1997), 667-709.

[18] Considerando este aspecto, hemos revisado dos libros de espiritualidad que cita el autor. La obra de F. Ruiz Salvador, Caminos del Espíritu. Compendio de Teología Espiritual (EdE, Madrid 51998) tampoco hace referencia a la dimensión sacramental ni al papel de María y los santos en la vida espiritual. En cambio, Ch. A. Bernard, Teología espiritual. Hacia la plenitud de la vida en el Espíritu (Atenas, Madrid 21997), sí que incluye tanto la perspectiva sacramental como la mariana. Lo mismo encontramos en otras dos obras bien diversas, por un lado la de T. Spidlik, La espiritualidad del oriente cristiano (Monte Carmelo 2004, el original en francés es de 1978), y por otro la de J. Ribera – J. M. Iraburu, Síntesis de espiritualidad católica (Edibesa, Madrid 2003).

[19] TEE, 119: “En resumen, la religión es la sustancia de la cultura, y la cultura es la forma de la religión”. Esta cita, que recoge del teólogo luterano P. Tillich, es comprensible, pero no precisa. En todo caso, si consideramos la cultura como la expresión humana (lenguaje, cantos, construcciones, formas de trabajo, de relación, etc.), sería más bien esta la materia que viene a ser informada por la religión, es decir, por la forma que el Espíritu infunde. Se trata de una precisión terminológica, de carácter metafísico, pero que tiene su importancia. Si la religión fuera la substancia, supondría ya la presencia del Espíritu en la acción espontánea del hombre. Podríamos aceptar esta perspectiva para la religión natural, movida por la espontánea atracción de la criatura al Creador, pero no para la inhabitación del Espíritu Santo en los bautizados, como hemos comentado ya en nuestro estudio.

Más adelante (p. 120), sigue: “Por la acción del Espíritu, el lenguaje más adecuado y el modo nuevo de expresar esto, tenderá a surgir luego, de un modo espontáneo, de la misma cultura. Es lo que puede describirse como una sacramentalidad no instituida ni ofrecida por la Iglesia oficial, sino “inducida” en el seno del pueblo por la acción de la gracia que se encarna en una cultura”. Eso supone una concepción errónea de la sacramentalidad, que no parte de la institución divina, sino que la considera como una invención humana. Confunde la expresión personal de la fe con la sacramentalidad, lo que es un gravísimo error. No es la “Iglesia oficial” la que ofrece los sacramentos, sino Dios mismo, por eso la Iglesia no los puede alterar. La misma consideración de “Iglesia oficial” impide precisamente una consideración integral, unitaria de la Iglesia-Cuerpo de Cristo. En toda la obra se percibe esta tensión entre “lo institucional” y “lo popular”, al tiempo que se duda de que sea el mismo Espíritu el que anime ambas, pues parece que el Espíritu anima más verazmente en “el pueblo” que en “la institución”. La cuestión aquí sería cómo anima el Espíritu al autor, dado que pertenece a la Iglesia institucional por ser sacerdote. ¿No tendrían que ser, entonces, los laicos quienes escribieran los tratados de espiritualidad, incluso para el clero, porque en ellos actúa más y mejor el Espíritu? Si esto fuera así, quedaría en entredicho el “munus docendi” de los sacerdotes, y contradeciría también la enseñanza, por ejemplo, de S. Francisco de Sales, acerca de la devoción propia de cada estado y los frutos que han de esperarse de cada uno.

Esta desconfianza en la institución parece que tiende a subsanarse con una forma de democratización eclesial, aunque, al final, volverá a haber unos líderes institucionales. Si volvemos a aplicar la crítica que sigue Fernández, estos líderes volverán a apartarse del Espíritu, o el Espíritu de ellos. Es evidente que lo que vemos es muy cercano al planteamiento hegeliano-marxista. Considero que la raíz de este error radica en una comprensión de la fe, que no integra bien la presencia real de Dios en los hombres, y su capacidad de acción en la historia humana al colaborar con la acción de cada persona particular, tanto de la supuesta “Iglesia oficial” como de la “Iglesia popular”.

[20] Cf. L. M. Rulla et al., Antropología de la vocación cristiana (2 vols.), (Atenas, Madrid 1994). Esta obra tiene sus raíces teóricas en otra anterior, que es a la que nos referiremos aquí: L. M. Rulla, Psicología profunda y vocación (2 vols.), (Atenas, Madrid 1985). Nos centramos en el volumen segundo. Es importante notar que la edición original fue publicada en Chicago en 1971, pues esto permite centrar el ámbito psicológico y teológico en que aparece.

[21] Así lo determinaba ya hace años uno de los pioneros en psicología de la religión, el sacerdote belga que hemos citado al inicio de nuestro estudio: A. Vergote, Modernidad y cristianismo (Madrid 2002), 95.

[22] Es justamente lo que intenta M. Power, Adieu to God. Why Psychology leads to Atheism (Oxford 2012).

[23] A. Damasio, El extraño orden de las cosas (Destino, Barcelona 2018), 333: “No tenemos ninguna explicación científica satisfactoria sobre los orígenes y el significado del universo; en pocas palabras, carecemos de teoría alguna de todo lo que nos concierne. Esto nos recuerda de manera serena lo modestos y provisionales que son nuestros esfuerzos y la enorme apertura de miras que necesitamos para enfrentarnos a lo desconocido”.

[24] Id., Sentir y saber (Destino, Barcelona 2021), 186: “Detrás de la armonía o del horror que reconocemos en las grandes obras de arte creadas por la inteligencia y la sensibilidad humanas, se hallan los sentimientos relacionados con el bienestar, el placer, el sufrimiento y el dolor. Detrás de estos sentimientos hay estados vitales que siguen o infringen los requerimientos de la homeostasis. Y bajo la superficie de cada uno de estos estados vitales hay procesos químicos y físicos combinados responsables de la viabilidad de la vida y de sintonizar la música de las estrellas y los planetas”.

[25] Cf. J. Pérez-Castells, Neuronas y libre albedrío. Sobre neurociencia y libertad (Digital Reasons, Madrid 2018).

[26] Cf. A. Newberg, Neurotheology. How science can enlighten us about spirituality (Columbia University Press, N. York 2018).

[27] La fragilidad es uno de los temas que más ha desarrollado el papa Francisco. Cf. L. Capantini – M. Gronchi, La vulnerabilità (San Paolo, Milano 2018). Este tema, la teología de la fragilidad, es uno de los tres pilares de la reflexión dentro del Veritas Amoris Project, junto a la teología del cuerpo, del papa Juan Pablo II, la teología del amor, del papa Benedicto XVI.

[28] Cf. R. Sacristán, Movidos por el amor. Análisis del dinamismo afectivo (UESD, Madrid 2020), 89-114.

[29] Santo Tomás recoge la tradición de Nemesio de Emesa (s. II), transmitida por S. Juan Damasceno, diciendo que “Si la tristeza procede de un mal que es de otro, y por aquí se aprehende el mismo mal entristecedor, esto es misericordia”, cf. Sto. Tomás de Aquino, Super Sententiarum III, d, 26, q. 1, a. 3, resp.

[30] La obra principal de referencia es: Ch. Peterson– M. Seligman, Character Strengths and Virtues. A Handbook and Classification (New York 2004). Sin embargo, la primera presentación de la teoría fue en: M. Seligman y M. Csikszentmihalyi, “Positive Psychology. An introduction”: American Psychologist 55 (2000) 5-14. También tuvo gran relevancia: M. Seligman, La auténtica felicidad (Barcelona 2011, original inglés 2002).

[31] Cf. G. Pérez Rojo – A. Chulián Horrillo, “Personalidad”, en: M. L. Delgado Losada, Fundamentos de psicología (Panamericana, Madrid 2014), 175-178.

[32] Cf. L. Melina – J. Noriega – J. J. Pérez-Soba,  Caminar a la luz del amor. Los fundamentos de teología moral (Palabra, Madrid 2007), 467.

[33] Cf. R. Sacristán, Movidos por el amor. Análisis del dinamismo afectivo (UESD, Madrid 2020).

[34] La cita que recoge Fernández del teólogo suizo es: H. U. von Balthasar, “¿Psicología de los santos?”: Diálogo 1 (1954), 34-36.

[35] Cf. P. Fransen, “Hacia una psicología de la gracia”, en: A. Godin (dir.), La incógnita religiosa del hombre (Salamanca 1969), 17.

[36] Cf. Juan Pablo II, Carta Enc. Veritatis Splendor, nn. 65-69.

[37] Questo è il titolo del volume curato da: I. Andereggen – Z. Seligmann, La psicologia di fronte alla grazia (Dionysius, Roma, 2020).

[38] Cf. I. Andereggen, “Santo Tomás psicólogo”, en: Id., Antropología profunda. El hombre ante Dios según santo Tomás y el pensamiento moderno (EDUCA, Buenos Aires 2008), 353-365.

[39] Cf. M. F. Echavarría, De Aristóteles a Freud, y vuelta (CorIesu, Toledo 2021).

[40] Cf. P. C. Vitz et al., Un meta-modelo cristiano católico de la persona (UFV, Madrid 2021).

[41] Cf. supra, n. 22.

[42] Benedicto XVI, Carta Enc. Deus caritas est, 1.

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Raúl Sacristán López

Raúl Sacristán

Raúl Sacristán è professore associato presso la Facoltà di Filosofia dell'Università Ecclesiastica di Università San Dámaso di Madrid. È sacerdote diocesano di Madrid. Ha conseguito il dottorato in teologia presso l’Università San Dámaso ed è laureato in psicologia presso l'Università Complutense di Madrid.

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