Da “protagonista” a “cortigiana”. Quale rapporto tra Chiesa e modernità?

Furio Pesci

Una riflessione utile per iniziare

Il tema del rapporto tra Chiesa e mondo moderno può essere affrontato da prospettive disciplinari molto diverse tra loro: è possibile farlo, ad esempio, su un piano strettamente filosofico-teologico, oppure dal punto di vista di una ricostruzione storica e/o storico-culturale, senza tralasciare la molteplicità di apporti che possono venire da discipline come la sociologia, l’antropologia culturale, la stessa pedagogia, che è il campo di studio specifico dello scrivente.

Personalmente comincerei a discutere la questione partendo da una citazione, molto nota, del filosofo Andrea Emo, un breve brano tratto dai sui famosi taccuini, in cui raccolse migliaia di riflessioni e di appunti, non per destinarli alla pubblicazione (come si sa, questo singolare discendente di una delle famiglie patrizie venete più famose, nel secolo scorso rimase del tutto appartato rispetto alla temperie culturale del suo tempo), ma per continuare giorno per giorno una riflessione, una meditazione, quasi un soliloquio, che sarebbe durato per tutta la vita e che soltanto dopo la sua morte, grazie all’iniziativa della moglie, che sottopose i taccuini del marito a Massimo Cacciari e, poi, ad altri studiosi, è uscita letteralmente dagli armadi della sua residenza per giungere sugli scaffali delle librerie, grazie all’interessamento editoriale di Giovanni Reale e della casa editrice che ha pubblicato una raccolta ampia e significativa dei testi di Emo, anche se molto è tuttora inedito.

L’osservazione di Emo è, in effetti, un buon punto di partenza per considerare senza pregiudizi ciò che è stato il rapporto tra la Chiesa e il mondo nella storia, e alla luce di questa visione più generale verificare anche ciò che ha caratterizzato questo rapporto durante la modernità e ciò che caratterizza oggi il rapporto, per molti versi ambiguo, tra la Chiesa e il mondo contemporaneo (globalizzato, liquido) che in questi giorni è sul punto, forse, di andare in frantumi.

Scrive Emo che la Chiesa è stata per molti secoli “la protagonista della storia”; successivamente ha assunto la parte “non meno gloriosa di antagonista della storia”, ma nel nostro tempo è “soltanto la cortigiana della storia”[1]. Certamente si tratta di affermazioni che potrebbero essere considerate grossolane, per così dire, se analizzate con la lente d’ingrandimento di una storiografia accurata e interessata a cogliere tutta la complessità e le mille sfaccettature che qualsiasi periodo storico, e a maggior ragione le epoche nella loro interezza, possiede; ma, a mio avviso, contengono molta verità, che andrebbe adeguatamente soppesata.

Qualche conferma sul piano storico

Quando Emo si riferisce alla Chiesa come “protagonista della storia”, ha in mente il lungo periodo che va dalla tarda antichità fino al tramonto del medioevo, un periodo (quasi un millennio) il cui punto di partenza può essere rintracciato nel momento in cui l’Impero romano diventa cristiano, qualunque cosa sia stata effettivamente la cosiddetta “conversione” di Costantino, e il punto d’arrivo è costituito da un lungo periodo di circa duecento anni, tra il quattordicesimo e il quindicesimo secolo, in cui, sia sul piano sociale e politico sia sul piano culturale, l’autorevolezza della Chiesa è messa in discussione e decisamente revocata sulla spinta di nuovi fenomeni che segnano la fine dello stesso Medioevo: dall’apparire di nuovi centri di potere (le monarchie nazionali) alla crisi del sistema feudale (nonostante la sua struttura sociale si mantenga per molti secoli ancora, tanto da diventare nel diciassettesimo e diciottesimo secolo obiettivo polemico dell’Illuminismo e di ogni progetto di riforma, fino alla crisi rivoluzionaria di fine Settecento), all’affacciarsi di una molteplicità di nuove correnti culturali che metteranno in secondo piano gli epigoni della tradizione filosofico-teologica medievale. L’Umanesimo e la rivoluzione scientifica sono fenomeni indiscutibilmente tipici della transizione dal medioevo alla modernità e caratterizzano profondamente l’atteggiamento moderno in quanto tale.

La Chiesa è effettivamente in questo lungo periodo protagonista, in quanto investita e riconosciuta come garante di un potere politico articolato in istituzioni caratterizzate dalla sostanziale sovrapposizione della sfera civile e di quella ecclesiastica, in una convergenza di interessi che le istituzioni universalistiche medievali, il papato e l’impero, nonostante le continue tensioni e fibrillazioni (la cosiddetta “lotta per le investiture”, la “cattività avignonese”) tenteranno di conservare anche di fronte all’affacciarsi dei nuovi centri di potere e allo sgretolamento dell’economia feudale a tutto vantaggio delle nuove attività imprenditoriali tipiche della città e della classe borghese (costituita inizialmente, come indica il nome stesso, da “abitanti delle città”, in cui nuove forme di ricchezza, diverse dalla proprietà fondiaria, prendevano sempre più piede e sarebbero giunte, nell’arco di secoli ma inesorabilmente, a sopravanzare il potere della nobiltà di tutta Europa).

La chiesa diventa, allora, “antagonista” in questo nuovo contesto caratterizzato, come sarà tutta la modernità, dalla frantumazione del potere, dalla sua distribuzione tra centri di dimensioni e influenza molto varie, ma comunque tutti dotati di un interesse specifico verso la rimozione di ogni potere e autorità “universalistici”. La lotta delle monarchie nazionali contro l’Impero, l’azione, non comune e condivisa, ma perseguita da ciascuna di esse singolarmente, per limitare il potere ecclesiastico sul proprio territorio, esautorandolo delle sue prerogative civili e amministrative, sono capitoli fondamentali nella genesi della modernità e di tutta la storia dell’Occidente moderno.

È da qui che parte, del resto, ciò che si intende per “secolarizzazione”, vale a dire il processo che porterà le masse, e non più soltanto élite di carattere socio-politico o culturale, lontano e fuori dalla Chiesa, sia dalla Chiesa cattolica sia dalle stesse nuove realtà del mondo “protestante”, generando una crisi che in pochi secoli diventerà evidente nella sua estensione dal Nord al Sud dell’Europa, sia pure con grandi differenze d’intensità e grandi sfasature sul piano cronologico da un territorio all’altro, da uno Stato all’altro.

Non è possibile ricapitolare con maggiori dettagli il processo qui accennato, ma penso che non sia nemmeno necessario farlo, dato che si tratta di un capitolo di storia ormai ampiamente trattato anche nei manuali scolastici e universitari, sia pure con una tendenziosità sulla quale, semmai, si potrebbe fare qualche osservazione, dato che la pretesa obiettività del discorso e del metodo della storiografia entra in crisi esattamente a proposito di questo fenomeno, che inevitabilmente le opzioni ideologiche dei singoli studiosi portano a concepire e a valutare e interpretare in forme e con giudizi molto diversi tra loro, persino opposti[2]. La storia della secolarizzazione è un insieme di eventi e fenomeni ancora oggi, o forse proprio oggi più che in passato, fonte di dibattito (nel migliore dei casi) o (nel peggiore) di vere e proprie alterazioni e imposture ideologiche.

Quando Emo si riferisce a quello che chiama “antagonismo”, esercitato dalla Chiesa nella storia, si riferisce evidentemente alla posizione tenuta per circa mezzo millennio in Occidente nel contesto di una secolarizzazione che trasformerà profondamente sia i costumi di massa sia i rapporti di potere, emarginando sempre più, di fatto, la Chiesa rispetto alle vicende sociali, economiche e politiche, riducendo inesorabilmente, anche se lentamente, la sua presenza nella società e nella cultura, e il suo stesso peso economico, oltre che politico e diplomatico.

La Chiesa in queste dinamiche avverse tenterà una difesa strenua fino a quando, con le due guerre mondiali, risulterà evidente la sua “obsolescenza”, la sua sostanziale debolezza in un mondo ormai quasi completamente avverso. A temere questa nuova situazione sarà, tra i primi, almeno una parte dei dignitari ecclesiastici, e nascerà da qui una profonda dialettica che caratterizza tuttora, direi, la vita interna della Chiesa e la cultura cattolica contemporanea.

Nell’ultimo secolo è apparsa sempre più evidente la necessità di un ripensamento del rapporto tra Chiesa e “mondo”. Una volta entrato in crisi il presupposto dell’autorevolezza millenaria riconosciuta alla Chiesa, la Chiesa stessa (utilizzo questa parola, ovviamente, sul piano strettamente “sociologico”) ha dovuto fare i conti con la necessità di rivedere la sua stessa identità e presenza nel mondo contemporaneo. Ciò ha spinto una parte delle stesse gerarchie ecclesiastiche ad abbracciare, talvolta ingenuamente, istanze estranee alla tradizione ecclesiastica, semplicemente per il timore di perdere quei pochi “appigli”, quei resti di potere non ancora persi del tutto.

Si tratta di un atteggiamento, in fondo, inconfessato, ma sempre più evidente e, forse proprio negli anni successivi alla morte di Emo, ancora più dolorosamente all’opera nella vita della Chiesa, nel suo travagliato rapporto con il mondo secolare, un mondo, come dice giustamente il filosofo Charles Taylor, in cui, diversamente da qualsiasi altra epoca e cultura, sono pochi coloro che credono nell’esistenza di Dio rispetto alla maggioranza non credente, e in cui è più facile, più agevole, più gratificante dichiararsi non credenti piuttosto che credenti[3].

Dal verum al factum: le trasformazioni del “paradigma” culturale moderno

Chi ha effettivamente, a mio avviso, interpretato (con molta lungimiranza, peraltro) queste trasformazioni applicando la propria ermeneutica sia all’attualità presente sia all’indagine storica, è stato, in ambito ecclesiale, Joseph Ratzinger nella sua celebre Introduzione al cristianesimo[4], il cui primo capitolo è sostanzialmente una ricostruzione storica della vicenda che porta la Chiesa a mutare radicalmente la propria posizione rispetto al mondo[5].

Mi vorrei soffermare in particolare sulla domanda che si pone Ratzinger a proposito della situazione moderna e contemporanea: è ancora possibile credere, nel mondo attuale? In questa domanda, a cui è intitolato, appunto, il primo capitolo dell’opera, si riassume, in effetti, gran parte delle questioni che possiamo affrontare al riguardo del tema posto in questa discussione.

Ratzinger parte dalla considerazione di un pensatore come Vico (ma avrebbe potuto sicuramente prendere le mosse da vari altri grandi nomi della cultura europea moderna) per segnalare un passaggio fondamentale che, a suo avviso, caratterizza l’intera cultura occidentale nel momento della transizione alla modernità[6]. Con le parole di Vico, dunque, la storia della nostra cultura vede il principio tipicamente storicistico, sostenuto dal filosofo napoletano con lucidità e precorrendo consapevolezze che risulteranno chiare solo più tardi (Verum est factum), subentrare al principio che aveva retto tutta la cultura classica e medievale e su cui metafisicamente si saldava la connessione e la continuità tra la cultura classica stessa e il cristianesimo, sulle cui basi sarebbe nato ciò che culturalmente chiamiamo Occidente ed Europa: Verum est ens[7].

In questo passaggio è racchiusa la vicenda della fine della metafisica nell’orizzonte culturale europeo, un percorso che impiegherà circa mezzo millennio per compiersi pienamente e che, peraltro, sarà caratterizzato da una molteplicità di manifestazioni e di fenomeni molto complessa, anche rispetto alla ricostruzione che ne fa efficacemente lo stesso Ratzinger, il quale avverte i suoi lettori di questa profonda complessità.

Dalla crisi della scolastica (una crisi “interna”, quasi un’implosione) nel Trecento alla identificazione kantiana dei “sogni di un visionario” con i “sogni della metafisica” trascorre l’intero arco cronologico che siamo soliti definire come età moderna – un’età, in effetti, che sotto la sua unitarietà cela profonde fratture, crisi che danno vita a periodizzazioni più specifiche, compresenze di orientamenti contrastanti che devono essere sempre tenute in considerazione nella ricostruzione storiografica e nel lavoro ermeneutico, perchè è proprio nei contrasti che si coglie l’essenza dei fenomeni caratterizzanti il moderno.

Anzi, la modernità in quanto tale si può rappresentare e definire solamente attraverso una contrapposizione a tutto ciò che moderno non appare più agli occhi di chi sostiene la modernità. La stessa celebre discussione (querelle) tra antichi e moderni (forse l’atto di nascita, dal punto di vista degli studi storici, della sensibilità moderna) mette in evidenza l’intima necessità del moderno di definirsi per contrasto, oltre, o piuttosto che, per i suoi caratteri intrinseci.

L’atteggiamento premoderno è caratterizzato dalla formula metafisica che identifica il vero con l’essere e che procede, sulla base di questa identificazione, anche ad altre identificazioni, prima fra tutte quella con il bene; ed è su questo pilastro che, ben aldilà dei “tecnicismi” del pensiero e del linguaggio, tipici della filosofia occidentale, si costruisce e si mantiene per un millennio quasi la mentalità che i moderni cercheranno di scardinare, riuscendovi non tanto nella versione vichiana di uno storicismo ancora, e troppo, ante litteram, ma in un plurisecolare lavoro di logoramento del sapere antico, e perciò stesso tacciato come “antiquato”, non più al passo dei tempi (tempi di “progresso”) condotto da una molteplicità di posizioni “offensive” che riescono ad aver ragione della cultura antica e medievale, ormai sulla difensiva, e della stessa Chiesa, l’istituzione che più di tutte le altre aveva perseguito un’opera di contenimento dell’espansione delle nuove idee e che perciò stesso sarebbe divenuta agli occhi dei moderni l’obiettivo polemico principale in quanto depositaria e garante di un ordine e di un potere che dovevano essere solo abbattuti.

Il comune denominatore dei molteplici fenomeni socio-culturali che caratterizzano la modernità è, appunto, la sostituzione della nozione metafisica di verità-essere-bene (i “trascendentali” della filosofia classica) con la concretezza limitata del “fatto” (factum) di ciò che è il risultato dell’opera dell’uomo, di ciò che è comprensibile all’intelletto umano, di ciò che è oggetto della percezione dell’uomo nella sua struttura materiale e concreta, così delimitando e chiudendo l’orizzonte dello sguardo umano che si ritroverà sempre più “solitario” in un universo in gran parte incomprensibile e alieno[8].

Sarà proprio questa alienazione a divenire uno degli aspetti più caratteristici della condizione moderna ed anche una delle difficoltà più grandi nel rapporto tra Chiesa e mondo, dato che la limitazione dell’orizzonte del sapere autentico al “fenomeno” (per usare ancora una celebre nozione kantiana) costituirà una delle principali fonti di disagio per il sapere orientato dal cristianesimo, non solo per l’allontanamento delle élite intellettuali dalla fede ma anche per la trasformazione di mentalità che le masse subiranno, diffondendosi sempre più la non-credenza come atteggiamento intellettuale considerato “forte” ed ora anche tutelato, quasi privilegiato dal punto di vista politico e amministrativo, dal momento che saranno gli stessi Stati a dichiarare la propria lontananza da qualsiasi identità e posizione religiosa confessionali.

Naturalmente, per spiegare anche sul piano sociale questo fenomeno occorrerebbe ripercorrere la strada che porta nella tarda antichità alla saldatura tra pensiero cristiano e pensiero filosofico, tra fede e metafisica, all’identificazione dell’essere con Dio (con il Dio biblico, cristiano). Anche in questo caso si tratterebbe di vincere ostacoli posti dalle odierne attitudini intellettuali e culturali, poco propense in genere a “mettersi nei panni” per così dire, degli uomini di epoche diverse dall’attuale (ed anche a praticare quella “ermeneutica oggettiva” che intende comprendere il “dato”, il “documento” dal suo interno, invece che dal punto di vista sempre soggettivo dell’interprete), e sempre in cerca di obiettivi polemici da contrastare, possibilmente da abbattere, come nel caso del decostruzionismo e della cosiddetta, funesta, cancel culture. Il timore di cadere in “grandi narrazioni”, per la loro stessa ampiezza portatrici di errori di valutazione e, peggio ancora, fondate su pregiudizi, rende difficile il dialogo tra studiosi.

Per non parlare di difficoltà interne agli stessi studi storico-religiosi e, forse, anche teologici di fronte a tendenze recenti che hanno di fatto portato a distinguere, a mio avviso troppo radicalmente e, sul piano storico, troppo ingenuamente, ciò che sarebbe “biblico” da ciò che, invece, apparterrebbe ad una sovrastruttura culturale identificabile con la mentalità e la cultura greche dei teologi e, in genere, dei pensatori cristiani che tra il secondo e il quarto secolo utilizzarono la cultura classica, e in particolare la filosofia, nell’esposizione delle verità di fede e dei costumi cristiani; dimenticando, peraltro, in questa interpretazione/distinzione in voga nella Chiesa cattolica soprattutto dopo il Concilio, che la convergenza tra fede cristiana e filosofia fu uno degli aspetti più significativi e tipici del nuovo atteggiamento intellettuale cristiano, necessario per la stessa evangelizzazione di masse ancora in gran parte pagane e per “comprendere” e “spiegare”, “annunciare” in profondità il mistero di un Dio come quello cristiano che, ben diversamente dalle entità divine celebrate dal politeismo pagano, è buono essenzialmente, è Amore ed ha creato tutto l’universo per una “sovrabbondanza” d’amore con la quale lo governa tuttora, un Dio perfetto che nella sua perfezione non può che essere uno solo e rispetto al quale tutte le rappresentazioni mitologiche e cultuali pagane, popolate di dèi volubili, litigiosi, gelosi degli uomini, capaci delle bassezze più nefande, apparivano in tutta la loro erroneità e mettevano in una luce ancora più convincente la verità della fede cristiana[9].

Le conseguenze dell’atteggiamento moderno nei riguardi dei criteri che permettono di distinguere il sapere autentico da quello inautentico e falso ricadono quindi immediatamente anche sul piano dei contenuti della fede religiosa e della sua comprensibilità. È occorso molto impegno per approfondire fenomeni e posizioni che, tra il quattordicesimo e il ventesimo secolo, hanno portato a compimento la secolarizzazione di tutto l’Occidente; qui può bastare il riferimento allo studio di Ratzinger e alla bibliografia in esso citata per cogliere un dibattito che fu all’epoca cruciale. Il testo apparve nella sua prima edizione alla fine degli anni Sessanta e rispecchia un dibattito che caratterizza gli anni successivi al Concilio Vaticano II, anni decisivi per la dialettica rintracciabile tra almeno tre “correnti” presenti all’interno della cultura cattolica: la prima era quella, probabilmente maggioritaria, di coloro che già prima dell’indizione del Concilio sostenevano la necessità di un nuovo linguaggio con cui la Chiesa avrebbe potuto più efficacemente presentare le verità di cui è depositaria ad un mondo, ad una umanità sempre più sordi, identificando quindi i cambiamenti e le riforme proposte come necessarità sul piano pastorale, senza mettere in discussione i contenuti del messaggio cristiano; una seconda corrente raccoglieva coloro che non consideravano, invece, necessario questo adeguamento di linguaggio e che, quindi, anche nell’aula del Concilio stessa avrebbero assunto un atteggiamento che sarebbe risultato facile definire schematicamente come “conservatore”, se con tale termine si vuole indicare, in generale, l’atteggiamento di chi non ritiene necessario alcun cambiamento rispetto al passato; infine, quella di coloro che intendevano il cambiamento richiesto anche sul piano dei contenuti stessi, come un’occasione per aggiornare non soltanto linguaggi, ma anche la sostanza del messaggio della Chiesa.

La riflessione di Ratzinger, prima della sua elezione come successore di Pietro, ed anche durante il suo pontificato, fino agli anni più vicini a noi, mi sembra caratterizzata da una profonda comprensione di queste dinamiche presenti nel passato recente e nel presente della Chiesa e della storia del cristianesimo.

Dal factum al faciendum. Il trionfo della tecnica e il “superamento” della modernità

Questa comprensione si coglie anche nel passaggio successivo dell’argomentazione di Ratzinger nell’Introduzione al cristianesimo, allorché descrive il modo in cui, all’interno dell’atteggiamento moderno avvenga progressivamente una radicalizzazione, per così dire, che spinge ad abbandonare anche la posizione vichiana, tipica in fondo di ogni storicismo (e non bisogna dimenticare che la mentalità storicistica è tipica di tutto il pensiero moderno e contemporaneo, quantomeno per la sua attitudine inesorabilmente soggettivistica), per abbracciare una posizione che sfocia apertamente nell’irrazionale: se comprensibile all’uomo è soltanto ciò che è opera delle sue mani, il factum, questa verità nella sua radicalità non può divenire altro che la negazione della comprensibilità del factum stesso e il riorientamento del sapere nei confronti, non tanto della storia, di ciò che è il prodotto, l’esito dell’agire umano, ma piuttosto nei confronti dell’agire stesso.

Come sostiene efficacemente Ratzinger, al factum si sostituisce il facendum: e non cambia molto, in fondo, se questo nuovo atteggiamento si formerà nell’ambito della dialettica storicistica (per esempio, nella sinistra hegeliana e in Marx)[10], o in quello del positivismo tecnocratico ottocenteschi. Il sapere autentico è sapere di ciò che è fattibile, controllabile ripetibile; non il passato, ma un presente quasi “condannato” al proprio futuro e che trova nella propria realizzabilità futura l’unica ragione d’essere anche rispetto agli esiti già raggiunti, svalutando sostanzialmente non più solo ciò che si colloca aldilà del fenomeno, ma il fenomeno stesso, ammissibile solo in quanto “processabile”[11].

Adesso è solo il “processo” (il modo del procedere quasi più che il suo obiettivo, sempre ridefinibile) che interessa, aprendo qui la strada al trionfo della tecnica in ogni settore della vita umana; innanzitutto, nell’ambito della produzione dei beni materiali, ma anche nella vita della mente, nelle pratiche sociali condivise[12]. E il primato del “pratico”-“tecnico” si affaccia anche, dispiace dirlo, nella Chiesa stessa, nel momento in cui alla preoccupazione di conservare e trasmettere nella sua integralità capace di riempire la vita degli uomini di senso, di significato, il messaggio cristiano, il kerigma, il dogma, i comandamenti, la saggezza della Chiesa, anche quella morale e pratica, si sostituisce la preoccupazione di gestire bene le comunità, ormai popolate da membri paradossalmente spesso lontani dall’ortodossia e/o dall’ortoprassi, e di tenere buoni rapporti con il mondo e con la ormai straripante maggioranza dei non credenti.

La “cortigianeria” della Chiesa si esprime, forse, se vogliamo tenere presenti le parole di Emo per discutere del rapporto problematico della Chiesa con il mondo contemporaneo (un mondo che si definisce, nella comprensione che ha di sé, ormai come postmoderno) nell’incapacità di proporre una cultura alternativa al primato del “pratico” e del “tecnico”, che rischiano di invadere il dominio stesso della vita morale e spirituale.

D’altra parte, dovremmo guardare anche alle sfide che il presente pone; la voce forse più significativa delle tendenze della società e della cultura contemporanee è, forse per la prima volta nella storia occidentale, un ingegnere: Klaus Schwab, fondatore e principale animatore del celebre World Economic Forum di Davos, in Svizzera. Autore di libri che costituiscono, a mio avviso, una lettura imprescindibile per comprendere la situazione del nostro tempo e le sue prospettive, Schwab ha descritto le molteplici direzioni dello sviluppo tecnologico in atto e le sue ricadute sul piano sociale, un insieme di fenomeni che si possono identificare come una vera e propria nuova rivoluzione industriale, la quarta, che sta cambiando sostanzialmente il nostro mondo e il nostro tempo[13].

Schwab, in particolare, ha preconizzato nel 2016, sulla base di ricerche condotte nell’ambito del Meeting di Davos, un insieme di trasformazioni il cui “punto di svolta” era previsto nel 2025 (quindi, tra pochissimo); non è facile stabilire se la pandemia, la guerra, l’inflazione e le carestie attuali (e “prossime venture”) influenzino le tappe e i tempi di questa “rivoluzione”. Con una proposta che ha fatto molto discutere negli ultimi due anni, Schwab ha ipotizzato che questi fenomeni possano ricevere addirittura un’accelerazione da questi eventi e determinare il cosiddetto great reset, una prospettiva di riorganizzazione planetaria improntata all’affermazione definitiva delle nuove tecnologie in ogni ambito della vita sociale, inclusa la gestione del potere politico[14].

L’ampiezza e la profondità dei cambiamenti sostanziali portati dalla quarta rivoluzione industriale appare evidente dall’elenco delle “novità” previste dal Forum di Davos entro il 2025, alcune delle quali sembrerebbero oggi già realizzate, altre in procinto di esserlo, quanto meno nella propensione sociale e nel consenso che riscuotono:

1) il primo telefonino cellulare “impiantabile” sarà disponibile sul mercato, dando il via allo sfruttamento commerciale delle cosiddette “tecnologie impiantabili” nel corpo umano;

2) l’80 % delle persone avrà una “presenza digitale”, rendendo così irreversibile una tendenza soverchiante tutte le altre forme consuete di “presenza” nel mondo;

3) il 10% degli occhiali da lettura sarà connesso a Internet, trasformando l’occhio umano in una sorta di “interfaccia” tecnologico;

4) il 10% delle persone indosserà indumenti connessi alla rete, rendendo Internet, appunto, “indossabile”;

5) del resto, il 90% della popolazione avrà accesso regolare alla rete che sarà, di conseguenza, “ubiquitaria”;

6) In tanti porteremo un super-computer in tasca: il 90% della popolazione utilizzerà uno smartphone;

7) I supporti per l’archiviazione elettronica dei dati saranno accessibili a “tutti”: il 90% della popolazione utilizzerà dispositivi per l’archiviazione dei dati gratuiti, finanziati esclusivamente attraverso la pubblicità e la cui capacità di memoria sarà praticamente illimitata;

8) L’internet “delle cose” opererà anche senza che noi ce ne renderemo conto, con 1000 miliardi di sensori connessi alla rete;

9) La casa diverrà un punto di connessione: più del 50% del traffico Internet all’interno di un’abitazione riguarderà apparecchi e dispositivi non utilizzati per l’intrattenimento o per la comunicazione;

10) Nasceranno “città intelligenti”, con la prima città di più di 50.000 abitanti priva di semafori;

11) I big data influenzeranno i processi decisionali, tanto che avremo il primo governo che, ai fini del censimento, sostituirà le fonti tradizionali con le informazioni provenienti dai big data.

12) I veicoli diventeranno “autonomi”, costituendo il 10% di tutte le auto circolanti in Paesi come gli Stati Uniti;

13) La prima macchina dotata di intelligenza artificiale diventerà membro di un consiglio di amministrazione aziendale, trasformando radicalmente il rapporto tra tecnologia e potere;

14) L’intelligenza artificiale trasformerà grandemente anche le mansioni impiegatizie, con il 30% delle attività di revisione contabile svolte da macchine dotate di intelligenza artificiale;

15) Questo influsso comincerà a vedersi anche nell’influenza della robotica sui servizi: il primo farmacista robot prenderà servizio negli Stati Uniti;

16) Bitcoin e blockchain diverranno elementi fondamentali dell’economia: il 10% del prodotto interno lordo mondiale sarà conservato all’interno della tecnologia blockchain;

17) La sharing economy sarà sempre più diffusa e a livello globale, per esempio, il ricorso al car sharing per viaggi e spostamenti sarà più frequente rispetto all’uso delle automobili di proprietà;

18) I governi stessi faranno propria la tecnologia blockchain e per la prima volta un governo farà uso di questa tecnologia per riscuotere le imposte;

19) Le attività produttive saranno trasformate dall’introduzione su larga scala della stampa tridimensionale, con la prima auto realizzata attraverso questo processo di produzione;

20) La stampa tridimensionale interverrà anche nei processi di cura e salute dell’uomo: il primo trapianto di un fegato sarà realizzato attraverso la stampa tridimensionale;

21) Ancor più incisivo sarà il ruolo della stampa tridimensionale nel settore dei prodotti di consumo: il 5% di questi prodotti sarà realizzato attraverso la stampa tridimensionale;

22) La “creazione” (sic!) di esseri umani attraverso le nuove tecnologie sarà possibile e nascerà il primo essere umano il cui genoma sarà stato “editato” (a questo proposito, Schwab osserva che le nuove tecnologie hanno permesso soprattutto un gigantesco abbattimento dei costi per giungere a questo risultato e che, nonostante le riserve di ordine etico, apparentemente ancora diffuse, le decisioni politiche porteranno a rendere legittimo l’uso di queste tecnologie, come già avviene, di fatto, in Paesi come la Cina);

23) Anche le neurotecnologie giungeranno al loro “punto di svolta”, con il primo impianto di memoria artificiale nel cervello di un essere umano[15].

Si tratta di trasformazioni che sembrano superare l’immaginazione (e senz’altro la percezione diretta di molti tra noi).

Come porsi di fronte a tutto questo?

Un aspetto interessante dell’opera di Schwab e, in genere, del Forum di Davos è la candida trasparenza con cui si annunciano anche le drammatiche conseguenze che le innovazioni stesse portano nella società, come la distruzione di milioni e milioni di posti di lavoro, fino alla previsione di una nuova “definizione” di ciò che è “umano”.

Non appare, invece, la consapevolezza della deriva tecnocratica di questa rivoluzione, del rischio che i detentori di queste nuove tecnologie possano influenzare il potere politico, o addirittura impossessarsene. Per esempio, la “cultura” del Forum di Davos appare più attenta alla salvaguardia dei “diritti” dei cosiddetti stake-holder nei processi politici e, in genere, decisionali, che di quelli dei cittadini e degli esseri umani. Non appare nemmeno, in effetti, una consapevolezza della convergenza tra la nuova cultura tecnologico-tecnocratica e le tendenze attuali del decostruzionismo, del post- o transumanesimo, della già menzionata cancel (o call-out) culture, quanto meno nella comune considerazione dell’essere umano come mera espressione, tra innumerevoli altre, delle energie vitali di una natura (materia) che l’intelligenza umana (unico elemento privilegiato ancora riconosciuto all’uomo) può plasmare a piacimento fino alla negazione stessa, appunto, dell’umano.

Di fronte a queste trasformazioni, poderose quanto caotiche, si sente la mancanza di una cultura “cattolica” adeguata, di una visione, di un progetto culturale, in grado di porre le basi di quell’interlocuzione reciprocamente rispettosa tra Chiesa e mondo, senza la quale le stesse acquisizioni del Concilio appaiono quasi anacronistiche. Mancare della consapevolezza di questa carenza comporterebbe, a mio parere, il rischio di una definitiva emarginazione, o di una vera e propria esclusione, della fede dal contesto della cultura e della società contemporanee, in un momento storico cruciale che, peraltro, sta facendo emergere in tutta la loro evidenza le contraddizioni dolorose del mondo odierno e i pericoli che corre l’umanità. La rivoluzione tecnologica e la cultura antiumanistica (e anticristiana – questi due atteggiamenti oggi vanno insieme e se ne può riscontrare la coesistenza in numerose voci della cultura contemporanea) non possono fare altro che inasprirli ed esasperarli, specialmente laddove venisse a mancare qualsiasi “segno di contraddizione”, che oggi sembra la cifra autentica di una cultura generata dalla fede.

  1. https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1989/07/22/la-chiesa-la-cortigiana-della-storia.html. Le riflessioni di A. Emo si trovano, oggi, sparse in numerose opere e pagine web, o ancora inedite. La principale raccolta in volume è la seguente: A. Emo, Quaderni di metafisica 1927-1981, a cura di M. Donà e R. Gasparotti, Bompiani, Milano 2006.

  2. Cfr. la ricostruzione di F. Casella, Per conoscere l’Occidente. Un percorso storico-culturale dall’antichità greco-romana ad oggi, LAS, Roma 2002, che esprime un punto di vista significativo nella ricerca e nella didattica delle cosiddette humanities all’interno delle università italiane.

  3. C. Taylor, L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009 (ed. or. 2007).

  4. J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo. Lezioni sul Simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 200312 (ed. or. 1968).

  5. Ivi, pp. 11-49.

  6. «Giambattista Vico enuncia per primo un’idea completamente nuova della verità e della conoscenza, preconizzando così arditamente la formula tipica dello spirito moderno, nel prender posizione di fronte al problema della verità e della realtà. All’equivalenza scolastica verum est ens (il vero è l’ente), egli contrappone il suo principio verum est factum. Il che significa: a noi risulta riconoscibile per vero unicamente ciò che noi stessi abbiamo fatto. A me sembra proprio che questa formula segni davvero la fine dell’antica metafisica e il principio dello spirito tipicamente moderno. La rivoluzione del pensiero moderno contro ogni mentalità passata si presenta qui con una precisione si può dire inimitabile» (Ivi, pp. 28-29).

  7. «Per l’antichità e il medioevo infatti, è l’essere stesso che è vero, e quindi conoscibile, in quanto l’ha fatto Dio stesso, il quale è l’Intelletto per antonomasia; ora, egli l’ha fatto in quanto l’ha prima pensato. Nello Spirito creatore, il creator Spiritus, pensare e fare costituiscono un’inscindibile unità: il suo pensiero è già automaticamente una creazione. Le cose esistono, perché sono da lui pensate. Sicché, per la visione antica e medievale delle cose, ogni essere è un ente pensato, un pensiero dello Spirito assoluto. Ciò comporta reciprocamente questo: siccome ogni essere è anche pensiero, ogni essere è pure significato, logos, verità» (Ivi, p. 29).

  8. «Ne viene che al posto dell’antica equivalenza verità=essere, subentra la nuova equivalenza verità=realtà, conoscibile è soltanto il factum ossia ciò che noi stessi abbiamo fatto. Pertanto, compito e facoltà dello spirito umano non sono quelli di riflettere sull’essere, bensì sul factum, sul fatto compiuto, sul mondo tipico dell’uomo; perché solo questo noi siamo veramente in grado di comprendere. L’uomo non ha creato il cosmo, per cui esso gli rimane impenetrabile nella sua ultima profondità. […] Si viene così a creare una situazione davvero caratteristica. Nello stesso momento in cui si afferma un radicale antropocentrismo, l’uomo deve limitarsi a riconoscere soltanto la sua propria opera, trovandosi al contempo costretto a considerarsi una povera entità meramente casuale, un factum qualsiasi» (Ivi, pp. 30-31).

  9. W. Jaeger, Cristianesimo primitivo e paideia greca, a cura di A. Valvo, Bompiani, Milano 2013 (ed. or. 1961).

  10. «Tradotta nel linguaggio della tradizione filosofica, questa massima [di Marx: “Sinora i filosofi hanno contemplato il mondo; d’ora in poi dovranno accingersi a cambiarlo”] ci viene a dire che al posto del verum quia factum (è conoscibile, pregno di verità, solo ciò che l’uomo ha fatto ed ora è in grado di contemplare), subentra un nuovo programma condensato nella formula verum quia faciendum (la verità che d’ora in poi interessa, è la fattibilità). Per dirla ancora in altri termini: la verità con cui l’uomo ha a che fare, non è né la verità dell’essere, e in ultima analisi nemmeno quella delle azioni da lui compiute; è invece quella del cambiamento del mondo, della sua modellatura: una verità insomma proiettata sul futuro e incarnata nell’azione» (Ivi, pp. 32-33).

  11. «Verum quia faciendum. Vuol dire che dalla metà del secolo diciannovesimo in poi, il dominio autocratico del factum viene gradualmente sempre più soppiantato dalla dittatura del faciendum, del fattibile e da farsi, per cui la signoria della storia viene scacciata da quella della tecnica. […] Il factum ha generato il faciendum; la cosa fatta ha dato origine a quella fattibile, ripetibile, controllabile, ragion per cui ora essa è presente solo in funzione di quest’ultima. Si giunge così alla supremazia del da farsi sul già fatto […]» (Ivi, pp. 33-34).

  12. «Dal punto di vista della situazione spirituale complessiva, la posizione risulta ora radicalmente cambiata: la tecnica non viene ormai più confinata nei sotterranei del palazzo della scienza; o più esattamente ancora: il seminterrato è ormai assurto anche qui ad elemento determinante, nei confronti del quale i “piani superiori della casa” non sembrano restare altro che una dimora di nobili pensionati. La tecnica assurge così a vera abilità e a tassativo dovere dell’uomo. Ciò che sinora era sempre stato in fondo, passa ora in cima; e al contempo si inverte ancora una volta la prospettiva. Mentre in precedenza, nell’antichità e nel medioevo, l’uomo si era mantenuto sempre rivolto verso l’eterno, e poi nel breve periodo di predominio dello storicismo si era buttato sul passato, adesso il faciendum, la smania di fare, lo proietta addirittura nel futuro di ciò che lui stesso è all’altezza di fare» (Ivi, p. 34).

  13. K. Schwab, La quarta rivoluzione industriale, Franco Angeli, Milano 2016 (ed. or. 2016); Id., Governare la quarta rivoluzione industriale, Franco Angeli, Milano 2019 (ed. or. 2018).

  14. K. Schwab, Mallert T., Covid-19: The Great Reset, Forum Publishing, Geneva 2020.

  15. Cfr. K. Schwab, La quarta rivoluzione industriale, cit., pp. 145-208.

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Furio Pesci

Furio Pesci è professore ordinario di storia della pedagogia presso la Facoltà di Medicina e Psicologia della Sapienza Università di Roma. È presidente del Comitato Scientifico della Fondazione Montessori Italia e direttore della rivista della Fondazione, Mondo Montessori. Partecipa ai comitati scientifici di varie riviste internazionali (Ethos, Revista Latino-Americana de Educacion Infantil, ecc.).

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